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Giunse poco dopo una lettera
d'Isabella la quale non sapeva nulla ancora della catastrofe, e fece piangere
gli stessi sassi. Il duca scrisse anche lui - un foglietto con una lista nera
larga un dito, e il sigillo stemmato, pur esso nero, che stringeva il cuore -
inconsolabile per la perdita della suocera. Diceva che alla duchessa s'era
dovuto nascondere la verità per consiglio degli stessi medici, visto che
sarebbe stato un colpo di fulmine, malaticcia com'era anch'essa, giusto alla
vigilia di mettersi in viaggio per andare a vedere sua madre!... Terminava
chiedendo per lei qualche ricordo della morta, una bazzecola, una ciocca di
capelli, il libro da messa, l'anellino nuziale che soleva portare al dito...
Al notaro poi scrisse per
chiedere se la defunta, buon'anima, avesse lasciati beni stradotali. - Si seppe
poi da don Emanuele Fiorio, l'impiegato della posta, il quale scovava i fatti
di tutto il paese, giacché il notaro non rispose neppure, e solo con qualche
intimo, brontolone come s'era fatto coll'età, andava dicendo:
- Mi pare che il signor duca sia
ridotto a cercare la luna nel pozzo, mi pare!
La povera morta se n'era andata
alla sepoltura in fretta, fra quattro ceri, nel subbuglio della gente
ammutinata che voleva questo, e voleva quell'altro, stando in piazza dalla mattina
alla sera, a bociare colle mani in tasca e la bocca aperta, aspettando la manna
che doveva piovere dal campanile imbandierato. Ciolla ch'era diventato un pezzo
grosso alfine, con una penna nera nel cappello e un camiciotto di velluto che
sembrava un bambino, a quell'età, passeggiava su e giù per la piazza, guardando
di qua e di là come a dire alla gente: - Ehi! badate a voi adesso! - Don Luca,
portando la croce dinanzi alla bara, ammiccava gentilmente, per farsi strada
fra la folla, e sorrideva ai conoscenti, come udiva lungo la via tutti quei
gloria che recitava la gente alle spalle di mastro-don Gesualdo.
- Un brigante! un assassino! uno
che s'era arricchito, mentre tanti altri erano rimasti poveri e pezzenti peggio
di prima! uno che aveva i magazzini pieni di roba, e mandava ancora l'usciere
in giro per raccogliere il debito degli altri. - A strillare più forte erano i
debitori che s'erano mangiato il grano in erba prima della messe. Gli
rinfacciavano pure di essere il più tenace a non voler che gli altri si
pigliassero le terre del comune, ciascuno il suo pezzetto. Non si sapeva donde
fosse partita l'accusa; ma ormai era cosa certa. Lo dicevano tutti: il canonico
Lupi armato sino ai denti, il barone Rubiera colla cacciatora di fustagno, come
un povero diavolo. Essi erano continuamente in mezzo ai capannelli, alla mano e
bonaccioni, col cuore sulle labbra: - Quel mastro-don Gesualdo sempre lo
stesso! aveva fatto morire la moglie senza neppure chiamare un medico da
Palermo! Una Trao! Una che l'aveva messo all'onore del mondo! A che l'era
giovato essere tanto ricca? - Il canonico si lasciava sfuggire dell'altro
ancora, in confidenza: Le stesse messe in suffragio dell'anima avevano lesinato
alla poveretta! - Lo so di certo. Sono stato in sagrestia. Se non ha cuore
neppure pel sangue suo!... Non mi fate parlare, chè domattina devo dir messa! -
Nobili e plebei, passato il primo sbigottimento, erano diventati tutti una
famiglia. Adesso i signori erano infervorati a difendere la libertà; preti e
frati col crocifisso sul petto, o la coccarda di Pio Nono, e lo schioppo ad
armacollo. Don Nicolino Margarone s'era fatto capitano, cogli speroni e il
berretto gallonato. Donna Agrippina Macrì preparava filacce e parlava d'andare
al campo, appena cominciava la guerra. La signora Capitana raccoglieva per la
compera dei fucili, vestita di tre colori, il casacchino rosso, la gonnella
bianca, e un cappellino calabrese colle penne verdi ch'era un amore. Le altre
dame ogni giorno portavano sassi alle barricate, fuori porta, coi canestrini
ornati di nastri e la musica avanti. Sembrava una festa, mattina e sera, con
tutte quelle bandiere, quella folla per le strade, quelle grida di viva e di
abbasso, ogni momento, lo scampanìo, la banda che suonava, la luminaria più
tardi. Le sole finestre che rimanessero chiuse erano quelle di don Gesualdo
Motta. Lui il solo che se ne stesse rintanato come un lupo, nemico del suo
paese, adesso che ci s'era ingrassato, lagnandosi continuamente che venivano a
pelarlo ogni giorno, la commissione per i poveri, il prestito forzoso la
questua pei fucili!... Lui lo mettevano in capo lista, lo tassavano il doppio
degli altri. Gli toccava difendersi e litigare. I signori del Comitato che
tornavano stanchi di casa sua, dopo un'ora di tira e molla, ne contavano delle
belle. Dicevano che non capiva più niente, uno stupido, l'ombra di mastro-don
Gesualdo, un cadavere addirittura, che stava ancora in piedi per difendere i
suoi interessi, ma la mano di Dio arriva, tosto o tardi!
Intanto i villani e gli affamati che
stavano in piazza dalla mattina alla sera, a bocca aperta, aspettando la manna
che non veniva, si scaldavano il capo a vicenda, discorrendo delle soperchierie
patite, delle invernate di stenti, mentre c'era della gente che aveva i
magazzini pieni di roba, dei campi e delle vigne!... Pazienza i signori, che
c'erano nati... Ma non si davano pace, pensando che don Gesualdo Motta era nato
povero e nudo al par di loro. - Se lo rammentavano tutti povero bracciante. -
Speranza, la stessa sua sorella predicava lì, di faccia alla bandiera
inalberata sul Palazzo di Città, ch'era giunto alfine il momento di restituire
il mal tolto, di farsi giustizia colle proprie mani. Aizzava contro allo zio i
suoi figliuoli che s'erano fatti grandi e grossi, e capaci di far valere le
loro ragioni, se non fossero stati due capponi, come il genitore, che s'era
acquetato subito, quando il cognato aveva mandato un gruzzoletto, allorché
Bianca stava male, dicendo che voleva fare la pace con tutti quanti, e dei guai
ne aveva anche troppi. Giacalone, a cui don Gesualdo aveva fatto pignorar la
mula pel debito del raccolto, l'erede di Pirtuso, che litigava ancora con lui
per certi denari che il sensale s'era portati all'altro mondo, tutti coloro che
gli erano contro per un motivo o per l'altro, soffiavano adesso nel fuoco,
dicendone roba da chiodi, raccontando tutte le porcherie di mastro-don
Gesualdo, sparlandone in ogni bettola e in ogni crocchio, stuzzicando anche gli
indifferenti, con quella storia delle terre comunali che dovevano spartirsi fra
tutti quanti, delle quali ciascuno aspettava il suo pezzetto, di giorno in
giorno, e ancora non se ne parlava, e chi ne parlava lo facevano uccidere a
tradimento, per tappargli la bocca... Si sapeva da dove era partito il colpo!
Mastro Titta aveva riconosciuto Gerbido, l'antico garzone di don Gesualdo,
mentre fuggiva celandosi il viso nel fazzoletto. Così tornò a galla la storia
di Nanni l'Orbo il quale s'era accollata la ganza di don Gesualdo coi
figliuoli, dei poveri trovatelli che andavano a zappare nei campi del genitore
per guadagnarsi il pane, e gli baciavano le mani per giunta, come quella bestia
di Diodata che a chi gli dava un calcio rispondeva grazie.
Dài e dài erano arrivati a
scatenargli contro anche loro, una sera che li avevano tirati in quelle
chiacchiere all'osteria, e i due ragazzacci non possedevano neppure di che
pagar da bere agli amici. Don Gesualdo si vide comparire a quell'ora Nunzio, il
più ardito. - Il nome del nonno, sì glielo aveva dato; ma la roba no! - Per
poco non s'accapigliarono, padre e figlio. Si fece un gran gridare, una lite
che durò mezz'ora. Accorse anche Diodata, coi capelli per aria, vestita di
nero. Nunzio, ubbriaco fradicio, pretendeva il fatto suo lì su due piedi, e
gliene disse di tutte le specie, a lei e a lui. Lo zio Santo, che s'era
accomodato col fratello, dopo la morte della cognata, aiutandolo a passar
l'angustia, mangiando e bevendo alla sua barba, afferrò la stanga per metter
pace. Il povero don Gesualdo andò a coricarsi più morto che vivo.
In mezzo a tanti dispiaceri s'era
ammalato davvero. Gli avvelenavano il sangue tutti i discorsi che sentiva fare
alla gente. Don Luca il sagrestano, il quale gli s'era ficcato in casa, quasi
fosse già l'ora di portargli l'olio santo, pretendeva che don Gesualdo dovesse
aprire i magazzini alla povera gente, se voleva salvare l'anima e il corpo. Lui
ci aveva cinque figliuoli sulle spalle, cinque bocche da sfamare, e la moglie
sei. Mastro Titta, quand'era venuto a cavargli sangue, gli cantò il resto,
colla lancetta in aria:
- Vedete? Se non mettono
giudizio, certuni, va a finir male, stavolta! La gente non ne può più! Sono
quarant'anni che levo pelo e cavo sangue, e sono ancora quello di prima, io!
Don Gesualdo, malato, giallo,
colla bocca sempre amara, aveva perso il sonno e l'appetito; gli erano venuti
dei crampi allo stomaco che gli mettevano come tanti cani arrabbiati dentro. Il
barone Zacco era il solo amico che gli fosse rimasto. E la gente diceva pure
che doveva averci il suo interesse a fargli l'amico, qualche disegno in testa.
Veniva a trovarlo sera e mattina, gli conduceva la moglie e le figliuole,
vestiti di nero tutti quanti, che annebbiavano una strada. Gli lasciava la sua
ragazza per curarlo: - Lavinia ci ha la mano apposta, per far decotti. -
Lavinia è un diavolo, per tener d'occhio una casa. - Lasciate fare a Lavinia
che sa dove metter le mani. - Dall'altro canto poi faceva il viso brusco se
Diodata aveva la faccia di farsi vedere ancora lì, da don Gesualdo, con il
fazzoletto nero in testa, carica di figliuoli, di già canuta e curva come una
vecchia: - No, no, buona donna. Non abbiamo bisogno di voi! Badate ai fatti
vostri piuttosto, ché qui la cuccagna è finita. - Poscia in confidenza
spifferava anche delle paternali all'amico. - Che diavolo ne fate di quella
vecchia?... Non vi conviene di lasciarvela bazzicar fra i piedi colei, ora ch'è
vedova!... Dopo che l'avete avuta in casa anche da zitella... Il mondo, sapete
bene, ha la lingua lunga! Poi, quell'altra storia... la morte di suo marito...
È vero che se lo meritava!... Ma infine è meglio chiudere la bocca alla
gente!... Del resto, non avete bisogno di nulla, ora che ci abbiamo qui la mia
ragazza.
Lui stesso si faceva in quattro a
disporre e a ordinare nella casa del cugino don Gesualdo, a ficcare il naso in
tutti i suoi affari, a correre su e giù con le chiavi dei magazzini e della
cantina. Gli consigliava pure di mettere a frutto il denaro contante, se ce ne
aveva in serbo, caso mai le faccende s'imbrogliassero peggio.
- Datelo a mutuo, col suo bravo
atto dinanzi notaio... un po' per uno, a tutti coloro che gridano più forte
perché non hanno nulla da perdere, e minacciano adesso di scassinarvi i
magazzini e bruciarvi la casa. Taceranno, per adesso. Poi, se arrivano a
pigliarsi le terre del comune, voi ci mettete subito una bella ipoteca. Le cose
non possono andare sempre a questo modo. I tempi torneranno a cambiare, e voi
ci avrete messo sopra le unghie a tempo.
Ma lui non voleva sentir parlare
di denaro. Diceva che non ne aveva, che suo genero l'aveva rovinato, che
preferiva riceverli a schioppettate, quelli che venivano a bruciargli la casa o
a scassinargli i magazzini. Era diventato una bestia feroce, verde dalla bile,
la malattia stessa gli dava alla testa. Minacciava: - Ah! La mia roba? Voglio
vederli! Dopo quarant'anni che ci ho messo a farla... un tarì dopo l'altro!...
Piuttosto cavatemi fuori il fegato e tutto il resto in una volta, ché li ho
fradici dai dispiaceri... A schioppettate! Voglio ammazzarne prima una dozzina!
A chi ti vuol togliere la roba levagli la vita!
Perciò aveva armato Santo e
mastro Nardo, il vecchio manovale, con sciabole e carabine. Teneva il portone
sbarrato, due mastini feroci nel cortile. Dicevasi che in casa sua ci fosse un
arsenale; che la sera ricevesse Canali, il marchese Limòli, dell'altra gente
ancora, per congiurare, e un bel mattino si sarebbero trovate le forche in
piazza, e appesi tutti coloro che avevano fatta la rivoluzione. I pochi amici
perciò l'avevano abbandonato, onde non esser visti di cattivo occhio. E Zacco correva
davvero un brutto rischio continuando ad andare da lui e a condurgli tutta la
famiglia. - Peccato che con voi ci si rimette il ranno e il sapone! - gli disse
però più di una volta. Sua moglie infine, vedendo che non si veniva a una
conclusione con quell'uomo, lasciò scoppiare la bomba, un giorno che don
Gesualdo s'era appisolato sul canapè, giallo come un morto, e la sua ragazza
gli faceva da infermiera, messa a guardia accanto alla finestra.
- Scusatemi, cugino! Sono madre,
e non posso più tacere, infine... Tu, Lavinia, vai di là, chè ho da parlare col
cugino don Gesualdo... Ora che non c'è più la mia ragazza, apritemi il cuore,
cugino mio... e ditemi chiaro la vostra intenzione... Quanto a me ci avrei
tanto piacere... ed anche il barone mio marito... Ma bisogna parlarci chiaro...
Il poveraccio spalancò gli occhi
assonnati, ancora disfatto dalla colica: - Eh? Che dite? Che volete? Io non vi
capisco.
- Ah! Non mi capite? Allora che
ci sta a far qui la mia Lavinia? Una zitella! Siete vedovo finalmente, e gli
anni del giudizio li dovete anche avere, per pigliare una risoluzione, e sapere
quel che volete fare!
- Niente. Io non voglio far
niente. Voglio stare in pace, se mi ci lasciano stare...
- Ah? Così? Stateci pure a comodo
vostro... Ma intanto non è giusto... capite bene!... Sono madre...
E stavolta, risoluta, ordinò alla
figliuola di prendere il manto e venirsene via. Lavinia obbedì, furibonda anche
lei. Tutt'e due, uscendo da quella casa per l'ultima volta, fecero tanto di
croce sulla soglia. - Una galera, quella baracca! La povera cugina Bianca ci
aveva lasciato le ossa col mal sottile! - Zacco la sera stessa andò a far
visita al barone Rubiera, invece di annoiarsi con quel villano di mastro-don
Gesualdo che passava la sera a lamentarsi, tenendosi la pancia, all'oscuro, per
risparmiare il lume.
- Mi volete, eh? cugino
Rubiera... donna Giuseppina...
Don Ninì era uscito per assistere
a certo conciliabolo in cui si trattavano affari grossi. Intanto che aspettava,
il barone Zacco volle fare il suo dovere colla baronessa madre, ch'era stato un
pezzo senza vederla. La trovò nella sua camera, inchiodata nel seggiolone di
faccia al letto matrimoniale, accanto al quale era ancora lo schioppo del
marito, buon'anima, e il crocifisso che gli avevano messo sul petto in punto di
morte, imbacuccata in un vecchio scialle, e colle mani inerti in grembo. Appena
vide entrare il cugino Zacco si mise a piangere di tenerezza, rimbambita: delle
lagrime grosse e silenziose che si gonfiavano a poco a poco negli occhi
torbidi, e scendevano lentamente giù per le guance floscie. - Bene, bene, mi
congratulo, cugina Rubiera! La testa è sana! Conoscete ancora la gente! - Essa
voleva narrargli anche i suoi guai, biasciando, sbuffando e imbrogliandosi, con
la lingua grossa e le labbra pavonazze, spumanti di bava. Il barone,
affettuoso, tendeva l'orecchio, si chinava su di lei. - Eh? Che cosa? Sì, sì,
capisco! Avete ragione, poveretta! - In quella sopraggiunse la nuora infuriata.
- Non si capisce una maledetta! - osservò Zacco. - Deve essere un purgatorio
per voialtri parenti. - La paralitica fulminò un'occhiata feroce, rizzando più
che poteva il capo piegato sull'omero, mentre donna Giuseppina la sgridava come
una bimba, asciugandole il mento con un fazzoletto sudicio. - Che avete? che volete?
stolida!... Vi rovinate la salute!... È proprio una creaturina di latte, Dio
lodato! Non bisogna credere a quello che dice! Ci vuole una pazienza da santi a
durarla con lei!... - La suocera adesso spalancava gli occhi, guardandola
atterrita, rannicchiando il capo nelle spalle, quasi aspettando di essere
battuta: - Vedete? Santa pazienza!
- Ve l'ho detto, - conchiuse il
barone. - Avete il purgatorio in terra, per andarvene diritto in paradiso.
Indi giunse don Ninì a prendere
le chiavi della cantina. Trovando il cugino fece un certo viso sciocco.
- Ah... cugino!... che c'è di
nuovo? Vostra moglie sta bene?... Qui, da me, lo vedete... guai colla pala! Che
c'è, mammà? i soliti capricci? Permettetemi, cugino Zacco, devo scendere giù un
momento...
Le chiavi stavano sempre lì,
appese allo stipite dell'uscio. La paralitica li accompagnava cogli occhi,
senza poter pronunziare una parola, sforzandosi più che potesse di girare il
capo a ogni passo che faceva il figliuolo, con delle chiazze di sangue guasto
che le ribollivano a un tratto nel viso cadaverico. Zacco allora cominciò a
snocciolare il rosario contro di mastro-don Gesualdo. - Signore Iddio, me ne
accuso e me ne pento! L'ho durata fin troppo con colui! Mi pareva una brutta
cosa abbandonarlo nel bisogno... in mezzo a tutti i suoi nemici... Non fosse
altro per carità cristiana... Ma via! è troppo... Neanche i suoi parenti
possono tollerarlo, quell'uomo! Figuratevi! neanche quello stolido di don
Ferdinando!... Si contenta di non uscire più di casa pur di non essere
costretto a mettere il vestito nuovo che gli ha mandato a regalare il
cognato... Sin che campa, avete inteso? Quello è un uomo di carattere! Infine
sono stanco, avete capito? Non voglio rovinarmi per amore di mastro-don
Gesualdo. Ho moglie e figliuoli. Dovrei portarmelo appeso al collo come un
sasso per annegarmi?
- Ah!... ve l'avevo detto io!
Vediamo, via, in coscienza! Cosa era mastro-don Gesualdo vent'anni fa?... Ora
ci mette i piedi sul collo, a noialtri! Vedete, signori miei, un barone Zacco
che gli lustra le scarpe e s'inimica coi parenti per lui!
L'altro chinava il capo,
contrito. Confessava che aveva errato, a fin di bene, per impedirgli di far
dell'altro male, e cercare di cavarne quel poco di buono che si poteva. Una
volta, in vita, si può sbagliare...
- L'avete capita finalmente?
Avete visto chi aveva ragione di noi due?
La moglie gli chiuse la parola in
bocca con una gomitata: - Lasciatelo parlare. È lui che deve dire ciò che vuole
adesso da noi... quel ch'è venuto a fare...
- Bene! - conchiuse Zacco con una
risata bonaria. - Son venuto a fare il Figliuol Prodigo, via! Siete contenti?
Donna Giuseppina era contenta a
bocca stretta. Suo marito guardò prima lei, poi il cugino Zacco, e non seppe
che dire.
- Bene, - riprese Zacco un'altra
volta. - So che stasera quei ragazzi vogliono fare un po' di chiasso per le
strade. Ci avete appunto in mano le chiavi della cantina per tenerli allegri.
Badate che non ho peli sulla lingua, se a qualcuno salta in mente di venire a
seccarmi sotto le mie finestre. Ci ho molta roba anch'io nello stomaco, e non
voglio aver dei nemici a credenza, come mastro-don Gesualdo!...
Marito e moglie si guardarono
negli occhi.
- Son padre di famiglia! - tornò
a dire il barone. - Devo difendere i miei interessi... Scusate... Se giochiamo
a darci il gambetto fra di noi!...
Donna Giuseppina prese la parola
lei, scandolezzata:
- Ma che discorsi son questi?...
Scusatemi piuttosto se metto bocca nei vostri affari. Ma infine siamo
parenti...
- Questo dico io. Siamo parenti!
Ed è meglio stare uniti fra di noi... di questi tempi!...
Don Ninì gli stese la mano: - Che
diavolo!... che sciocchezze!... - Quindi si sbottonò completamente, guardando
ogni tanto sua moglie: - Venite in teatro questa sera, per la cantata
dell'inno. Fatevi vedere insieme a noialtri. Ci sarà anche il canonico. Dice
che non fa peccato, perché è l'inno del papa... Discorreremo poi... Bisogna
metter mano alla tasca, amico mio. Bisogna spendere e regalare. Vedete io?
E agitava in aria le chiavi della
cantina. La vecchia, che non aveva perduto una parola di tutto il discorso,
sebbene nessuno badasse a lei, si mise a grugnire in una collera ostinata di
bambina, gonfiando apposta le vene del collo per diventar pavonazza in viso.
Ricominciò il baccano: nuora e figliuolo la sgridavano a un tempo; lei cercava
di urlar più forte, agitando la testa furibonda. Accorse anche Rosaria, col
ventre enorme, le mani sudice nella criniera arruffata e grigiastra,
minacciando la paralitica lei pure:
- Guardate un po'! È diventata
cattiva come un asino rosso! Cosa gli manca, eh? Mangia come un lupo!
Rosaria non la finiva più su quel
tono. Il barone Zacco pensò bene di accomiatarsi in quel frangente.
- Dunque, stasera, alla cantata.
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