Il 20 novembre 1814, giorno del gran
patriarca san Felice di Matha, così la povera Giovanna Felice racconta di sé.
Dopo breve offerta e rinnovazione dei voti, si tratteneva il mio spirito nel
conoscere il suo nulla; la mia ingratitudine piangevo e con abbondanti lacrime
deploravo le mie colpe, quando ad un tratto interna quiete prevenne il mio
cuore e al momento dalla grave afflizione passai in una quiete molto perfetta,
fui circondata da un bene che mi fece obliviare il male che conoscevo in me.
Questo bene donò al mio cuore pace, tranquillità e amore verso quel bene che mi
circondava; come il fuoco purifica l’oro, così questa bella luce purificò la
povera anima mia. Più non appariva in me macula alcuna, ma investita dal
suddetto bene, che non solo mi circondava, ma mi penetrava, mi medesimava in se
stesso. Benché mi vedessi sì bella, non per questo dimenticai di essere la
creatura più vile che abita la terra; ma piena di ammirazione, rendevo onore e
gloria all’eterno Dio, e ne formavo il più alto concetto, ammirando la sua
infinita sapienza, che sa trovare la maniera di beneficare gli ingrati.
Piena di ammirazione lodavo l’infinito suo amore, intanto per mezzo di
queste cognizioni, si accendeva la volontà di santo amore; e senza avvedermi di
essermi tanto inoltrata, mi trovai negli ampi spazi dell’immensità del sommo
Dio. Dai santi patriarchi Felice e Giovanni di Matha fui accompagnata in questa
immensità, fui intimamente unita, fui intimamente assorbita. Padre mio, non ho
termini sufficienti di spiegare in realtà grazia sì grande, solo Dio le può far
conoscere, per mezzo di intima illustrazione, quello che io, per la mia
insufficienza, non so manifestare.
Il dì 27 novembre 1814 nella santa Comunione fui sopraffatta da interna
quiete. Il mio spirito godeva la presenza di Dio, senza vedere, senza operare,
ma dolcemente riposavo in Dio, e in profondo silenzio amavo quanto mai creatura
intellettuale può amare il suo Creatore. Non ho termini sufficienti per
manifestare la profonda estasi, si degnò sollevare il mio povero spirito,
quanta cognizione mi donò il mio Dio delle sue divine perfezioni! Oh, come la
povera anima mia a queste cognizioni restò assorta in Dio! Oh, come si
struggeva di amore verso l’infinito bene, che conosceva in Dio suo Signore!
Tutto il resto della giornata fui incapace di altra riflessione. Mi trattenni
più o meno immersa in quell’infinito bene, che conosciuto e goduto avevo nella
santa Comunione, come si è detto di sopra.
Dal giorno 27 fino al giorno 30 del suddetto mese di novembre, il mio
spirito ha sempre goduto una interna quiete, un profondo raccoglimento, perché
la mattina nella santa Comunione il mio Dio tornava a sollevare il mio povero
spirito. La interna illustrazione mi teneva tutta la giornata sopita in Dio,
mio Signore.
Dal giorno 30 novembre 1814 fino al dì 4 dicembre il mio spirito l’ha
passato in piangere amaramente le sue colpe, in una maniera tanto viva, che
credevo di morire di dolore, al riflesso di avere offeso un Dio tanto buono.
Questo dolore era accompagnato da una certa speranza in Dio; questo dolore non
riguardava altro che Dio offeso, non i miei vantaggi; mentre mi protestavo, con
tutta la sincerità del mio cuore, che più volentieri mi seppellirei
all’inferno, piuttosto di vedermi ingrata al mio Dio.
|