2. «Di propria mano voglio ferirti»
Dal giorno 15 fino al giorno 18 agosto
1814 la povera Giovanna Felice non fa altro che piangere la mia e l’altrui ingratitudine,
in una maniera tanto grande che alle volte mi sento mancare la vita, tanta è
l’afflizione che provo di avere offeso un Dio tanto buono, e il vederlo tuttora
offeso dagli altri mi cagiona somma pena. Si andava tanto aumentando questa
afflizione, che la sera del 18 piangevo amaramente i miei peccati. Nelle
orazioni, che credetti di morire.
Quando un desiderio di carità ha sorpreso il mio cuore, e ardentemente mi
faceva desiderare di unirmi al mio Dio, assai più di quello che desiderar possa
una cerva ferita l’amata sua fonte. Quando dall’alto dei cieli mi si è dato a
vedere Dio, che trasportato dall’infinita sua carità ha vibrato amoroso dardo
verso di me, per mezzo di intima cognizione mi significava i suoi sentimenti,
come avesse detto: «Figlia, ricevi l’impressione della mia carità, non per
mezzo di un Angelo, ma di propria mano voglio ferirti. Questo favore ti
dimostra il parziale affetto che ti porto».
Ma da qual fiamma di carità restò accesa la povera anima mia non so
spiegarlo. Sentivo sollevarmi tratto tratto il corpo, tanta era la forza dello
spirito, che innamorato, per la particolar comunicazione di Dio, si andava
sollevando per mezzo di questo amoroso colpo Dio mi unì a sé intimamente. Si
può dire che mi colpì con tutto se stesso, mentre nel colpo divenni possessora
felice di un Dio amante. Che grazia sua questa, non è spiegabile.
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