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Giovanni Verga
Eros

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Adele rimase sbalordita, il sangue le avvampò al viso, e corse in furia nelle sue stanze.

Alberto era uscito, róso anche lui dalla febbre, dal dispetto, dalle furie. Andò a caso, quasi senza vederci, e tornò sui suoi passi, spinto da una smania invincibile. Allora fece una cosa che egli stesso avrebbe creduto impossibile: si mise a spiar la moglie.

La marchesa aveva scritto un bigliettino corto corto a Gemmati, dicendogli che aveva bisogno di parlargli. Gemmati venne durante la sera, inquieto per quella letterina secca e asciutta che non diceva nulla e lasciava indovinare molto. Trovò Adele cogli occhi luccicanti insolitamente, ma pallida e disfatta, e toccandole la mano: «Voi avete la febbre!» esclamò.

Ella non l'udì. Dopo un istante di esitazione, gli disse risolutamente:

«Amico mio... bisogna che non ci vediamo più.»

«Perché?»

Adele si fece rossa, con un'aria di pudico trionfo. «Mio marito è geloso!»

«Di me?»

«Di chi potrebbe esserlo?» diss'ella abbassando gli occhi e la voce, come se una favilla di quei misteri che a nostra insaputa si nascondono fra le tenebre dell'anima scintillasse improvvisamente alla superficie.

«E voi... siete contenta ch'egli sia geloso?» domandò Gemmati sottovoce.

«Sì!» rispose dolcemente la donna con l'egoismo degli innamorati; e un sorriso la irradiò.

«Che volete che faccia?»

«Evitiamo di vederci.»

«Cosa penserà Alberti?... che m'abbiate prevenuto!...»

«È vero!...»

«Quell'anima fiacca e malata dubiterà sempre... Forse sarebbe peggio... Bisogna fare qualcosa dippiù.»

«Cosa?»

Dopo un breve silenzio ei le disse timidamente:

«Mi sarete grata di quel che farò per voi?»

Ella gli strinse la mano, e chinò gli occhi. Rimasero un istante assorti. In quel momento entrò Alberto.

Adele ritirò vivamente la mano. Il marchese li guardò appena. Vide Gemmati commosso, e delle tracce di lagrime negli occhi di sua moglie; sedette.

«Sono venuto a dirti addio» disse Gemmati rompendo pel primo quel silenzio glaciale.

«Parti?»

«Sì.»

«Per dove?»

«Vado a Napoli.»

Adele impallidì. «A Napoli c'è il colèra!» disse con vivacità.

«Son medico, ed ho degli importanti studi da fare sul colèra.»

«E ti fermerai... molto tempo?»

«Mi stabilirò colà.»

«E la tua clientela di Firenze?»

«Me ne farò un'altra laggiù...»

La marchesa non aveva più aperto bocca. Gemmati, senza nessuna esagerazione, le disse addio con semplicità.

Alberti l'accompagnò sull'uscio, e gli strinse la mano proprio all'inglese.

«Tardi o no, è una bella azione che fa Gemmati!» disse tornando a sedere presso la moglie immobile e bianca come una statua. Ella levò gli occhi su di lui quasi non avesse ben capito.

«E a proposito di partenza... sono venuto a dire... che parto anch'io.»

Adele, seguitando a fissarlo con occhi spalancati, attoniti, impietrati dal dolore, balbettò:

«Per sempre?»

«Chi ha detto che sia per sempre? Non vado a consacrarmi ai colerosi io... Ho risoluto di viaggiare un po'.»

«Oh! Alberto!» esclamò la derelitta con voce sorda, lasciandosi cadere sulle ginocchia.

Ei la sollevò con mano ferma. «Non abbassatevi!» le disse freddamente «e non abbassate me!»

La poveretta rimase pietrificata da quello sguardo incisivo, duro, inesorabile, e sentì l'abisso ch'erasi sprofondato fra di loro.

Non s'erano più detta una parola, e le prime notizie del marchese erano venute da Monaco. Frattanto Adele era ricaduta più gravemente inferma. Al principio della primavera, lusingata da un'apparenza di convalescenza, era partita per Belmonte. Il marito, che non aveva mancato di chieder notizie di lei, aveva approvato la risoluzione, ed avea promesso che appena di ritorno in Italia, sarebbe andato a trovarla.

Intanto non ritornava, e il male di Adele, dopo parecchi miglioramenti fittizi, s'era dichiarato in tutta la sua gravità. Ella moriva del male che le avea rapito la madre. Il vecchio medico, che la conosceva da bambina, cominciò a farle capire che non intendeva addossarsi da solo la responsabilità di una cura tanto difficile, e chiese un consulto.

La marchesa non disse né sì né no; rimase meditabonda, e nessuno seppe mai quel ch'ella facesse nelle lunghe ore che chiudevasi nella sua camera. Finalmente rispose al dottore che insisteva pel consulto:

«Parmi che si dovrebbe domandare il parere di mio marito...»

Il buon dottore non seppe capire il timido desiderio che avea l'inferma di richiamare Alberto con quel pretesto, e di averselo vicino in quegli ultimi dolorosi giorni di prova. Egli se ne andò tentennando il capo, e borbottando: «Purché non si faccia aspettare anche la risposta...»

Ella aspettava! Il male intanto la divorava rapidamente, e ben tosto le forze le mancarono. Più volte, non vedendo giungere alcuna lettera del marito, si mise a scrivergli, e non ne ebbe il coraggio. Più tardi non n'ebbe nemmen la forza. Allora fu assalita da una paura indicibile, e per la prima volta lasciò scappar le lagrime al cospetto del medico.

«Non sarebbe tempo di avvisare mio marito?...»

«Credevo che avesse già scritto... e mi stupisco davvero!... Ma telegraferò oggi stesso...»

«Telegrafare!...» mormorò lei. Non disse più nulla, e rimase a guardare il pallido sole di novembre che tramontava sui vetri della finestra.

Disgraziatamente il telegramma del dottore non trovò il marchese a Berlino, dove credevasi che egli fosse; sicché perdette tempo prezioso a corrergli dietro per tutte le piccole città della Germania. Quando finalmente gli fu ricapitato, Alberto non mise tempo in mezzo e ritornò subito in Italia.

A Firenze trovò un secondo dispaccio firmato dalla moglie. Era affranto dalla fatica e diluviava; si fece condurre da un treno speciale sino a Pistoia, e da Pistoia, in carrozza, si mise in viaggio per Belmonte.

 




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