L'impressione che si riceve
dall'aspetto del paesaggio prima d'arrivare a Milano, per quaranta o cinquanta
chilometri di ferrovia, è malinconica. La pianura vi fugge dinanzi verso un
orizzonte vago, segnato da interminabili file di gelsi e di olmi scapitozzati,
uniformi, che non finiscono mai; cogli stessi fossati diritti fra due file di
alberelli, colle medesime cascine sull'orlo della strada, in mezzo al verde
pallido delle praterie. Verso sera, allorché sorge la nebbia, il sole tramonta
senza pompa, e il paesaggio si vela di tristezza.
D'inverno un immenso strato di
neve a perdita di vista, costantemente rigato da sterminate file d'alberi nudi,
tirate colla lenza, a diritta, a sinistra, dappertutto, sino a perdersi nella
nebbia. Di tratto in tratto, al fischio improvviso della macchina, vi si
affaccia allo sportello, e scappa come una visione un campanile di mattoni, un
fienile isolato e solitario. Sicché finalmente appena nella sconfinata pianura
bianca, fra tutte quelle linee uniformi, vi appare del cielo smorto la guglia
bianca del Duomo, il vostro pensiero si rifugia frettoloso nella vita allegra
della grande città, in mezzo alla folla che si pigia sui marciapiedi, davanti
ai negozi risplendenti di gas, sotto la tettoia sonora della Galleria, nella
luce elettrica del Gnocchi, nella fantasmagoria di uno spettacolo alla Scala,
dove sboccia come in una serra calda la festa della luce, dei colori e delle
belle donne.
I dintorni di Milano sono modellati
sulle linee severe di questo paesaggio. Basta salire sul Duomo in un bel giorno
di primavera per averne un'impressione complessiva. È un'impressione grandiosa
ma calma. Al di là di quella vasta distesa di tetti e di campanili che vi
circonda, tutta allo stesso livello, si spiega la pianura lombarda, di un verde
tranquillo, spianata col cilindro, spartita colle seste, solcata da canali
diritti, da strade più diritte ancora, da piantagioni segnate col filo, senza
un'ondulazione di terreno e senza una linea capricciosa in gran parte. L'occhio
la percorre tutta in un tratto sino alla cinta delle Alpi ed alle colline della
Brianza. E se rimaneste un giorno intero lassù non ne avreste un'impressione
nuova, né scoprireste un altro dettaglio. È la stessa cosa percorrendo i
dintorni immediati della città. Sempre le stesse strade più o meno diritte,
fiancheggiate dagli stessi alberi; il medesimo fossato da una parte, o il
medesimo canale dall'altra, lo stesso muro grigio, rotto di tanto in tanto dal
portone di una fabbrica, sormontato da un fumaiuolo nero che sporca il cielo
azzurro, gli stessi orti chiusi tra filari di gelsi e divisi in scompartimenti
di cavoli e lattughe senza mutar di prospettiva. Sicché la cosa più difficile
per un viandante pare che dovrebbe essere di riconoscere la sua strada fra
quelle altre cento strade che si somigliano tutte, e per un proprietario di
ritrovare il suo podere fra tutti quei poderi fatti sul medesimo stampo.
Nondimeno il milanese ha la
passione della campagna. Bisogna vederlo a San Giorgio o in qualche altra festa
campestre per farsene un'idea. Appena la stagione comincia a farsi mite e il
ciglio dei fossati a verdeggiare, tutti corrono fuori del dazio, a
godersi il verde sminuzzato a quadretti, e ad empirsi i polmoni di polvere.
Codesto è il motivo di tante osterie di campagna, di tante isole, di
tanti giardini piantati in botti da petrolio. Allora le strade melanconiche, i
ciglioni intristiti, i quadrelli di verdura pallida formicolano di un'altra
vita, risuonano di organetti, di chitarre, di allegria chiassosa e bonaria.
L'uniformità del fondo dà
alcunché di piccante alla varietà delle macchiette. Qui il paesaggio, in un
orizzonte sconfinato, è circoscritto costantemente fra due file di alberi,
lungo due muri polverosi, fra le sponde di un canale diritto, smorto, che
sembra immobile, ombreggiato dacché spuntano i primi germogli sinché cadano le
ultime foglie, e i raggi del sole non hanno più colori né festa. La mucca che
leva il muso grondante d'acqua, un gruppo di contadine che lavorano nei campi,
e mettono sul prato la nota gaia delle loro gonnelle rosse, la carretta che va
lentamente per la stradicciuola, un desco zoppicante sotto il pergolato di
un'osteria, coll'operaio in maniche di camicia, e la sua donna coi gomiti sulla
tovaglia e gli occhi imbambolati, due cavalli da lavoro accanto a una carretta
colle stanghe in aria, davanti a una porta chiusa, sono tutti i quadri della
campagna milanese, su di un fondo uniforme. Lo spettacolo grandioso di un
tramonto bisogna andare a vederlo in Piazza d'Armi, su quella bella spianata
che corre dal Castello all'Arco del Sempione; e tuttavia l'effetto più
grandioso gli viene dalle linee stupende del monumento, sul fondo opalino, e da
quei cavalli di bronzo che si stampano come una visione del bello dell'arte, in
alto, nella gloria degli ultimi raggi.
Ma la ineffabile melanconia di
quell'ora non l'ho mai provata come in una delle Certose dei dintorni di
Milano. Colà, in mezzo a mirabili pagine d'arte, la luce muore nelle invetriate
dipinte, vi sorprende uno strano sentimento della vanità dell'arte e della
vita, un incubo del nulla che vi si stringe attorno da ogni parte, dalla
campagna silenziosa e uniforme. Io non ho mai passata un'ora più tetra come quella
che provai in uno di quei cortiletti di verdura cupa della Certosa di Pavia,
chiusi fra quattro mura di cimitero, e allietati da quattro file di bosso, nel
caldo meriggio d'aprile, in cui non si udiva il ronzare delle mosche.
Di cotesta impressione alquanto
melanconica del paesaggio milanese ne avete un effetto anche ai Giardini
pubblici, dove mettendo sottosopra il tranquillo suolo lombardo sono riesciti a
rendere un po' del vario e pittoresco che è la bellezza della campagna. Il
popolo però li ha cari, e nei giorni di festa e di sole ci reca in folla la sua
allegria e la sua vita. Tutto ciò infine prova che Milano è la città più città
d'Italia. Tutte le sue bellezze, tutte le sue attrattive sono nella sua vita
gaia ed operosa, nel risultato della sua attività industre. Il più bel fiore di
quella campagna ricca ma monotona è Milano; un prodotto in cui l'uomo ha fatto
più della natura. Che importa a Milano se non ha che 3 o 400 metri di
passeggiata, da Porta Venezia al ponte della via Principe Umberto? I suoi
equipaggi non sono splendidi quanto quelli della Riviera di Chiaja e delle
Cascine? e la prima domenica di quaresima, quando il sole scintilla sugli
arnesi lucenti, e sui colori delicati, per tutte quelle file di cocchi e di
cavalli, in mezzo a quella folla elegante che formicola nei viali, col fondo
maestoso di quelle Alpi ancora bianche di neve, il cielo trasparente e gli
ippocastani già picchettati di verde, lo spettacolo non è bello? e quando il
teatro alla Scala comincia ad essere troppo caldo anche per le spalle nude, e
l'alba imbianca troppo presto sulle finestre delle sale da ballo, Milano non ha
la sua Brianza per farvi trottare i suoi equipaggi? non ha i laghi per
rovesciarvi la piena della sua vita elegante? non ha Varese per farvi correre i
suoi cavalli? Le passeggiate e i dintorni di Milano sono un po' lontani, è
vero; ma sono fra i più belli del mondo.
Io mi rammento ancora della prima
gita che feci al Lago di Como, in una giornata soffocante di luglio, dopo una
di quelle estati di lavoro e di orizzonti afosi che vi mettono in corpo la
smania del verde e dei monti.
La prima torre sgangherata che
scorsi in cima alla montagna posta a guardia del lago mi si stampò dinanzi agli
occhi come un faro di pace, di riposo, di freschi orizzonti. Il paesaggio era
ancora uniforme. Tutt'a un tratto, dalle alture di Gallarate, vi si svolge
davanti un panorama che è una festa degli occhi. Allorché vi trovate per la
prima volta sul ponte del battello a vapore, rimanete un istante immobile, e
colla sorpresa ingenua del piacere stampata in faccia, né più né meno di un
contadino che capiti per sorpresa in una sala da ballo. L'ammirazione è ancora
d'impressione, vaga e complessiva. Non è lo spettacolo grandioso del Lago
Maggiore, né quello un po' teatrale del Lago di Lugano visto dalla Stazione. È
qualche cosa di più raccolto e penetrante. Tutto il Lago di Como a prima vista
è in quel bacino da Cernobbio a Blevio, e la prima idea netta che vi sorga è di
sapere da che parte se n'esca.
A poco a poco comincia a sorgere
in voi come un'esuberanza di vita, quasi un'esultanza di sensazioni e di
sentimenti, a misura che lo svariato panorama si va svolgendo ai vostri occhi.
Sentite che il mondo è bello, e se mai non l'avete avuta, principia a spuntare
in voi, come in un bambino, la curiosità di vederlo tutto, così grande e ricco
e vario, di là di quelle cime brulle, oltre quei boschi che si arrampicano come
un'immensa macchia bruna sui dossi arditi, dopo quei campanili che sorgono da
un folto d'alberi, di quelle cascate che biancheggiano un istante nella
fenditura di un burrone, di quelle ville posate come un gingillo, su di un
cuscino di verdura, che vi creano in mente mille fantasie diverse, e la vostra
immaginazione popola di figure leggiadre, dietro le stoie calate ed i vetri
scintillanti, in quelle barchette leggiere che battono il remo silenzioso come
un'ala, e si dileguano mollemente, con un cinguettìo lontano di voci fresche,
strascinandosi dietro delle bandiere a colori vivaci. È come un sogno in mezzo
a cui passate, e vi sfila dinanzi Villa d'Este elegante, Carate civettuolo,
Torno severo, e Balbianello superbo. Poi come tutt'a un tratto vi si allarga
dinanzi la Tremezzina quasi un riso di bella fanciulla, nell'ora in cui sulla
Grigna digradano le ultime sfumature di un tramonto ricco di colori e Bellagio
comincia a luccicare di fiammelle, e il ramo di Colico si fa smorto, di là di
Varenna, e Lenno e San Giovanni vi mandano le prime squille dell'Avemaria, voi
vi chinate sul parapetto a mirare le stelle che ad una ad una principiano a
riflettersi sulla tranquilla superficie del lago, e appoggerete la fronte sulla
mano sentendovi sorgere in petto del pari ad una ad una tutte le cose care e
lontane che ci avete in cuore, e dalle quali non avreste voluto staccarvi mai.
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