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Giovanni Verga
Eros

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Alberti passò una notte orribile. Avea visto, attraverso i vetri di quel balcone, la donna che amava alla follìa, accasciata sul canapè, colla testa fra le mani - ella non avea fatto un passo verso di lui, non avea messo un grido - egli non avea potuto stendere le braccia per soccorrerla, o per rapirla alla gelosia del suo rivale - questo soltanto bastava a delineare la situazione reciproca con una terribile eloquenza. L'amore di lui esaltavasi al pericolo di lei, al pensiero delle lagrime che non poteva vedere. Fece i più insensati progetti; andò cento volte a spiare le finestre di quella casa. Il domani seppe che marito e moglie erano partiti all'alba, non si sapeva per dove.

Il giovane ardeva di seguirla, ma dove? Fece tutto quello ch'era possibile di fare per aver notizie di lei; poi sperò ch'ella gli avrebbe scritto; poi s'accasciò. A poco a poco incominciò a pensare a lei con una dolcezza melanconica, fantasticando sul castello solitario dove il geloso marito l'avea probabilmente rinchiusa, sulle lagrime ch'ella avea dovuto versare, sui ricordi mesti e cari che doveano tornarle alla mente mentre fissava i begli occhi alle stelle... E tutto ciò sarebbe stato possibile forse; ma Armandi conosceva troppo il mondo e le donne per contribuire a fare esaltare colla solitudine la passioncella della moglie. Dopo una breve spiegazione, fatta con garbo e da gente ammodo, entrambi avevano finito per andar d'accordo che quanto ci fosse di meglio a fare era d'andare a Baden. La contessa, dopo quella scossa inaspettata, erasi mostrata quasi riconoscente verso il marito del suo spirito conciliativo e da canto suo s'era prestata lealmente a riparare il male fatto. Passato il primo sbigottimento, il suo amore, chiamiamolo pur così, avea guardato la cosa dal lato mondano, e avea fatto giudizio.

Intanto il tempo scorreva sul rancore del marito, sulla melanconia della moglie, e sull'immaginazione di Alberto, come se si fosse incaricato di poter far riunire nuovamente e senza inconvenienti queste tre persone nel medesimo salotto, a centellinare il caffè, ciarlando tranquillamente di mode o di politica.

Alberti dopo alcuni mesi avea ripreso le abitudini di una volta. Al principio dell'inverno seppe da un amico che tornava da Baden come l'Armandi fosse stata la più bella, la più elegante, la più allegra signora che si fosse trovata ai bagni. Il baccanale della babele europea estiva faceva crollare in uno scoppio di risa il melanconico castello di carte, dove la sua fantasia abbrunata avea rinchiuso i sospiri della bella, mentre egli dondolavasi sulla poltrona fumando il sigaro. Il suo funesto spirito d'analisi ebbe campo di fargli fare delle lunghe meditazioni, amare, irritanti, che ferivano non solo le sue illusioni giovanili, ma anche il suo amor proprio.

Coll'inverno erano ritornate le rondinelle dell'alta società, ed Alberti seppe che la contessa era andata a Torino col marito. A quella notizia, al sapersela cotanto vicina, sentì divampare in fondo al cuore, non diremo l'amore, ma il desiderio, la curiosità, una certa ostinazione dispettosa e andò e la rivide. Com'era cambiata! non al fisico - la contessa era sempre giovane e bella; ma il contegno di lei, così strano, così indifferente, ricominciava a montargli la testa o a fargliela perdere del tutto. Però l'Armandi non era tal donna da perdere la sua, quando non voleva, o da farsi trascinare pei capelli in una situazione imbarazzante. Finalmente gli rispose dandogli appuntamento in uno dei più remoti viali del Valentino.

Allorché il giovane la vide discendere dal fiacre da nolo, sentì battersi il cuore come una volta, più forte di una volta forse. Ella gli venne incontro un po' esitante, e gli stese la mano.

«Volete che montiamo in carrozza?» le domandò.

«No.»

«Perché non rimandate il vostro legno in tal caso?»

«Lasciatelo lì.»

Alberto tacque, e presentì tutto quello che ella dovea dirgli con la sua voce pacata.

Fecero alcuni passi in silenzio. L'Armandi non s'era accorta del braccio che offrivale il giovane.

«Sentite, Alberto» gli disse alfine «dobbiamo dimenticare.»

Ei sentì scoppiargli in cuore, montargli alla testa, affogargli la voce nella gola, tutto ciò che avea sofferto, temuto e sperato per lei. Non disse motto, non le rivolse uno sguardo. - Ella gli strinse la mano.

«È necessario!» soggiunse.

«Lo volete?»

«È necessario. Mio marito mi ha perdonato, ma sa tutto... Cosa volete che faccia?...» Successe una breve pausa. «A che pensate?» diss'ella.

«Penso che veramente non dovete amarmi più, se l'ultima volta che mi vedete potete aver il coraggio di dirmi addio in presenza del vostro fiaccheraio, per impedirmi che almeno vi lasci scorgere le mie lagrime.»

«Come siete ingiusto!»

«È vero, perdonatemi... Soffro tanto!» esclamò tristamente e scuotendole le mani.

Ella non rispose, e voltò indietro per ritornare lentamente verso il fiacre che l'aspettava.

«Vi domando un ultimo sacrificio: lasciate Torino.»

«Non vi basta che rinunzi a vedervi?»

«E mio marito?»

«Ebbene, partirò.»

La contessa continuava ad andare innanzi.

«Volete proprio che vi dica addio dinanzi al cocchiere?» mormorò il giovane con tutta l'amarezza che gli rodeva il cuore.

Ella si fermò, voltandosi appena verso di lui, gli strinse la mano, e senza rialzare il velo gli disse:

«Addio!»

Le labbra del giovane tremavano senza che potessero profferire una sola parola. La vide allontanarsi lentamente, e montare in carrozza.

Poi si asciugò di nascosto una lagrima - l'ultima.

Il giorno dopo partì davvero, per un altero rispetto della sua parola, o per un dispettoso amor proprio. Il vedere rompere con tanta indifferenza tali legami l'avea ferito profondamente; ma avea tanto amato quella donna, e tanto diversamente dalle altre, che fra loro parevagli dovesse sussistere sempre un vincolo indissolubile; il suo dolore avea certa voluttà che gli piaceva assaporare andando a seppellirsi in campagna - ma la sua campagna era troppo vicina a Milano, e gli amici non tardarono ad andare a farvi una partita di caccia - per distrarlo. Così seppe dopo qualche tempo quello che non avrebbe dovuto sapere: il colonnello Marteni, nell'assenza del conte Armandi, che era in Germania con una missione diplomatica, comprometteva un pochino la contessa, e la contessa si lasciava compromettere. Alberto corse a Torino, e colla ingiusta e malsana curiosità del geloso riescì a convincersi davvero che il colonnello era precisamente quello che dicesi un successore in tutte le regole.

Allora andò a cercare del colonnello Marteni.

Lo trovò che faceva colazione. Il colonnello, al ricevere il suo biglietto di visita, si era rammentato di lui, forse un po' troppo, e l'invitò a prender posto alla tavola, da vecchio amico. Alberto rifiutò freddamente, dicendo che lo scopo della sua visita non permettevagli di fermarsi a lungo. L'altro si fece serio, vuotò il bicchiere che aveva offerto, e levò il capo come per ascoltare con maggior attenzione.

«Non avremo bisogno di molte parole per intenderci», disse Alberti. «Ella è soldato e gentiluomo, e troverà la cosa perfettamente naturale. Noi siamo rivali; non occorre fare il nome della donna che amiamo o che abbiamo amato. Son venuto per cercare di comune accordo un pretesto per liquidare la faccenda fra di noi, senza che sia compromesso il nome di quella persona.»

Il colonnello parve riflettere alquanto.

«Anzitutto» rispose «mi permetta una domanda: Lei è dalla parte di chi ama, oppure dalla parte di chi ha amato?»

«Cotesto non preme sapere.»

«Domando scusa, preme moltissimo.»

«Signore, sembrami che divaghiamo!» disse Alberti con una sfumatura d'ironia provocante.

Marteni conservò la più perfetta calma.

«Scusi, avrei dovuto incominciare da un'altra domanda: Ella crede che io le debba qualche cosa... perché sono il suo... successore?»

«Signore!...»

«Caro marchese, sono ufficiale nei carabinieri, e come tale un po' soldato, e un po' legale; ragioniamo adunque, poiché a bucarsi la pelle c'è sempre tempo. Se lei è convinto che io le debba una riparazione soltanto perché son venuto dopo di lei, vorrei sapere chi di noi due avrebbe più diritto di sfidar l'altro? Ella, perché io sono arrivato ultimo, oppure io perché lei mi ha preceduto?»

«Cotesto è invertire singolarmente la quistione.»

«Semplifichi, rettifichi pure; son qui ad ascoltare.»

«Non son venuto a dirle, né ho bisogno di dirle, quali siano le mie opinioni su quella signora; e sembrami che non occorrano tante parole fra due gentiluomini per bucarsi la pelle, come lei dice.»

«Caro marchese, non ha rettificato nulla, e si aggrappa alla provocazione come uno che non abbia migliori ragioni da metter fuori. Ma io ho più anni di lei, sono soldato, ho due medaglie, di quelle che danno il diritto di esser sempre calmo, e posso permettermi di credere che occorrano proprio tutte le possibili spiegazioni fra due uomini di cuore, prima di mettere mano ai ferri, soprattutto allorché sono seduti, come noi, dinanzi ad una buona tavola. Ella viene a sfidarmi per amor proprio, per dispetto, piuttosto che per gelosia; senza pensare che colloca il suo amor proprio prima del mio, che avrei lo stesso diritto. Le parlo da uomo di cuore e da uomo d'onore - come le propongo di stringere la mano che stendo. Ora, se coteste ragioni non le bastano, e cerca proprio un pretesto, mi dica che questo bicchier di vino che le offro è cattivo, e io le getto la bottiglia alla testa e mi metto a sua disposizione.»

Alberti alzò lentamente il bicchiere, e bevve.

«Bravo così!» esclamò Marteni stringendogli calorosamente la mano.

«Un'ultima parola, colonnello... Da quanto tempo... Ella è il mio successore?...»

«Ah! Questo poi....»

«Era per farci su le mie riflessioni» rispose Alberti con un amaro sorriso. «Senza implicarci menomanente quella signora, in parola d'onore!»

«Le ho detto già troppo, perché ella è molto giovane... Ma mi lasci il mio segreto... professionale» finì Marteni ridendo.

«Grazie!» rispose Alberto dopo un po' di esitazione.

 




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