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Giovanni Verga Eros IntraText CT - Lettura del testo |
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Il conte Armandi era uscito verso le tre; la musica gli piaceva al Regio, o alla Scala, con accompagnamento di ballerine, e aveva il buon gusto di stare nel salotto della moglie soltanto allorché ella non riceveva. Era dunque montato a cavallo, ed era andato a desinare alla villa di un suo amico. Andava tranquillamente di passo, col sigaro in bocca, piegandosi sulle staffe per osservar da buon cavallerizzo la levata del cavallo, e compiacendosi nell'atteggiarlo come fosse al maneggio. La giornata era bella, rinfrescata da una piacevole brezzolina che faceva sventolare la banderuola di segnale posta da un lato della via che stavasi riparando. Il cavallo del conte ebbe un ghiribizzo alla vista di quella banderuola rossa che svolazzavagli dinanzi agli occhi, ricalcitrò, e passò sbuffando, guardandola torvo, con le narici fumanti, e contrastando alla mano. Armandi volle assicurarlo: cavallo e cavaliere si incaponirono, s'imbizzarrirono, sbrigliando, impennandosi, spronando, e rinculando verso quella parte della strada ch'era tutta sossopra e sparsa di buche, quasi il cavaliere avesse il proposito deliberato di rompersi il collo; tutt'a un tratto il cavallo mise un piede in falso, cadde, tentò generosamente di rialzarsi con isforzi disperati, e infine, vinto dal dolore, si rovesciò senza mettere un nitrito, da bravo. Armandi era saltato abilmente in piedi fuor delle staffe, e cercò rianimare colla briglia e colla voce il povero animale che aveva l'angoscia negli occhi, sollevava il capo e ricadeva. «Povero Falco!» disse il conte. Infine, vedendo che non c'era proprio nulla da fare raccomandò il cavallo ferito agli operai che lavoravano sulla strada, promettendo di mandar subito dei soccorsi, e invece di tornare a piedi per la via fatta, che sarebbe stata troppo lunga, scese sulla riva in cerca di un battello, e si fece condurre per acqua alla sua villa. La villa dalla parte del lago avea un cancello che aprivasi sul molo microscopico dov'erano ormeggiate le due barchette del conte. Un centinaio di passi più in là era la casetta del giardiniere, addossata al muro di cinta, tappezzata di gelsomini, e di cui il tetto rosso faceva un bel vedere sul verde cupo dei grandi alberi del boschetto. Il conte andò a picchiare sui vetri della finestra col pomo del suo frustino, e si fece aprire il cancello, rimandò il giardiniere, e s'avviò pel viale che menava alla terrazza. Camminava lentamente, e di tanto in tanto fermavasi come per stare in ascolto, e alzava gli occhi verso le finestre del salotto. Il viale, prima di mettere alla scalinata della terrazza, serpeggiava attorno ad una gran vasca ombreggiata da magnifiche piante acquatiche, e biforcavasi per mettere in un sentieruolo che conduceva alle scuderie, passando dinanzi ad una capanna rustica ch'era chiusa da lungo tempo. Il conte s'era avviato pel sentieruolo, teneva gli occhi fissi sulla capanna abbandonata o sulle scuderie, cercando di veder qualcuno da mandare in soccorso pel povero Falco. Ei passò accanto ad un padiglione di bosso e di mortella, tenuto con somma cura, aperto da quattro arcate, ornato di sedili e di statue, dinanzi al quale il sentieruolo svoltava bruscamente per salire l'erta verso la capanna. Alberti era giunto all'ora fissata. La contessa l'aspettava: ei le s'appressò rapidamente, le baciò la mano, e le disse con voce breve: «Vostro marito?» «Uscito.» «Tornerà presto?» «Desinerà fuori di casa.» «Come siete bella!» esclamò. Ella si svincolò dalle mani che le stringevano i polsi, e andò a tirare il cordone del campanello. «Lasciate aperto quell'uscio» ordinò al domestico «fa troppo caldo.» «Non m'amate più?» le disse Alberto sottovoce, rispondendo all'occhiata timida e come di scusa ch'ella gli rivolse tornando a sedersi presso di lui. La contessa chinò la fronte nella mano. Dopo un istante rispose con voce commossa: «Se vi amo!» «Mi amate in un modo singolare davvero!» «Singolare davvero! Sono una matta! Non so dov'abbia la testa in certi momenti... Stanotte non ho chiuso occhio pensando alla follìa che ho fatto ieri sera!...» «Perdonatemi!... Se sapeste!.... Perdonatemi!...» Si parlarono a voce bassa, quasi senza guardarsi, padroneggiandosi perché i loro volti rimanessero impassibili, acciò qualche specchio indiscreto non li tradisse alla curiosità del domestico che stava nell'altra stanza. Quelle passioni ardenti, che sibilavano come il soffio del vapore imprigionato sotto quella maschera d'indifferenza, aveano qualcosa d'irresistibile. La contessa s'alzò, andò ad aprire le persiane e si mise a guardar fuori. «C'è un'arietta fresca che ristora» disse dopo alcuni istanti. «In giardino si deve star benissimo. Andiamo?» Alberto la segui. Ella precedeva di qualche passo, coll'andatura svogliata, dimenando un po' il braccio, e tenendo l'ombrellino sulla spalla. Si vedeva il suo busto piegarsi e inarcarsi con graziosa elasticità sotto il tessuto leggero che gonfiavasi e increspavasi alternativamente. Si fermava agli sbocchi dei viali, mettevasi sugli occhi, per guardar lontano, la mano che al sole sembrava di un roseo trasparente, poscia s'avviava risolutamente, con vaga spensieratezza: il viale si arrampicava sull'erta serpeggiando; la contessa arrestavasi di tanto in tanto per ripigliar fiato, e voltavasi verso di Alberto per dirgli qualche parola. Ad un certo punto gli stese, senza voltarsi, la mano: ei la baciò. «Cosa volete che faccia per provarvi quanto vi ami?» gli disse risolutamente. «Datemi la chiave del cancello che mette sul lago.» Ella si voltò, lo fissò seria seria, e scosse il capo due o tre volte. «Vedete!» disse Alberto amaramente. La contessa gli strinse la mano, conducendolo con dolce violenza; svoltò l'angolo del viale che saliva alla capanna abbandonata, ed entrò nel padiglione. Stava ritta sotto l'arco fiorito, guardando il lago che luccicava in fondo al panorama, e colle mani appoggiate al bastone dell'ombrellino. Il venticello faceva svolazzare il suo vestito e glielo modellava adosso. «Vorreste vivere con me, laggiù, in Isvizzera, a Londra, o a Parigi?» gli disse ridendo. Ei le afferrò la mano con impeto. «E voi lo fareste?...» «Se lo potessi...» «Oh, allora... Ma non bisogna chieder troppo neanche all'amore.» La contessa gli piantò in faccia uno sguardo profondo e pensieroso. Alberti l'evitò, come se tutte le contraddizioni che c'erano nello stato di quella donna gli saltassero agli occhi. Sentì che il suo stesso silenzio glielo rinfacciava, e dovette ricorrere al paradosso per giustificar lei e sé stesso. Ella ascoltava avidamente, più convinta di lui, affascinata da quella falsa eloquenza della passione; sorrise e gli disse: «Cotesta è la teoria del frutto proibito...» «Credete?» domandò dopo un voluttuoso silenzio. Era seduta mollemente, un po' piegata verso di lui, tenendogli le mani, ombreggiata dai folti ramoscelli, e tutta profumo. Ei la guardò avidamente. «Sì!» le disse con un bacio. «Zitto!» esclamò l'Armandi trasalendo e facendosi pallida. «Vien gente!» Si udì scricchiolare la sabbia del sentieruolo che incrociavasi col viale pel quale erano venuti. «Vostro marito!» esclamò Alberti con voce sorda, e facendole schermo istintivamente del suo corpo. La donna s'avviticchiò all'amante, e gli nascose il viso in petto con un voluttuoso terrore. Stettero alcuni istanti immobili, nascosti nell'angolo più oscuro, trattenendo il respiro coi due cuori che battevano l'un sull'altro. Si udirono i passi avvicinarsi lentamente, passare accanto al padiglione, e allontanarsi a poco a poco. La contessa rialzava il capo timidamente, e per la prima volta mise un respiro. I due amanti si guardarono, pallidi come cera, gli occhi di lei si velarono, e si abbandonò dolcemente nelle braccia di Alberto. «Emilia... per l'amor di Dio! Fatevi animo, via!...» Ella non lo lasciava, e fissavalo con occhi nuotanti in un languore delizioso, come se il pericolo, l'ansietà, la paura avessero dato non so qual divorante ed irritante attrattiva al desiderio, alla colpa, all'uomo amato. Rimase in quella specie d'estasi col capo appoggiato alla spalla di lui, colla bocca socchiusa, pallida, spaventata e sorridente. «Andiamo, andiamo, Emilia!» Emilia si rizzò vacillante, si fregò un po' gli occhi, distese mollemente le braccia con un movimento di tigre, lo guardò con occhi addormentati, e gli disse: «Passate sotto la mia finestra... vi butterò la chiave... Domani a mezzanotte... se vedete lume nel salotto... sarà segno di sì... Vattene! vattene!» Il conte Armandi sembrava alquanto turbato allorché entrò nella stanza della moglie. La contessa gli rivolse un'occhiata alla sfuggita. «Sapete l'accidente di quel povero Falco?» diss'egli. «S'è rotta una gamba!» All'entrare del marito la contessa s'era allontanata bruscamente dalla finestra. «Ma dove? come?... E voi?» domandò. «Sulla strada maestra, proprio come in questa stanza. Non saprei dire io stesso come sia avvenuto. Povero Falco! Sono stato alla scuderia per mandare tutti i possibili soccorsi, ma pur troppo temo sieno inutili... Io sto benissimo, come vedete... Ma voi, cos'avete? Siete un po' pallida anche voi!» «Quest'accidente...» «Che volete farci? Non ne parliamo altro. Cosa avete fatto di bello?» «Ma lo vedete!» disse la moglie mostrandogli il ricamo che avea in mano. «Il marchese Alberti non è venuto?» «Sì». «Avete fatto della musica?» «Pochissimo; non mi sentivo bene. Ho un po' di mal di capo...» «È partito adesso il marchese?» .«Mezz'ora fa.» «Oh! ma non è lui... laggiù?» disse il conte dalla finestra. «Da dove diavolo viene dunque con questo sole?» La contessa si fece alla finestra anche lei, sorridente e curiosa, gettò un'occhiata al di fuori, si strinse nelle spalle, poi tornò a sedersi. «Passeggiare con questo bel sole!... che follìa...» «Avrà fatto qualche visita nelle vicinanze» disse invece il conte.
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