Lo stesso giorno, 18 maggio 1815, dopo il
pranzo, nell’assistere alla novena della SS. Trinità, si tratteneva il mio
spirito in santi affetti verso l’augustissimo sacramento; si protestava di
voler star sempre con lui, e, piena di amore, offriva all’eterno Padre gli alti
meriti del buon Gesù, per mezzo del quale offriva tutta me stessa all’augusta
Trinità.
Tutto ad un tratto si sopì lo spirito e mi fu mostrata l’anima mia sotto la
forma di nobilissimo tempio, dove vedevo magnifico altare, adorno di preziosi
ornamenti, molto diversi dai nostri. Nel vedere tanta magnificenza, il mio
spirito fu sopraffatto dall’ammirazione. Non poteva comprendere la cagione di
tanta magnificenza. Terminata la novena, vidi apparire i santi patriarchi
Felice e Giovanni che, avvicinatisi all’altare, aprirono il sacro ciborio, e
presa nelle loro mani la sacra ostia, la posero in una sacra patena di oro
finissimo, pieni di rispetto e riverenza, servendosi delle stesse cerimonie della
Chiesa, la condussero nel tempio dell’anima mia, e la collocarono sopra il
magnifico altare, come già dissi.
A grazia così particolare il mio spirito restò per qualche momento
sopraffatto dallo stupore, estatica nel contemplare il grande amore del mio
caro Gesù, quando improvviso dardo si vide dalla sacra ostia scoppiare e venne
sollecito ad incendiare il mio cuore. L’amabile saetta mi fece morire e poi mi
ridonò la vita. L’anima mia, piena di affetto, rivolta ai santi Felice e Giovanni:
«Miei cari padri, deh, ditemi voi, dunque io più non vivo, ma vive in me Dio,
che vita mi dà!».
Seguìto questo fatto, i santi patriarchi, pieni di compiacenza per il
favore ottenutomi dalla divina Trinità, pieni di santo amore, unirono il povero
mio spirito al loro sublime spirito, e ambedue li offrirono all’augusta
Trinità. Restarono i sentimenti privi di umana forza e ogni idea sensibile
dell’anima sparì; il corpo restò immobile almeno per ben tre quarti, poi con
fatica e stento andai alla mia casa, e appena fui arrivata mi posi a sedere, e
come morta affatto, senza proferir parola, senza cambiarmi l’abito, come sono
solita.
Le figlie si affliggevano, vedendomi in quello stato di moribonda, pallida,
che dà l’ultimo fiato. Per grazia dell’Altissimo, potei dire a loro:
«Ritiratevi in camera, non vi prendete pena». A questo mio comando sovente si
partirono, e mi lasciarono sola.
Oh, come in un baleno fu affatto incenerito il mio spirito dal prodigioso
dardo! E per un’ora buona restai morta affatto. Quando tornai nei sensi, una
nuova vita mi parve respirare. Ebbra di amore santo, con umile sentimento,
piena di santo affetto, così presi a parlare: «Mio Dio, dimmi dove apprendesti
amore, e come senza merito tu mi potesti amare. Mio Dio, più non rammenti
l’enorme tradimento? Oh, prodigioso amore! io non ti comprendo!». La testa mi
vacilla, e il mio cuore, ripieno di nobile carità; la celeste fiamma fa prova
di scoppiar l’alma dal seno, una dirotta pioggia di lacrime scorrevano dagli
eclissati occhi, che appena distinguevano; un’attrazione di amore unita a santi
affetti mi tenevano sopita, senza poter riflettere. Intanto la bella fiamma ardeva
nel mio seno e si struggeva in lacrime il povero mio cuore. Che grazia è questa
mai, che non si può comprendere? Mio Dio, il tuo immenso amore fuori di te ti
trasse, non ti si può comprendere! Per beneficarmi, cosa facesti mai? Mi
mancano i termini, non posso più spiegare.
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