Dall’otto dicembre fino all’undici il mio
spirito ha goduto una interna quiete, un intimo raccoglimento, una carità molto
bene ordinata, che mi faceva amare il bene e detestare il male.
Dall’undici fino al 17 il mio spirito è stato sopraffatto da dolore così
eccessivo di avere offeso Dio, che tratto tratto restavo, per l’eccessivo
dolore, come tramortita, per la chiara cognizione che Dio si degnava comunicarmi
di sé e di me.
Padre mio, oh che cosa brutta è mai il peccato! oh che cosa indegna è
l’offendere un Dio di infinita bontà!
A queste cognizioni mi volgevo verso la povera anima mia, rimproverandola, così
le dicevo, piena di orrore: «Anima mia, offendesti Dio e potesti? e come ne
avesti cuore! Offendesti un Dio di infinita bontà! Ah, creatura ingrata, dimmi
qual fu la cagione che tradisti Dio, forse ti mancò di soccorrerti nei tuoi
bisogni? Ah, ingratissima peccatrice, confessa a tua maggior confusione l’aiuto
speciale che ti prestò nel tempo che vergognosamente lo avevi tradito, e non
pensavi che a soddisfare la tua vanità, e scioccamente ti ponevi in gravi
pericoli. La sua infinita sapienza si impiegava tutta per trovare maniere
prodigiose, perché non conoscessi la malizia del peccato, donando al mio
intelletto una prodigiosa semplicità, e così non potevo conoscere la malizia
del peccato.
Oh, amor grande, oh amore infinito! Mio Dio, qual confusione è la mia! Ah,
potessi disfare quanto feci contro di te, mio sommo amore! Molto più volentieri
annienterei me stessa, che soffrire di vedermi ingrata al vostro amore», le
suddette espressioni erano accompagnate da abbondanti lacrime, che dalla grazia
di Dio mi venivano somministrate. Al riflesso di avere offeso un Dio di
infinita bontà, cresceva a dismisura la pena mia. Dal dolore credevo ogni
momento di morire, ma benché fosse molto gravosa la pena, l’ambascia del mio
cuore, ciò nonostante non avrei ceduto la suddetta pena per qualunque
consolazione di spirito, estasi o ratto, perché in questa pena trovavo ogni
contento; anzi mi compiacevo di essere dalla contrizione, dal dolore distrutta,
per dare una qualche soddisfazione all’amor tradito.
Il dì 18 dicembre 1814, così racconta di sé la povera Giovanna Felice.
Nella santa Comunione dalla suddetta afflittiva situazione, il mio Dio si degnò
farmi passare in uno stato di pace, di dolcezza, di gaudio; si degnò sollevare
il mio povero spirito in un grado di unione così perfetta, che credetti di
restare estinta per l’esuberanza degli affetti, e per il gaudio che mi veniva
somministrato dall’intima unione di Dio. Io più non mi distinguevo, ma tutta
immersa, tutta da Dio ero contenuta, in guisa tale che era divenuta una stessa
cosa la povera anima mia con il suo Dio. Non so spiegare di più.
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