PARTE TERZA.
-1-
L'Isabellina, prima ancora di
compire i cinque anni, fu messa nel Collegio di Maria. Don Gesualdo adesso che
aveva delle pietre al sole, e marciava da pari a pari coi meglio del paese,
così voleva che marciasse la sua figliuola: imparare le belle maniere, leggere
e scrivere, ricamare, il latino dell'uffizio anche, e ogni cosa come la figlia
di un barone; tanto più che, grazie a Dio, la dote non le sarebbe mancata,
perché Bianca non prometteva di dargli altri eredi. Essa dopo il parto non
s'era più rifatta in salute; anzi deperiva sempre più di giorno in giorno, rosa
dal baco che s'era mangiati tutti i Trao, e figliuoli era certo che non ne
faceva più. Un vero gastigo di Dio. Un affare sbagliato, sebbene il galantuomo
avesse la prudenza di non lagnarsene neppure col canonico Lupi che glielo aveva proposto. Quando uno ha fatto
la minchioneria, è meglio starsi zitto e non parlarne più, per non darla vinta
ai nemici. - Nulla, nulla gli aveva fruttato quel matrimonio; né la dote, né il
figlio maschio, né l'aiuto del parentado, e neppure ciò che gli dava prima
Diodata, un momento di svago un'ora di buonumore, come il bicchiere di vino a
un pover'uomo che ha lavorato tutto il giorno, là! Neppur quello! - Una moglie
che vi squagliava fra le mani, che vi faceva gelare le carezze, con quel viso,
con quegli occhi, con quel fare spaventato, come se volessero farla cascare in
peccato mortale ogni volta e il prete non ci avesse messo su tanto di croce
prima quand'ella aveva detto di sì... Bianca non ci aveva colpa. Era il sangue
della razza che si rifiutava. Le pesche non si innestano sull'olivo. Ella,
poveretta, chinava il viso, arrivava ad offrirlo anzi, tutto rosso, per
ubbidire al comandamento di Dio, come fosse pagata per farlo...
Ma egli non si lasciava illudere, no. Era villano, ma aveva il
naso fino di villano pure! E aveva il suo orgoglio anche lui. L'orgoglio di
quello che aveva saputo guadagnarsi, colle sue mani, tutto opera sua, quei
lenzuoli di tela fine in cui dormivano voltandosi le spalle, e quei bocconi
buoni che doveva mangiare in punta di forchetta, sotto gli occhi della Trao...
Almeno in casa sua voleva
comandar le feste. E se Domeneddio l'aveva gastigato giusto nei figliuoli che
voleva mettere al mondo secondo la sua legge, dandogli una bambina invece
dell'erede legittimo che aspettava, Isabella almeno doveva possedere tutto ciò
che mancava a lui, essere signora di nome e di fatto. Bianca, quasi indovinasse
d'aver poco da vivere, non avrebbe voluto separarsi dalla sua figliuoletta. Ma
il padrone era lui, don Gesualdo. Egli era buono, amorevole, a modo suo; non le
faceva mancare nulla, medici, speziali, tale e quale come se gli avesse portato
una grossa dote. - Bianca non aveva parole per ringraziare Iddio quando
paragonava la casa in cui il Signore l'aveva fatta entrare con quella in cui
era nata. Lì suo fratello stesso desiderava di giorno il pane e di notte le
coperte... Sarebbe morto di stenti se i suoi parenti non l'avessero aiutato con
bella maniera, senza farglielo capire. Soltanto da lei don Ferdinando non
voleva accettare checchessia, mentre don Gesualdo non gli avrebbe fatto mancar
nulla, col cuore largo quanto un mare, quell'uomo! Gli stessi parenti di lei
glielo dicevano: - Tu non hai parole
per ringraziare Dio e tuo marito. Lascia fare a lui ch'è il padrone, e cerca il
meglio della tua figliuola.
Poi considerava ch'era il Signore
che la puniva, che non voleva quella povera innocente nella casa di suo marito,
e la notte inzuppava di lagrime il guanciale. Pregava Iddio di darle forza, e
si consolava alla meglio pensando che soffriva in penitenza dei suoi peccati.
Don Gesualdo, che aveva tante altre cose per la testa, tanti interessi grossi
sulle spalle, ed era abituato a vederla sempre così, con quel viso, non ci
badava neppure. Qualche volta che la vedeva alzarsi più smorta, più disfatta
del solito, le diceva per farle animo:
- Vedrai che quando avrai messo
in collegio la tua bambina sarai contenta tu pure. È come strapparsi un dente.
Tu non puoi badare alla tua figliuola, colla poca salute che hai. E bisogna che
quando sarà grande ella sappia tutto ciò che sanno tante altre che sono meno
ricche di lei. I figliuoli bisogna avvezzarli al giogo da piccoli, ciascuno
secondo il suo stato... Lo so io!... E non ho avuto chi mi aiutasse, io! Quella
piccina è nata vestita.
Nondimeno, all'ultimo momento vi
furono lagrime e piagnistei, quando accompagnarono l'Isabellina al parlatorio
del monastero. Bianca s'era confessata e comunicata. Ascoltò la messa
ginocchioni, sentendosi mancare, sentendosi strappare un'altra volta dalle
viscere la sua creatura che le si aggrappava al collo e non voleva lasciarla.
Don Gesualdo non guardò a spesa
per far stare contenta Isabellina in
collegio: dolci, libri colle figure, immagini di santi, noci col bambino Gesù
di cera dentro, un presepio del Bongiovanni che pigliava un'intera tavola:
tutto ciò che avevano le figlie dei primi signori, la sua figliuola l'aveva; e
i meglio bocconi, le primizie che offriva il paese, le ciriegie e le albicocche
venute apposta da lontano. Le altre ragazzette guardavano con tanto d'occhi, e
soffocavano dei sospiri grossi così. La minore delle Zacco, e le Mèndola di
seconda mano, le quali dovevano contentarsi delle cipolle e delle olive nere
che passava il convento a merenda, si rifacevano parlando delle ricchezze che
possedevano a casa e nei loro poderi. Quelle che non avevano né casa né poderi,
tiravano in ballo il parentado nobile, il Capitano Giustiziere ch'era fratello
della mamma, la zia baronessa che aveva il cacciatore colle penne, i cugini del
babbo che possedevano cinque feudi l'uno attaccato all'altro, nello stato di
Caltagirone. Ogni festa, ogni Capo d'anno, come la piccola Isabella riceveva
altri regali più costosi, un crocifisso d'argento, un rosario coi gloriapatri
d'oro, un libro da messa rilegato in tartaruga per imparare a leggere,
nascevano altre guerricciuole, altri dispettucci, delle alleanze fatte e
disfatte a seconda di un dolce e di un'immagine data o rifiutata. Si vedevano
degli occhietti già lucenti d'alterigia e di gelosia, dei visetti accesi, dei
piagnistei, che andavano poi a sfogarsi nell'orecchio delle mamme, in
parlatorio. Fra tutte quelle piccine, in tutte le famiglie, succedeva lo stesso
diavoleto che mastro-don Gesualdo aveva fatto nascere nei grandi e nel paese.
Non si sapeva più chi poteva spendere e chi no. Una gara fra i parenti a buttare
il denaro in frascherie, e una confusione generale fra chi era stato sempre in
prima fila, e chi veniva dopo. Quelli che non
potevano, proprio, o si seccavano a spendere l'osso del collo pel buon
piacere di mastro-don Gesualdo, si lasciavano scappare contro di lui certe
allusioni e certi motteggi che fermentavano nelle piccole teste delle educande.
Alla guerra intestina pigliavano parte anche le monache, secondo le relazioni,
le simpatie, il partito che sosteneva oppure voleva rovesciare la superiora. Ci
si accaloravano fin la portinaia, fin le converse che si sentivano umiliate di
dover servire senz'altro guadagno anche la figliuola di mastro-don Gesualdo,
uno venuto su dal nulla, come loro, arricchito di ieri. Le nimicizie di fuori,
le discordie, le lotte d'interessi e di vanità, passavano la clausura,
occupavano le ore d'ozio, si sfogavano fin là dentro in pettegolezzi, in
rappresaglie, in parole grosse. - Sai come si chiama tuo padre? mastro-don
Gesualdo. - Sai cosa succede a casa tua? che hanno dovuto vendere una coppia di
buoi per seminare le terre. - Tua zia Speranza fila stoppa per conto di chi la
paga, e i suoi figliuoli vanno scalzi. - A casa tua c'è stato l'usciere per
fare il pignoramento. - La piccola Alimena arrivò a nascondersi nella scala del
campanile, una domenica, per vedere se era vero che il padre d'Isabella
portasse la berretta.
Egli trovava la sua figliuoletta
ancora rossa, col petto gonfio di singhiozzi, volgendo il capo timorosa di
veder luccicare dietro ogni grata gli occhietti maliziosi delle altre piccine,
guardandogli le mani per vedere se davvero erano sporche di calcina, tirandosi
indietro istintivamente quando nel baciarla la pungeva colla barba ispida. Tale
e quale sua madre. - Così il pesco non s'innesta all'ulivo. - Tante punture di spillo; la stessa cattiva sorte che gli
aveva attossicato sempre ogni cosa giorno per giorno; la stessa guerra
implacabile ch'era stato obbligato a combattere sempre contro tutto e contro
tutti; e lo feriva sin lì, nell'amore della sua creatura. Stava zitto, non
lagnavasi, perché non era un minchione e non voleva far ridere i nemici; ma
intanto gli tornavano in mente le parole di suo padre, gli stessi rancori, le
stesse gelosie. Poi rifletteva che ciascuno al mondo cerca il suo interesse, e
va per la sua via. Così aveva fatto lui con suo padre, così faceva sua figlia.
Così dev'essere. Si metteva il cuore in pace, ma gli restava sempre una spina
in cuore. Tutto ciò che aveva fatto e faceva per la sua figliuola l'allontanava
appunto da lui: i denari che aveva speso per farla educare come una signora, le
compagne in mezzo alle quali aveva voluto farla crescere, le larghezze e il
lusso che seminavano la superbia nel cuore della ragazzina, il nome stesso che
le aveva dato maritandosi a una Trao - bel guadagno che ci aveva fatto! - La
piccina diceva sempre: - Io son figlia della Trao. Io mi chiamo Isabella Trao.
La guerra si riaccese più viva
fra le ragazze quando si maritò don Ninì Rubiera: - S'è vero che siete parenti,
perché tuo zio non ti ha mandato i confetti? Vuol dire che voialtri non vi
vogliono per parenti. - L'Isabellina, che rispondeva già come una grande,
ribatté:
- Mio padre me li comprerà lui i
confetti. Ci siamo guastati coi Rubiera perché ci devono tanti denari. - La
figlia della ceraiuola, ch'era del suo partito, aggiunse tante altre storie: -
Il baronello era uno spiantato. La Margarone non aveva più voluto saperne.
Sposava donna Giuseppina Alòsi più vecchia di lui, perché non aveva trovato
altro, per amor dei denari: tutto ciò che narravasi nella bottega di sua madre,
in ogni caffè, in ogni spezieria, di porta in porta.
Nel paese non si parlava d'altro
che del matrimonio di don Ninì Rubiera. - Un matrimonio di convenienza! -
diceva la signora Capitana che parlava sempre in punta di forchetta. Cogli
anni, la Capitana aveva preso anche i vizii del paese; occupavasi dei fatti
altrui ora che non aveva da nasconderne dei propri. Allorchè incontrava il
cavalier Peperito gli faceva un certo visetto malizioso che la ringiovaniva di
vent'anni, dei sorrisi che volevano indovinare molte cose, scrollando il capo,
offrendosi graziosamente ad ascoltare le confidenze e gli sfoghi gelosi,
minacciando il cavaliere col ventaglio, come a dirgli ch'era stato un gran
discolaccio lui, e se si lasciava adesso portar via l'amante era segno che ci
dovevano essere state le sue buone ragioni... prima o poi...
- No! - ribatteva Peperito fuori
della grazia di Dio. - Né prima né poi! Questo potete andare a dirglielo a
donna Giuseppina! Se non ho potuto comandare da padrone non voglio servire
nemmeno da comodino, capite?... fare il gallo di razza... capite? Su di ciò
donna Giuseppina potrà mettersi il cuore in pace!
Adesso sciorinava in piazza tutte
le porcherie dell'Alòsi, che se vi mandava a regalare per miracolo un paniere d'uva
voleva restituito il paniere; e vendeva sottomano le calze che faceva, delle
calze da serva grosse un dito, - essa gliele aveva fatte anche vedere sulla
forma per stuzzicarlo... per strappargli ciò che faceva comodo a lei... Ma lui,
no!...
Insomma, andava raccontandone di
cotte e di crude. Corsero anche delle sante legnate al Caffè dei Nobili. Ciolla
gli stava alle calcagna per raccogliere i pettegolezzi e portarli in giro alla
sua volta. Un giorno poi fu una vera festa per lui, quando si vide arrivare in
paese la signora Aglae che veniva insieme al signor Pallante a fare uno
scandalo contro il barone Rubiera, a riscuotere ciò che le spettava, se il
seduttore non voleva vedersela comparire dinanzi all'altare. Essa giungeva
apposta da Modica, sputando fiele, incerettata, dipinta, carica di piume di
gallo e di pezzi di vetro, tirandosi dietro la prova innocente della birbonata
di don Ninì, una bambinella ch'era un amore. Così la gente diceva che don Ninì
era sempre stato un donnaiuolo, e se sposava l'Alòsi, che avrebbe potuto
essergli madre, ci dovevano essere interessi gravi. Chi spiegava la cosa in un
modo e chi in un altro. Il baronello, quelli che s'affrettarono a fargli i
mirallegro onde tirargli di bocca la verità vera, se li levò dai piedi in poche
parole. La Sganci che aveva combinato il negozio stava zitta colle amiche le
quali andavano apposta a farle visita. Don Gesualdo ne sapeva forse più degli
altri, ma stringevasi nelle spalle e se la cavava con simili risposte:
- Che volete? Ciascuno fa il suo
interesse. Vuol dire che il barone Rubiera ci ha trovato il suo vantaggio a
sposare la signora Alòsi.
La verità era che don Ninì aveva
dovuto pigliarsi l'Alòsi per salvare quel po' di casa che don Gesualdo voleva
espropriargli. È vero che adesso era diventato giudizioso, tutto dedito agli
affari; ma sua madre, sepolta viva nel seggiolone non lo lasciava padrone di un
baiocco; si faceva dar conto di tutto; voleva che ogni cosa passasse sotto i
suoi occhi; senza poter parlare, senza potersi muovere, si faceva ubbidire
dalla sua gente meglio di prima. E attaccata alla sua roba come un'ostrica,
ostinandosi a vivere per non pagare. Il debito intanto ingrossava d'anno in
anno: una cosa che il povero don Ninì ci perdeva delle nottate intere, senza
poter chiudere occhio, alle volte: e alla scadenza, capitale e usura,
rappresentavano una bella somma. Il canonico Lupi, che andò in nome del
baronello a chiedere dilazione al pagamento, trovò don Gesualdo peggio di un
muro: - A che giuoco giochiamo canonico mio? Sono più di nove anni che non vedo
né frutti né capitale. Ora mi serve il mio denaro, e voglio esser pagato.
Don Ninì pel bisogno scese anche
all'umiliazione d'andare a pregare la cugina Bianca, dopo tanto tempo. La prese
appunto da lontano. - Tanto tempo che non s'erano visti! Lui non aveva faccia
di comparirle dinanzi, in parola d'onore! Non cercava di scolparsi. Era stato
un ragazzaccio. Ora aveva aperto gli occhi, troppo tardi, quando non c'era più
rimedio, quando si trovava sulle spalle il peso dei suoi errori. Ma proprio non
poteva pagare in quel momento. - Son galantuomo. Ho di che pagare infine. Tuo
marito sarà pagato sino all'ultimo baiocco. Ma in questo momento proprio non
posso! Tu sai com'è fatta tua zia! che testa dura! Ne abbiamo avuti dei
dispiaceri per quella testa dura! Ma infine non può campare eternamente,
poveretta, com'è ridotta...
Bianca era rimasta senza fiato al
primo vederlo, senza parole, facendosi ora pallida e ora rossa. Non sapeva che
dire, balbettava, sudava freddo, aveva una convulsione nelle mani che cercava
di dissimulare, stirando macchinalmente le due cocche del grembiule. A un
tratto ebbe uno sbocco di sangue.
- Cos'è? cos'è? Qualcosa alle
gengive? Ti sei morsicata la lingua?
- No, - rispose lei. - Mi viene
di tanto in tanto. L'aveva anche don Diego, ti rammenti? Non è nulla.
- Bene, bene. Intanto fammi
questo piacere; parlane a tuo marito. In questo momento proprio non posso... Ma
son galantuomo, mi pare!... Mia madre, da qui a cent'anni, non ha a chi
lasciare tutto il suo.
Bianca cercava di scusarsi. - Suo
marito era il padrone. Faceva tutto di testa propria, lui. Non voleva che gli
mettessero il naso nelle sue cose. - Allora perché sei sua moglie? - ribatté il
cugino. - Bella ragione! Uno che non era degno di alzarti gli occhi in viso!...
Deve ringraziare Iddio e l'ostinazione di mia madre se gli è toccata questa
fortuna!... Dunque farai il possibile per indurlo ad accordarmi questa
dilazione?
- E tu cosa gli hai detto? -
domandò don Gesualdo trovando la moglie ancora agitata dopo quella visita.
- Nulla... Non so... Mi son
sentita male...
- Bene. Hai fatto bene. Sta
tranquilla che agli affari ci penso io. Serpi nella manica sono i parenti...
Hai visto? Cercano di te, solo quando ne hanno bisogno; ma del resto non gli
importa di sapere se sei morta o viva. Lascia fare a me che la risposta gliela
mando coll'usciere, a tuo cugino...
Così era venuto quel matrimonio,
ché il barone Rubiera prima aveva messo sottosopra cielo e terra per trovare i
denari da pagare don Gesualdo; e infine donna Giuseppina Alòsi, la quale aveva
delle belle terre al sole, aveva dato l'ipoteca. Don Gesualdo, ottenuta la sua
brava iscrizione sulle terre, non parlò più di aver bisogno del denaro.
- Col tempo... - confidò alla
moglie. - Lasciali tranquilli. Loro non pagano né frutti né capitali, e col
tempo quelle terre serviranno per la dote d'Isabella. Che te ne pare? Non è da
ridere? Lo zio Rubiera che pensa a mettere insieme la dote della tua figliuola!...
Egli aveva di queste uscite buffe
alle volte, da solo a solo con sua moglie, quando era contento della sua
giornata, prima di coricarsi, mettendosi il berretto da notte, in maniche di
camicia. A quattr'occhi con lei mostravasi proprio quel che era, bonaccione,
colla risata larga che mostrava i denti grossi e bianchi, passandosi anche la
lingua sulle labbra, quasi gustasse già il dolce del boccone buono, da uomo
ghiotto della roba.
Isabella fatta più grandicella
passò dal Collegio di Maria al primo educatorio di Palermo. Un altro strappo
per la povera mamma che temeva di non doverla più rivedere. Il marito, onde
confortarla, in quello stato, le disse: - Vedi noi ci ammazziamo per fare il
suo meglio, ciascuno come può, ed essa un giorno non penserà neppure a noi.
Così va il mondo. Anzi devi metterti in testa che tua figlia non puoi averla
sempre vicina. Quando si marita anderà via dal paese. Qui non ce n'è uno che
possa sposarla, colla dote che le darò. Se ho fatto tanto per lei, voglio
almeno sapere a chi lo dò il sangue mio. Adesso che ti parlo è già nato chi
deve godersi il frutto delle mie fatiche, senza dirmi neppure grazie.
Aveva il cuore grosso anche lui,
poveraccio, e se sfogavasi a quattr'occhi colla moglie alle volte, per
discorrere non si rifiutava però a fare ciò ch'era debito suo. Andava a trovare
la sua ragazza a Palermo, quando poteva, quando i suoi affari lo permettevano,
anche una volta all'anno. Isabella s'era fatta una bella fanciulla, un po'
gracile ancora, pallidina, ma con una grazia naturale in tutta la personcina
gentile, la carnagione delicata e il profilo aquilino dei Trao; un fiore di
un'altra pianta, in poche parole; roba fine di signori che suo padre stesso
quando andava a trovarla provava una certa suggezione dinanzi alla ragazza la
quale aveva preso l'aria delle compagne in mezzo a cui era stata educata, tutte
delle prime famiglie, ciascuna che portava nell'educandato l'alterigia baronale
da ogni angolo della Sicilia. Al parlatorio lo chiamavano il signor Trao.
Quando volle saperne il perché, Isabella si fece rossa. La stessa storia del
Collegio di Maria anche lì. E la sua figliuola aveva dovuto soffrire le stesse
umiliazioni a motivo del parentado. Per fortuna la signorina di Leyra, che
Isabella s'era affezionata coi regalucci, aveva preso a difenderla a spada
tratta. Essa conosceva di nome la famiglia dei Trao, una delle prime laggiù,
ove il duca suo fratello possedeva dei feudi. La duchessina aveva il nome e il
parlare alto, sebbene stesse in collegio senza pagare, talché le compagne
lasciarono passare il Trao. Ma don Gesualdo dovette lasciarlo passare anche
lui, e farsi chiamare così, per amore della figliuola, quando andava a
trovarla. - Vedrai come si è fatta bella la tua figliuola! - tornava poi a dire
alla moglie che era sempre malaticcia.
Essa la rivide finalmente
all'uscire del collegio, nel 1837, quando in Palermo cominciavano già a correre
le prime voci di colèra, e don Gesualdo era corso subito a prenderla. Fu come
un urto al petto per la povera madre, dopo tanto tempo, quando udì fermarsi la
lettiga dinanzi al portone. - Figlia mia! figlia mia! - colle braccia stese, le
gambe malferme, precipitandosi per la scala. Isabella saliva correndo, colle
braccia aperte anche lei. - Mamma! mamma! - E poi avvinghiate l'una al collo
dell'altra, la madre sballottando ancora a destra e a sinistra la sua creatura
come quand'era piccina.
Indi vennero le visite ai
parenti. Bianca era tornata in forze per portare in trionfo la sua figliuola,
in casa Sganci in casa Limòli, da per tutto dove era stata bambinetta, prima
d'entrare in collegio, ora già fatta grande, col cappellino di paglia, le belle
treccie bionde - un fiore. Tutti si affacciavano per vederla passare. La zia
Sganci, divenuta sorda e cieca, le tastò il viso per riconoscerla: - Una Trao!
Non c'è che dire. - Lo zio marchese ne lodò gli occhi, degli occhi blù che
erano due stelle. «Degli occhi che vedevano il peccato», disse il marchese, il
quale aveva sempre pronta la barzelletta. Allorché la condussero dallo zio don
Ferdinando, Isabella che soleva spesso rammentare colle compagne la casa
materna, negli sfoghi ingenui d'ambizione, provò un senso di sorpresa, di
tristezza, di delusione al rivederla. Entrava chi voleva dal portone
sconquassato. La corte era angusta, ingombra di sassi e di macerie. Si arrivava
per un sentieruolo fra le ortiche allo scalone sdentato, barcollante, soffocato
anch'esso dalle erbacce. In cima l'uscio cadente era appena chiuso da un
saliscendi arrugginito; e subito nell'entrare colpiva una zaffata d'aria umida
e greve, un tanfo di muffa e di cantina che saliva dal pavimento istoriato col
blasone, seminato di cocci e di rottami, pioveva dalla vòlta scalcinata, veniva
densa dal corridoio nero al pari di un sotterraneo, dalle sale buie che
s'intravedevano in lunga fila, abbandonate e nude, per le strisce di luce che
trapelavano dalle finestre sgangherate. In fondo era la cameretta dello zio,
sordida, affumicata, col soffitto sconnesso e cadente, e l'ombra di don
Ferdinando che andava e veniva silenzioso, simile a un fantasma.
- Chi è?... Grazia... entra...
Don Ferdinando apparve sulla
soglia, in maniche di camicia, giallo ed allampanato, guardando stupefatto
attraverso gli occhiali la sorella e la nipote. Sul lettuccio disfatto c'era
ancora la vecchia palandrana di don Diego che stava rattoppando. L'avvolse in
fretta, insieme a un fagotto d'altri cenci, e la cacciò nel cassettone.
- Ah!... sei tu, Bianca?... che
vuoi?...
Indi accorgendosi che teneva
ancora l'ago in mano, se lo mise in tasca, vergognoso, sempre con quel gesto
che sembrava meccanico.
- Ecco vostra nipote... -
balbettò la sorella con un tremito nella voce. - Isabella... vi rammentate?...
È stata in collegio a Palermo...
Egli fissò sulla ragazza quegli
occhi azzurri e stralunati che fuggivano, di qua e di là, e mormorò:
- Ah!... Isabella?... mia
nipote?...
Guardava inquieto per la stanza,
e di tanto in tanto, come vedeva un oggetto dimenticato sul tavolino o sulla
seggiola zoppa, del refe sudicio, un fazzoletto di cotone posto ad asciugare al
sole, correva subito a nasconderli. Poi si mise a sedere sulla sponda del
lettuccio, fissando l'uscio. Mentre Bianca parlava, col cuore stretto, egli
seguitava a volgere intorno gli occhi sospettosi, pensando a tutt'altro. A un
tratto andò a chiudere a chiave il cassetto della scrivania.
- Ah!... mia nipote, dici?...
Fissò di nuovo sulla giovinetta
lo stesso sguardo esitante, e chinò gli occhi a terra.
- Somiglia a te... tale e
quale... quand'eri qui...
Sembrava che cercasse le parole,
cogli occhi erranti evitando quelli della sorella e della nipote, con un
tremito leggiero nelle mani, il viso smorto e istupidito. Un istante, mentre
Bianca gli parlava all'orecchio, supplichevole, quasi le spuntassero le
lagrime, egli di curvo che era si raddrizzò così che parve altissimo, con
un'ombra negli occhi chiari un rimasuglio del sangue dei Trao che gli colorava
il viso scialbo.
- No... no... Non voglio nulla...
Non ho bisogno di nulla... Vattene ora, vattene... Vedi... ho tanto da fare...
Una cosa che stringeva il cuore.
Una rovina ed un'angustia che umiliavano le memorie ambiziose, le fantasie
romantiche nate nelle confidenze immaginarie colle amiche del collegio, le
illusioni di cui era piena la bizzarra testolina della fanciulla, tornata in
paese coll'idea di rappresentarvi la prima parte. Il lusso meschino della zia
Sganci, la sua casa medesima fredda e malinconica, il palazzo cadente dei Trao
che aveva spesso rammentato laggiù con infantile orgoglio, tutto adesso
impicciolivasi, diventava nero, povero, triste. Lì, dirimpetto, era la terrazza
dei Margarone, che tante volte aveva rammentato vasta, inondata di sole, tutta
fiorita, piena di ragazze allegre che la sbalordivano allora, bambina, collo
sfoggio dei loro abiti vistosi. Com'era stretta e squallida invece, con quell'alto
muro lebbroso che l'aduggiava! e come era divenuta vecchia donna Giovannina,
che rivedeva seduta in mezzo ai vasi di fiori polverosi, facendo la calza,
vestita di nero, enorme! In fondo al vicoletto rannicchiavasi la casuccia del
nonno Motta. Allorché il babbo ve la condusse trovarono la zia Speranza che
filava, canuta, colle grinze arcigne. C'erano dei mattoni smossi dove
inciampavasi, un ragazzaccio scamiciato il quale levò il capo da un basto che
stava accomodando, senza salutarli. Mastro Nunzio gemeva in letto coi
reumatismi, sotto una coperta sudicia:
- Ah, sei venuto a vedermi?
Credevi che fossi morto? No, no, non son morto. È questa la tua ragazza? Me
l'hai portata qui per farmela vedere?... È una signorina, non c'è che dire! Gli
hai messo anche un bel nome! Tua madre però si chiamava Rosaria! Lo sai?
Scusatemi, nipote mia, se vi ricevo in questo tugurio... Ci son nato, che
volete... Spero di morirci... Non ho voluto cambiarlo col palazzo dove
pretendeva chiudermi vostro padre... Io sono avvezzo ad uscir subito in istrada
appena alzato... No, no, è meglio pensarci prima. Ciascuno com'è nato. -
Speranza grugniva delle altre parole che non si udivano bene. Il ragazzaccio li
accompagnò cogli occhi sino all'uscio, quando se ne andarono.
Intanto incalzavano le voci di
colèra. A Catania c'era stata una sommossa. Giunse da Lentini don Bastiano
Stangafame insieme a donna Fifì la quale pareva avesse già il male addosso,
verde, impresciuttita, narrando cose che dovevano averle fatto incanutire i
capelli in ventiquattr'ore. A Siracusa una giovinetta bella come la Madonna, la
quale ballava sui cavalli ammaestrati in teatro, e andava spargendo il colèra
con quel pretesto, era stata uccisa a furor di popolo. La gente insospettita
stava a vedere, facendo le provviste per svignarsela dal paese, al primo
allarme, e spiando ogni viso nuovo che passasse.
In quel tempo erano capitati due
merciai che portavano nastri e fazzoletti di seta. Andavano di casa in casa a
vendere la roba, e guardavano dentro gli usci e nei cortili. Le Margarone che
spendevano allegramente per azzimarsi, quasi fossero ancora di primo pelo,
fecero molte compere; anzi non trovandosi denari spiccioli, quei galantuomini
dissero che sarebbero ripassati a prenderli il giorno dopo.
Invece spuntò il giorno del
Giudizio Universale. Ciolla era andato a ricorrere dal giudice che gli avevano
avvelenate le galline: le portava a prova in mano, ancora calde. Tornò in casa
don Nicolino scalmanato, ordinando alle sorelle di sprangare usci e finestre e
non aprire ad anima viva. Il dottor Tavuso fece chiudere anche lo sportello
della cisterna. I galantuomini, rammentandosi il bel soggetto ch'era il Ciolla,
quello ch'era stato in Castello colle manette, sedici anni prima, si armarono
sino ai denti, e si misero a perlustrare il paese, se mai gli tornava il
ghiribizzo di voler pescare nel torbido. La parola d'ordine era, sparargli
addosso senza misericordia al primo allarme. I due merciai non si videro più.
Prima di sera cominciarono a sfilare le vetture cariche che scappavano dal
paese. Dopo l'avemaria non andava anima viva per le strade. Giunse tardi una
lettiga, che portava don Corrado La Gurna, vestito di nero, col fazzoletto agli
occhi. I cani abbaiarono tutta la notte.
Il panico poi non ebbe limiti
allorché si vide scappare la baronessa Rubiera, paralitica, su di una sedia a
bracciuoli, poiché nella portantina non entrava neppure, tanto era enorme,
portata a fatica da quattr'uomini, colla testa pendente da un lato, il faccione
livido, la lingua pavonazza che usciva a metà dalle labbra bavose, gli occhi
soltanto vivi e inquieti, le mani da morta agitate da un tremito continuo. E
dietro, il baronello invecchiato di vent'anni, curvo, grigio, carico di
figliuoli, colla moglie incinta ancora, e gli altri figli del primo letto.
Empivano la strada dove passavano: uno sgomento. La povera gente che era
costretta a rimanere in paese stava a guardare atterrita. Nelle chiese avevano
esposto il Sacramento. Tacquero allora vecchi rancori, e si videro fattori
restituire il mal tolto ai loro padroni. Don Gesualdo aprì le braccia e i
magazzini ai poveri e ai parenti; tutte le sue case di campagna alla Canziria e
alla Salonia. A Mangalavite, dove aveva pure dei casamenti vastissimi, parlò di
riunire tutta la famiglia.
- Ora corro da mio padre per
cercare d'indurlo a venire con noi. Tu intanto va da tuo fratello, - disse a
Bianca. - Fagli capire che adesso son tempi da mettere una pietra sul passato,
gli avessi fatto anche un tradimento... Abbiamo il colèra sulle spalle... Il
sangue non è acqua infine! Non possiamo lasciare quel povero vecchio solo in
mezzo al colèra... Mi pare che la gente avrebbe motivo di sparlare dei fatti
nostri, eh?...
- Voi avete il cuore buono! -
balbettò la moglie sentendosi intenerire. - Voi avete il cuore buono!
Ma don Ferdinando non si lasciò
persuadere. Era occupatissimo ad incollare delle striscie di carta a tutte le
fessure delle imposte, con un pentolino appeso al collo, arrampicato su di una
scala a piuoli.
- Non posso lasciar la casa, -
rispose. - Ho tanto da fare!... Vedi quanti buchi?... Se viene il colèra...
Bisogna tapparli tutti...
Inutilmente la sorella tornava a
pregare e scongiurare - Non mi lasciate questo rimorso, don Ferdinando!... Come
volete che chiuda occhio la notte, sapendovi solo in casa?...
- Ah! ah!... - rispose lui con un
sorriso ebete. - La notte non me lo soffiano il colèra!... Chiuderò tutte le
fessure... guarda!
E tornava a ribattere: - Non
posso lasciar la casa sola... Ho da custodire le carte di famiglia...
La moglie del sagrestano, che
vide uscire donna Bianca desolata dal portone, le corse dietro piangendo:
- Non ci vedremo più!... Tutti se
ne vanno... Non avremo per chi sonare messa e mattutino!
Anche mastro Nunzio s'era
rifiutato ad andare col figliuolo.
- Io mangio colle mani, figliuol
mio. Arrossiresti di tuo padre a tavola... Sono uno zotico... Non sono da
mettermi insieme ai signori!... No, no! è meglio pensarci prima! Meglio crepar
di colèra che di bile!... Poi, sai? io sono avvezzo ad esser padrone in casa
mia... Sono un villano... Non so starci sotto le scarpe della moglie, no!
Speranza mostrò Burgio allettato
anche lui dalla malaria.
- Noi non usiamo abbandonare i
nostri nel pericolo!... Mio marito non può muoversi, e noi non ci muoviamo!...
Ecco come siam noi!... Lo sapete quello che ci vuole a mantenere una famiglia
intera, col marito confinato in letto!... -
Ma non t'ho sempre detto che
sarai la padrona!... Tutto quello che vuoi!... - esclamò infine Gesualdo.
- No!... Non vi ho chiesto
l'elemosina!... Non accetteremmo nulla, se non fosse pel bisogno... grazie a
Dio!... Poiché ci fate la carità, andremo alla Canziria... Non temete! Così la
gente non potrà dire che avete abbandonato vostro padre in mezzo al colèra!...
Voi pensate a mandarci le provviste... Non possiamo pascerci d'erba come le
bestie!... sentite... Se avete pure qualche vestito smesso di vostra figlia, di
quelli proprio che non possono più servirle... Già lei è una signora, ma
saranno sempre buoni per noi poveretti!...
I Margarone partirono subito per
Pietraperzia; tutti ancora in lutto per don Filippo, morto dai crepacuori che
gli dava il genero don Bastiano Stangafame, ogni volta che gli bastonava Fifì
se non mandava denari. Annebbiavano una strada.
Il barone Mèndola, che faceva la
corte alla zia Sganci, se la condusse a Passaneto, e ci prese le febbri, povera
vecchia. Zacco e il notaro Neri partirono per Donferrante. Era uno squallore
pel paese. A ventitré ore non si vedeva altri lungo la via di San Sebastiano
che il marchese Limòli, per la sua solita passeggiatina del dopopranzo. E gli
fecero sapere anzi che destava dei sospetti con quelle gite, e volevano fargli
la festa al primo caso di colèra.
- Eh? - disse lui. - La festa? Ci
avete a pensar voialtri, che vi tocca pagar le spese. Io fo quello che ho fatto
sempre, se no crepo egualmente.
E alla nipote che lo scongiurava
di andar con lei a Mangalavite:
- Hai paura di non trovarmi
più?... No, no, non temere; il colèra non sa che farsene di me.
Mentre Bianca e la figliuola
stavano per montare in lettiga, giunse la zia Cirmena, disperata.
- Avete visto? Tutti se ne vanno!
I parenti mi voltano le spalle!... E m'è cascato addosso anche quel povero
orfanello di Corrado La Gurna... Una tragedia a casa sua!... Padre e madre in
una notte... fulminati dal colèra!... Nessuno ha il mio cuore, no!... Una
povera donna senza aiuto e che non sa dove andare!... Se mi date la chiave
delle due camerette che avete laggiù a Mangalavite, vicino alla vostra
casina!... le camere del palmento... Siete il solo parente a cui ricorrere,
voi, don Gesualdo!...
- Sì, sì, - rispose lui - ma non
lo dite agli altri...
- Glielo dirò anzi!... Voglio
rinfacciarlo a tutti quanti, se campo!
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