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Beata Elisabetta Canori Mora
Diario

IntraText CT - Lettura del testo

  • PARTE SECONDA – LE NOZZE MISTICHE (Dal 1813 al 1819)
    • 19 – DOLCE RIPOSO IN DIO
      • 6. Che cosa brutta è il peccato!
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6. Che cosa brutta è il peccato!

 

Dall’otto dicembre fino all’undici il mio spirito ha goduto una interna quiete, un intimo raccoglimento, una carità molto bene ordinata, che mi faceva amare il bene e detestare il male.

 

Dall’undici fino al 17 il mio spirito è stato sopraffatto da dolore così eccessivo di avere offeso Dio, che tratto tratto restavo, per l’eccessivo dolore, come tramortita, per la chiara cognizione che Dio si degnava comunicarmi di sé e di me.

Padre mio, oh che cosa brutta è mai il peccato! oh che cosa indegna è l’offendere un Dio di infinita bontà!

A queste cognizioni mi volgevo verso la povera anima mia, rimproverandola, così le dicevo, piena di orrore: «Anima mia, offendesti Dio e potesti? e come ne avesti cuore! Offendesti un Dio di infinita bontà! Ah, creatura ingrata, dimmi qual fu la cagione che tradisti Dio, forse ti mancò di soccorrerti nei tuoi bisogni? Ah, ingratissima peccatrice, confessa a tua maggior confusione l’aiuto speciale che ti prestò nel tempo che vergognosamente lo avevi tradito, e non pensavi che a soddisfare la tua vanità, e scioccamente ti ponevi in gravi pericoli. La sua infinita sapienza si impiegava tutta per trovare maniere prodigiose, perché non conoscessi la malizia del peccato, donando al mio intelletto una prodigiosa semplicità, e così non potevo conoscere la malizia del peccato.

Oh, amor grande, oh amore infinito! Mio Dio, qual confusione è la mia! Ah, potessi disfare quanto feci contro di te, mio sommo amore! Molto più volentieri annienterei me stessa, che soffrire di vedermi ingrata al vostro amore», le suddette espressioni erano accompagnate da abbondanti lacrime, che dalla grazia di Dio mi venivano somministrate. Al riflesso di avere offeso un Dio di infinita bontà, cresceva a dismisura la pena mia. Dal dolore credevo ogni momento di morire, ma benché fosse molto gravosa la pena, l’ambascia del mio cuore, ciò nonostante non avrei ceduto la suddetta pena per qualunque consolazione di spirito, estasi o ratto, perché in questa pena trovavo ogni contento; anzi mi compiacevo di essere dalla contrizione, dal dolore distrutta, per dare una qualche soddisfazione all’amor tradito.

 

Il 18 dicembre 1814, così racconta di sé la povera Giovanna Felice. Nella santa Comunione dalla suddetta afflittiva situazione, il mio Dio si degnò farmi passare in uno stato di pace, di dolcezza, di gaudio; si degnò sollevare il mio povero spirito in un grado di unione così perfetta, che credetti di restare estinta per l’esuberanza degli affetti, e per il gaudio che mi veniva somministrato dall’intima unione di Dio. Io più non mi distinguevo, ma tutta immersa, tutta da Dio ero contenuta, in guisa tale che era divenuta una stessa cosa la povera anima mia con il suo Dio. Non so spiegare di più.

 




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