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Giovanni Verga
Eros

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Alberti avea ricevuto un invito pel ballo al Casino, senza sapere da che parte gli venisse; cotesta era forse una buona ragione per non mancare, se non ce ne fossero state anche delle altre.- Andò.

La prima persona che vide, circondata dalla folla, corteggiata come una granduchessa, fu Velleda. Ella ci stava proprio come una granduchessa e non s'accorgeva di lui. Ad un tratto, come si accorgesse solo allora di lui, gli stese la mano con un bel sorriso, poi, senza lasciare il braccio del suo ballerino, gli agghiacciò la gioia che irrompeva tripudiante negli occhi di lui, rifacendosi a un tratto seria e fredda.

«Tutti sanno che ci conosciamo» gli disse. «M'inviti per un ballo.»

«S'è presentato alla mamma?» gli domandò poscia allo stesso modo.

«...No...»

«Che cosa penserà... Si presenti.»

La contessa Manfredini accolse Alberti col suo sorriso e col suo cicaleccio melato.

«Troppo gentile, davvero!... Siamo state via da Firenze... Abbiamo viaggiato. Bella città Napoli! la conosce?... E Roma? il Vesuvio?... Abitiamo il villino Flora, appena fuori Porta Romana. Riceviamo il lunedì. Non manchi.»

Le allusioni a Belmonte, ed alla famiglia Forlani furono evitate con garbo.

«Hai qualche impegno col signor De Marchi?» domandò la contessa alla figliuola che si era riaccostata: Velleda si fece pensierosa un istante, come non avesse intesa la domanda; scosse il capo un po' vivamente, e rispose:

«No... non rammento...»

Alberti sorprese uno sguardo rapido e acuto che la madre saettò sulla figlia. Mentre conduceva Velleda a prendere il suo posto nella quadriglia, costei gli domandò negligentemente:

«La mamma l'ha invitato a venire ai nostri lunedì?»

«Sì!»

Allora aggrottò leggermente il sopracciglio, si mise al suo posto, spinse indietro lo strascico della veste; e non disse altro. Eseguiva le diverse figure della quadriglia colla sua grazia e disinvoltura abituale, alquanto fredda, noncurante, rivolgendo ad Alberti la parola solamente quel po' ch'era necessario per non dar nell'occhio.

«Ieri l'altro l'ho vista a Firenze per la prima volta» incominciò il marchese. Ella non disse verbo.

«Sapeva che ero qui?»

«Sì» rispose asciutto asciutto; e si mise a battere il tempo col ventaglio.

E dopo alcuni minuti di silenzio:

«Bella cotesta musica!»

«Sembrami d'averla udita.»

«Dove?»

«A Belmonte... in villa Armandi...»

«S'inganna» disse ella freddamente.

Tacquero.

«S'è divertita in questo viaggio?» domandò Alberti.

«Assai!»

«È stata via molto tempo!»

«Le pare!... appena quattro mesi.»

Ei chinò il capo.

«Troppa gente!» mormorò Velleda per rompere il silenzio.

«È vero.»

«Ha visto la contessa Armandi nelle altre sale?»

«No.»

«Deve esser qui. Sembrami d'averla vista un momento.»

La quadriglia era finita. Mentre Alberti la riconduceva, Velleda gli domandò:

«Ha promesso alla mamma di venire?»

«Sì... Le rincresce?»

«Perché dovrebbe rincrescermi?» disse ella alteramente.

«Mi dia un bicchiere d'acqua» aggiunse immediatamente, come per mitigare la durezza della sua risposta.

Dopo di avere attraversato due altre sale, riprese, guardando attentamente i disegni del suo ventaglio:

«E non pensa di viaggiare anche lei?»

«Perché?» rispose Alberto con un po' di sorpresa.

«Perché è giovane, e il mondo è bello. Vada a Roma, in Grecia, in Oriente...»

«Mi manda molto lontano» rispose Alberti sorridendo a bocca stretta.

Ella, dopo aver giocherellato col fiocco del ventaglio, rispose lentamente:

«Faccia come vuole.»

«Mi dia i suoi ordini...»

«Degli ordini, io?» esclamò Velleda rizzando il capo, «e a qual titolo, dica?»

«Dei consigli, almeno...»

Per la prima volta l'altera fanciulla alzò gli occhi su di lui, e guardandolo fisso:

«Credevo non ne avesse bisogno» disse. «Ma giacché li desidera... glie li ho dati... Parta.»

Bevve tranquillamente, si passò sulle labbra il fazzoletto ricamato, riprese il braccio di lui, che non diceva più una parola, e si fece accompagnare al suo posto senza aggiunger altro.

Un bel giovane, che sembrava in qualche intimità con lei, le si avvicinò con premura appena la vide seduta, e si chinò verso di lei per dirle qualche cosa. Alberto udì ch'ella rispondeva freddamente:

«Grazie. Sono stanca.»

«Non balli più?» domandò la contessa.

«No, mamma; vorrei già essere a casa.»

La mamma rivolse su di lei uno sguardo penetrante e disse:

«Andiamo pure.»

Il giovane, che era rimasto a discorrere con loro, accompagnò le due signore. Mentre Alberto stava per partire anche lui, incontrò la contessa Armandi.

«Oh! Lei qui! Lo credevo ancora a Belmonte. Va via anche lei? M'accompagni sino alla mia carrozza in tal caso...»

Gli porse il suo mantello ovattato, in anticamera, perché l'aiutasse un po'; e andava chiacchierando mentre il maldestro cavaliere era alquanto imbarazzato. «O come va che trovasi qui e solo? e la sua cuginetta?... Quest'altro capo qui, sulla spalla... È andato in fumo dunque?... Badi anche a lei, dicono che fa freddo. Grazie, così!... Per colpa sua, ne son certa; gliel'avea predetto, si rammenta?... Tiri un po' in su il cappuccio... Non speravo d'incontrarla: che fortuna!»

«Come va che non l'ho vista al ballo?»

«Era così occupato! Ma non me l'ho a male, veh!»

In questo momento rientrava il giovanotto che avea accompagnato le signore Manfredini, e salutò profondamente l'Armandi.

«Soletto?» gli disse costei.

Il giovine evitò di rispondere facendo un inchino, e un mezzo sorriso.

«Chi è quel signore?» domandò Alberti accompagnandolo con un lungo sguardo.

Gli occhi della contessa brillarono di un'ironia maliziosa: «Il signor De Marchi» rispose «un amico di casa Manfredini. Bel giovane, non è vero?»

E scese le scale appoggiandosi appena al braccio di Alberto. Questi, mentre le porgeva la mano per montare in carrozza, le domandò:

«Mi permette che l'accompagni?»

«No. Ella non potrebbe più fingere d'ignorare dove abito, e sarebbe costretto a farmi la visita di Belmonte.»

«Me la son meritata!»

«Non sono in collera» e gli strinse la mano, sorridendogli dal fondo del cappuccio. «No, davvero!»

La carrozza partì.

 




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