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Pietro Bembo
Gli Asolani

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  • LIBRO SECONDO
    • -15-
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-15-

 

 È adunque, né bisogna che io ne quistioni, o donne, naturale affetto de gli animi nostri Amore, e per questo di necessità e buono e ragionevole e temperato. Onde quante volte aviene che l'affetto de' nostri animi non è temperato, tante volte non solamente ragionevolebuono è più, ma egli di necessità ancora non è Amore. Udite voi ciò che io dico? Vedete voi a che parte la pura e semplice verità m'ha portato? Che dunque è, potrestemi voi dire, se egli non è Amore? ha egli nome alcuno?. Sì bene che egli n'ha, e molti, e per aventura quelli stessi che Perottino quasi nel principio de' suoi sermoni gli diè, pure di questo medesimo ragionando quello, che egli d'Amor si credea favellare: fuoco, furore, miseria, infelicità e, oltre a questi, se io porre ne gli posso uno, egli si può più acconciamente che altro chiamare ogni male, perciò che in Amore, sì come poco appresso vi fie manifesto, ogni bene si rinchiude. Che vi posso io dire più avanti? Né v'ingannino queste semplici voci, o donne, che senza fatica escono di bocca altrui, d'amore, d'amante, d'innamorato, che voi crediate che incontanente Amor sia tutto quello che è detto Amore, e tutti sieno amanti quelli che per amanti sono tenuti e per innamorati. Questi nomi piglia ciascuno per lo più co' primi disii, i quali esser possono non meno temperati che altramente e, così presi, comunque poi vada l'opera, esso pure se gli ritiene, aiutato dalla sciocca e bamba oppenione de gli uomini che, senza discrezion fare alcuna con diverse appellazioni alle diverse operazion loro, così chiamano amanti quelli che male hanno disposti gli affetti dell'animo loro nelle disiderate cose e cercate, come quelli che gli han bene. Ahi come agevolmente s'ingannano le anime cattivelle de gli uomini, e quanto è leggiera e folle la falsa e misera credenza de' mortali. Perottino, tu non ami; non è amore, Perottino, il tuo; ombra sei d'amante, più tosto che amante, Perottino. Perciò che se tu amassi, temperato sarebbe il tuo amore, e essendo egli temperato, né di cosa che avenuta ne sia ti dorresti, né quello che per te avere non si può disidereresti tu o cercheresti giamai. Perciò che, oltre che soverchio e vano è sempre il dolore per sé, stoltissima cosa è e fuori d'ogni misura stemperata, quello che avere non si possa, pur come se egli aver si potesse, andare tuttavia disiderando e cercando. La qual follia volendo significarci i poeti, fecero i Giganti che s'argomentassero di pigliare il cielo, guerreggianti con gl'Idii, a cui essi non erano bastanti. Che se la fortuna t'ha della tua cara donna spogliato, dove tu amante di lei voglia essere, poscia che altro fare non se ne può, non la disiderare, e quello che perduto vedi essere, tieni altresì per perduto. Amala semplice e puramente, sì come amare si possono molte cose, come che d'averle niuna speranza ne sia. Ama le sue bellezze, delle quali tanto ti maravigliasti già e lodastile volentieri; e dove il vederle con gli occhi ti sia tolto, contentati di rimirarle col pensiero, il che niuno ti può vietare. E in fine ama di lei quello che oggi poco s'ama nel mondo, mercé del vizio che ogni buon costume ha discacciato, l'onestà dico, sommo e spezialissimo tesoro di ciascuna savia, la qual sempre ci dee esser cara, e tanto più ancora maggiormente, quanto più care ci sono le donne amate da noi; sì come io m'ingegnai di fare già, che ella fosse a me cara nella persona della mia donna, non men di quello che la sua bellezza m'era graziosa, quantunque ne' primi miei disii, sì come veggiamo tutto a' cavalli non usati essere la sella e il freno, ella dura e gravetta mi fosse alquanto nell'animo a sopportare. Di che io allora ne feci in testimonio questa canzone; la quale tanto più volentieri vi sporrò, graziose giovani, quanto a voi, che non meno oneste sete che belle, ella più che alcuna dell'altre già dette s'acconviene.

 

 

rubella d'Amor, né sì fugace

Non presse erba col piede,

mosse fronda mai Ninfa con mano,

trezza di fin oro aperse al vento,

Né 'n drappo schietto care membra accolse

Donnavaga e bella, come questa

Dolce nemica mia.

Quel che nel mondo, e più ch'altro mi spiace,

Rade volte si vede,

Fanno in costei, pur sovra 'l corso humano,

Bellezza e castità dolce concento.

L'una mi prese il cor come Amor volse,

L'altra l'impiaga, sì leggiera e presta,

Ch'ei la sua doglia oblia.

Sola in disparte, ov'ogni oltraggio ha pace,

Rosa o giglio non siede,

Che l'alma non gli assembri a mano a mano,

Avezza nel desio ch'i' serro drento,

Quel vago fior, cui par uom mai non colse.

Così l'appaga e parte la molesta

Secura leggiadria.

Caro armellin, ch'innocente si giace,

Vedendo, al cor mi riede

Quella del suo penser gentile e strano

Bianchezza, in cui mirar mai non mi pento:

novamente me da me disciolse

La vera maga mia che, di rubesta,

Cangia ogni voglia in pia.

Bel fiume, alor ch'ogni ghiaccio si sface,

Tanta falda non diede,

Quanta spande dal ciglio altero e piano

Dolcezza, che far altrui contento;

E sé dal dritto corso unqua non tolse.

Né mai s'inlaga mar senza tempesta,

Che sì tranquillo sia.

Come si spegne poco accesa face,

Se gran vento la fiede,

Similemente ogni piacer men sano

Vaghezza in lei sol d'onestate ha spento.

O fortunato il velo, in cui s'avolse

L'anima saga e lei, ch'ogni altra vesta

Men le si convenia.

Questa vita per altro a me non piace,

Che per lei, sua mercede,

Per cui sola dal vulgo m'allontano;

Ch'avezza l'alma a gir 'v'io la sento,

Sì ch'ella altrove mai orma non volse;

E più s'invaga, quanto men s'arresta

Per la solinga via.

Dolce destin, che così gir la face,

Dolci del mio cor prede,

Ch'altrui sì presso, a me 'l fanlontano;

Asprezza dolce e mio dolce tormento,

Dolce miracol, che veder non suolse,

Dolce ogni piaga, che per voi mi resta

Beata compagnia.

Quanto Amor vaga, par beltate onesta

Né fu giamai, né fia.

 

 




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