Il sermone del Paradiso chiudeva
il corso degli esercizi spirituali per le monache, dopo la sottile analisi
delle colpe recondite, la fosca descrizione del gastigo, e gli anatemi contro
il peccato. La voce del predicatore adesso levavasi alta ed esultante nel sole
di Pasqua che scintillava sulle dorature della vòlta. Giù in chiesa una dozzina
di donnicciuole pregavano inginocchiate dinanzi all'altare della Vergine
splendente di ceri. Dietro la grata del coro biancheggiavano confusamente i
soggoli e i visi delle suore impalliditi nella clausura e nella penitenza;
luccicavano degli occhi perduti nell'estasi di visioni luminose. La voce del
missionario, grave e calda, scendeva ai toni bassi come una confidenza e una
carezza, saliva trionfante come un inno, modulava i pensieri e le aspirazioni
di tutte quelle vergini tentate e sbigottite dal mondo, andava a ricercare le
più intime fibre di quei cuori chiusi nelle sacre bende e li faceva palpitare
avidamente, aveva tutti gli slanci, le trepidazioni, come dei sospiri d'amore e
d'estasi che morivano ai piedi della croce, e facevano intravvedere quasi un
balenìo d'ali iridescenti, dei brividi di carni rosse di cherubini che
passavano fra nuvole trasparenti, in un'aureola, in ampie distese color di
cielo e color d'oro. L'uomo era tutto in quella voce, in quell'inno, in quella
letizia: il viso scorgevasi appena, come trasfigurato, nell'ombra del pulpito:
degli occhi luminosi, ardenti di fede, pieni di visioni celesti, il viso
pallido ed ascetico, immateriale, il segno austero della tonsura sui capelli
giovanili, e la mano bianca ed immacolata che accennava, essa sola in luce,
fuori della nicchia scura, e pareva stendersi verso le peccatrici, per
sollevarle al cielo in un amplesso di perdono e d'affetto, dopo essersi levata
minacciosa a fulminare, dopo esser scesa a frugare nei cuori, dopo aver sentito
palpitare la tentazione, e i fremiti e le ribellioni della carne. Ora quella
mano facevasi lieve, morbida e carezzevole, al pari della voce che addolcivasi
in un mormorio affettuoso e in una promessa soave, nella quale passava l'alito
di carità, di pietà immensa, e si umiliava, e implorava, e facevasi complice
delle povere anime turbate e derelitte, per incoraggiarle, sostenerle e
attirarle a Dio.
Egli parlava rivolto al coro,
quasi attratto anch'esso dalla simpatia ardente che vi destava, come
indovinasse i cuori che rispondevano al suo e gli si aprivano sitibondi. Ivi
pure delle teste tonsurate si chinavano, delle labbra tremavano commosse, dei
veli candidi palpitavano sui seni incontaminati, sfiorati soltanto dai fremiti
che sorgono nelle tenebre, nelle notti irrequiete e paurose.
Il sagrestano s'alzò d'appiè del
pulpito e andò ad accendere le altre candele dell'altare - una gloria di
fiammelle tremolanti, delle gocce di splendore nella mattinata limpida, nella
gaiezza primaverile, nel profumo dei fiori, e dell'incenso, nel suono grave
dell'organo che levavasi dalle profondità misteriose del coro - un canto alato,
un inno di grazie e di gloria che irrompeva, e libravasi al cielo trionfante.
Fra le monache raccolte nel coro una voce bella e fresca intuonò il Tantum
ergo, una voce di donna che sembrava cantare la giovinezza, l'amore, il
sogno, l'azzurro, i fiori e la vita in quell'inno religioso, una voce che aveva
le lagrime, le estasi, i sorrisi, la gioventù, la bellezza, e li deponeva
trepidante ai piedi dell'altare. Il frate orava in ginocchio, a capo chino.
Sembrava che a quel canto si riverberassero delle sfumature rosee sulla nuca
bianca d'adolescenza casta e prolungata. Egli stesso sembrava quasi immateriale
fra le pieghe molli della tonaca nera che cadeva sui gradini dell'altare,
simile a una veste muliebre. Poi sorse un'irradiazione abbagliante, una gloria
di raggi che ecclissò, nell'aureola dell'ostensorio gemmato, l'uomo segnato
dalla stola d'oro, come in una croce, sulla cotta spumante di trine al pari di
un abito da sposa. Tutte le teste si prostrarono umiliate. Le campane
squillarono alte in un coro festante, insieme alle note gravi e sonore
dell'organo che vibravano sotto la vòlta dorata della chiesa, irrompevano dalle
finestre dipinte, pel cielo azzurro, nella primavera gioconda, sotto il sole
radioso, mentre il canto moriva in un'estasi sovrumana.
Suor Crocifissa era rimasta
accanto all'organo, colle mani ancora erranti sulla tastiera, le labbra
palpitanti dell'inno d'amore mistico, smarrita nella visione interiore di quegli
splendori che alla sua anima esaltata dalla musica, dalla reclusione, dal
digiuno, dal cilicio e dalla preghiera in comune recavano uno sgomento e una
dolcezza nuova della vita, un turbamento degli echi e degli incitamenti che
venivano a morire sotto le mura del convento colla canzone errante, coi rumori
del vicinato, colla carezza della luna che entrava dall'alta inferriata a
posarsi sul lettuccio verginale, e tentava il mistero pudibondo della cella
solitaria, e vi destava le curiosità timide, le fantasie vagabonde, e gli
scrupoli vaghi che annidavansi nell'ombra. Ella sentiva ora una bramosia calda,
un desiderio quasi carnale di mondarsi l'anima e lo spirito di quelle
allucinazioni peccaminose, di difendersi dal mondo, di agguerrirsi contro la
tentazione, coll'aiuto di quell'uomo il quale discerneva la via della colpa coi
suoi occhi luminosi e insinuavasi nei cuori colla voce soave, e scacciava il
peccato colla mano fine e bianca, e parlava dell'amore eterno con accento
d'innamorato. - Accostarsi a lui, essere con lui, confondersi in lui. - Avere
in quell'uomo purificato dal sacramento il consigliere, il conforto, l'amico,
il confidente, il perdono, la verità e la luce.
Una suora la toccò dolcemente
sull'omero. Ella si scosse e la seguì vacillante, cogli occhi ardenti di fede,
premendo colle mani ceree in croce sul seno il cuore che sbigottiva di
passione, chinando il capo umiliato dall'umana miseria nella benda che chiudeva
le trecce recise e incorniciava il viso di un'altra bianchezza fredda, sbattuta,
stirata d'angoscia, illividita da vigilie tormentose, come la sua povera anima
sbigottita, e chiese alla superiora il permesso di confessarsi al predicatore.
L'abbadessa acconsentì, alzando la mano a benedire, leggendo forse le stesse
inquietudini dolorose che avevano provato la sua giovinezza trascorsa in quelle
sopracciglia lunghe e nere, e in quelle labbra dolorose, soltanto vive nel viso
mortificato ed austero.
Lì, attraverso la grata del
confessionario che aguzzava il mistero e rincorava la coscienza trepida,
aprirgli il cuore, tutto, coi suoi palpiti, colle sue angosce, coi suoi pudori.
Parlare d'amore con lui, parlargli di colpa e di perdizione, dirgli quello che
non avrebbe osato mormorare sottovoce, da sola ai piedi del crocifisso muto.
Udire il suono delle proprie parole, colla fronte ardente su quella grata di
ferro dietro alla quale lui ascolatava. Intravvedere il riflesso dei propri
pensieri, delle proprie allucinazioni, dei propri terrori su quella testa
china. Vedere arrossire e impallidire del pari quella fronte pura. Aver lì,
sotto il proprio anelito concitato, quel sacerdote, quella coscienza,
quell'intelletto, quella carità, quel turbamento, quella simpatia, quell'uomo,
trasfigurato dall'abito sacro, legato dal vingolo indissolubile, segnato fra
gli eletti dalla tonsura religiosa, agitato al par di lei, sbigottito come lei,
palpitante come lei, mentre la sua voce velata giungeva a lei come attraverso
la lapide di una tomba, per consigliare, per sorreggere, per consolare,
sommessa, confidente, nel mistero, nel segreto delizioso della chiesa deserta.
E vederlo trasalire sotto l'angoscia della passione di lei, vederlo arrossire
al riverbero della sua vergogna, vedere il soffio infocato della sua parola che
implorava aiuto, scendere sino in fondo a quell'uomo, e destare in lui le
debolezze istesse perché ne sentisse la miseria e la pietà, e rifiorirgli nei
brividi e nei pallori improvvisi della carne. Sentirsi ricercare nel più
profondo del cuore e delle viscere da quella voce dolce e insinuante, nel più
vivo, nel segreto, dove s'annidiavano e rabbrividivano pensieri, e desideri, e
palpiti ch'essa stessa non avrebbe neppur sospettato - la confusione dolce, il
rossore trepido, l'abbandono del pudore violentato, - e darsi tutta a lui come
in uno smarrimento dei sensi. Scorgere in lui, nel consigliere, nel ministro,
nel forte, la simpatia di quelle debolezze, la pietà di quei dolori; sentire
nella sua voce commossa l'eco e il fascino trepido delle medesime inquietudini
- con una tenerezza trepida per lui, maggiormente esposto al pericolo, votato
alla lotta col peccato, solo nel mondo, nella tentazione, senza altra difesa
che quell'abito che trasfigurava l'uomo, e il segno irrevocabile della tonsura
come un marchio di castità sui capelli castagni - con un desiderio materno di
stringersi al petto quel viso impallidito e sbattuto dalle medesime angosce,
quel capo tonsurato in cui bollivano le stesse febbri, onde proteggerlo e
difenderlo.
Egli ascoltava, raccolto, colla
fronte velata dalla mano scarna, gli occhi vaghi e senza sguardo. Passavano dei
bagliori di tanto in tanto in quegli occhi pensierosi, dei fantasmi che
dileguavano dinanzi alla volontà severa, dei fremiti destati da quell'alito
caldo e profumato di donna, dalla parola commossa, l'ombra di tutte le
debolezze, di tutte le miserie, di tutti gli allettamenti, le effusioni, le
dolcezze, gli struggimenti, le febbri, le estasi. Con lei rifaceva l'aspro
cammino che avevano fatto verso la croce quei piedi delicati. Rivedeva la
fanciullezza orfana, l'adolescenza precocemente mortificata, la gioventù
scolorita e trista, l'agonia dello spirito e le ribellioni della carne. Fuori,
il cielo azzurro, l'ampia distesa dei prati, il sole, la luce, l'aria, lontani,
perduti in un mondo al quale non apparteneva più, - e la gran rinunzia di tutto
ciò, per sempre! - E pensava qual eco dovesse avere fra quelle mura claustrali
la voce di un uomo o il pianto di un bambino, il brivido che doveva portarvi il
profumo di un fiore o un raggio di primavera. - Le fronti pallide che
trasalivano, gli occhi spenti che guardavano lontano, le labbra che mormoravano
inconsciamente accenti desolati. E sentiva una grande pietà, una gran tenerezza
per quelle povere anime che tendevano al cielo strette ancora fra i legami
della terra, per quei gemiti d'agonia che si tradivano nella parola esitante e
supplichevole, per quelle mani tremanti che si stendevano verso di lui, che
cercavano di aggrapparsi alla vita, al perdono, alla fede, alla costanza, e che
doveva lasciarsi cadere ai piedi, insensibile e inesorabile, che doveva
abbandonare dietro di sé continuando sulla terra il suo pellegrinaggio
d'apostolato, e scuotendo i lembi della sua tonaca perché non si contaminasse a
quella seduzione, - anch'esso solitario, legato soltanto dalla disciplina
dell'ordine alla fredda famiglia religiosa, senza genitori, senza casa, senza
patria, passando sulla terra cogli occhi rivolti al cielo, fallendo se
inciampava, se le spine del cammino gli insanguinavano le carni, o le voci del
mondo penetravano nelle sue orecchie, se la vita batteva nelle sue arterie o
tumultuava nel suo cuore, se la tentazione di quell'incognita, il ricordo di
quella sconosciuta che si era data a lui in ispirito, in un momento di mistico
abbandono, veniva a turbare la sua fantasia o a fargli tremare la preghiera
sulle labbra.
Un campanello squillò. Il prete
cinse la stola fulgida che lo sollevava dalla terra, e si accinse a
comunicarla. Ella genuflessa dinanzi allo sportellino aperto della grata
annichilivasi nella contemplazione degli splendori celesti che apriva la sfera
d'oro. Un languore soave, una calma infinita, una dolcezza ineffabile per tutto
l'essere: la battaglia vinta, il cuore librantesi nella fede, il conforto, la
forza, l'ardore di quell'ostia consacrata che scendeva nel suo petto e si
confondeva col suo sangue - l'ostia che le posava lui stesso sulle labbra
trepide, colle mani trepide, mormorando soavemente le parole sacramentali,
chinando gli occhi, dolci, come velati da una visione interiore nelle occhiaie
profonde e misteriose, sul viso sbattuto ed emaciato anch'esso. - Egli la vide
quel momento solo, in quell'abbandono, in quella bramosia arcana, in
quell'estasi, colle pupille smarrite, il viso trasfigurato, in un'irradiazione
candida di veli, sporgendo le labbra avide e innamorate.
Essa chinò il capo, nell'atto di
ringraziamento, in un torpore e in uno sfinimento delizioso di tutta se stessa.
La chiesa tornò vuota e silenziosa come una tomba.
Il missionario era andato via per
sempre, continuando il suo viaggio di carità, lasciando a lei la benedizione di
quella pace e di quella fede. Essa lo accompagnava col pensiero per strade e
per paesi sconosciuti; vedeva ancora quegli occhi dolci, quel viso emaciato,
quella tonaca fluttuante dietro la sua persona esile, in altre chiese risonanti
della sua parola, dinanzi ad altre monache palpitanti; lo seguiva nei rumori
che giungevano dalla via, nelle notti stellate, nel cielo che stendevasi al di
là delle inferriate claustrali. Era un grande sconforto, un isolamento più
tristo, come un abbandono. Poi, quando la sua coscienza inquieta cominciò a
ridestarsi, pregò una delle sorelle anziane che aveva sofferto e dubitato come
lei d'intercedere presso l'antico confessore, il quale si rifiutava a
confessarla geloso che essa gli avesse preferito una volta il predicatore di
passaggio. Era un vecchio incanutito nel confessionario, con dei grandi occhi
chiari e penetranti, abituati a guardare nelle tenebre dei cuori, e il pallore
delle lunghe confidenze e delle attese pazienti sulle guance incavate.
- No. Io non servo di ripiego...
M'ha messo da banda una volta; si cerchi un altro confessore...
- Ma essa aveva sempre la
speranza...
- Speranza si chiama vossignoria.
Essa chiamasi suor Crocifissa -.
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