Prima di farmi intraprendere il disastroso
viaggio, il mio Signore mi ha condotto in bella e amena pianura, bella e
verdeggiante campagna, smaltata di preziosi fiori. In queto luogo si degnò il
giorno 30 agosto 1814 di favorire la povera anima mia con grado molto
particolare di unione. Qual dolcezza mi fece gustare! di quali abbracciamenti
mi degnò, con quale unione mi unì a lui, come restai medesimata con
quell’immenso bene, quale amore mi compartì, non so spiegare cose molto grandi.
Molto copiosa fu la cognizione che mi compartì Dio di se stesso. A queste
cognizioni fui sopraffatta dallo stupore, e rapita dalla cognizione, mi andavo
inoltrando viepiù ogni momento. Più mi inoltravo, e più mi innamoravo
dell’infinito essere di Dio. Più amavo, e più lo conoscevo degno di amore. Mio
Dio, mi manca la maniera di spiegare i dolci effetti che mi faceste
sperimentare in questa perfetta unione. La mia grande ammirazione veniva
cagionata da due riflessi, uno è di conoscere le alte perfezioni di Dio,
l’altro è di conoscere qual gaudio prova Dio in se stesso nel beneficarmi.
Padre mio, mi è di sommo rossore il proseguire, ma per non mancare
all’obbedienza proseguirò, a gloria di Dio, protestandomi di narrare
semplicemente l’accaduto, senza il minimo pensiero di sostenere le mie idee, ma
lascio a vostra paternità il deciderle.
Mi ha dato a conoscere qual gaudio abbia provato il suo amoroso cuore in
possedermi intimamente, per mezzo di questa unione qual contento le sia di
essere amato da me, povera e misera creatura.
«La ricompensa» mi disse, «che sono per darti si è l’alto posto tra le
vergini. Sì, mia diletta, tra queste sarai annoverata. Ti amo non meno di
quelle che amai la mia Teresa, la mia Geltrude, figlia, oggetto delle mie
compiacenze! Quanto grande è la gloria che ti aspetta! Ringrazia l’infinito amor
mio, tanto parziale verso di te. La mia predilezione ti rende oggetto delle più
alte ammirazioni dei cittadini del cielo. Figlia, diletta mia, parla, domanda
che vuoi, cosa ti potrò negare, figlia, arbitro del mio cuore?».
A queste parole amorose l’anima dette uno sguardo a se stessa, e
riconoscendosi immeritevole di tanto favore, dette in dirotto pianto. «Mio
Dio», diceva piena di confusione, «e come mai, mio Dio, vi potete compiacere in
me, che sono la creatura più vile che abita la terra? Mio Dio, non oscurate la
vostra gloria, per beneficare quest’anima ingrata. Mio Signore, amo assai più
la vostra gloria che il mio proprio interesse! Mio Dio, non posso più sostenere
la piena della vostra carità. Basta, Signore, non più».
Sentivo, per la violenza dello spirito, sollevare il corpo; per
l’attrazione la fiamma della carità mi aveva come incenerito, e, perduta ogni
sensazione, mi pareva di più non esistere.
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