Il dì 21 agosto 1815 si tratteneva il mio
spirito in umili sentimenti, e tutto annientato in se stesso non poteva
comprendere come mai fosse possibile che un Dio immenso, eterno, infinito,
potesse trovare in me le sue compiacenze; mentre io mi riconoscevo tanto vile,
tanto miserabile. Ma da nuovo raggio di luce fu illuminato il mio intelletto, e
così potei conoscere quanto glorioso sia per il mio amorosissimo Signore l’avermi
cavato dall’abisso del nulla, e quanta compiacenza abbia il suo infinito amore
nell’avermi da questo nulla sottratto. Conobbi ancora come il genere umano
davanti al suo tremendissimo cospetto era come non fosse.
A questa cognizione molto bene circostanziata, ma per la mia insufficienza
non so manifestare, piena di ammirazione, diceva la povera anima mia: «Mio
amorosissimo Dio, e come mai vi siete degnato di trovarmi in questo nulla?
Conosco, o mio Dio, che per cavarmi dal nulla impiegaste la vostra infinita
potenza, sapienza e bontà infinita».
Intanto lo spirito si andava inoltrando in queste considerazioni, e si
stupiva in se stesso, e ardentemente amava l’amante Signore, che si compiaceva,
per mezzo di nuova illustrazione, di farmi intendere come è molto glorioso il
fine per cui mi ha dato l’essere; e, pieno di compiacenza, mi fece conoscere
quante grazie, quanti doni mi aveva compartito, per condurmi al fine glorioso
dei suoi disegni.
«Mira», mi disse il mio Signore, «mira quanto mai sono stato sempre
liberale con te!». Alle sue parole mi si schierarono alla mente tutte le
grazie, tutti i doni, tutte le virtù, in una parola tutte le misericordie
generali e particolari e soprannaturali che, dal mio nascere fino al giorno
presente, l’eterno Dio si degnò compartirmi. A cognizione tanto particolare, la
povera anima mia si stupì; e, sopraffatta dall’ammirazione di tanti favori,
lodava, amava, benediceva, ringraziava con particolare affetto il suo Signore.
Dalla considerazione di tanto bene, passai a riflettere alla mia cattiva
corrispondenza. Riconobbi la mia ingratitudine; in maniera particolare a questa
cognizione fui sopraffatta da dolore tanto eccessivo di avere offeso il mio
Dio, che la contrizione provò veramente a spezzarmi il cuore. Veramente il
sopravvivere a questa contrizione lo reputo un miracolo della grazia di Dio. La
violenza del dolore opprimeva il mio cuore, e dagli occhi tramandai un
profluvio di lacrime; ma le mie lacrime vennero interrotte dalla dolcissima
voce del mio Signore, che, secondo il solito, così mi parlò: «Non ti stupisca
la tua miseria, volgi il tuo sguardo e mira!».
Volgo lo sguardo e vedo nuovamente schierate alla mia mente tutte le opere
virtuose, che con la grazia di Dio ho esercitato dal primo uso di ragione fino
al momento presente. Mio Dio, qual confusione!
«Scrivi», soggiunse l’amante Signore, «scrivi i buoni effetti che ha
prodotto in te la mia grazia». A questo comando mi misi a piangere
dirottamente, e umilmente lo supplicai a dispensarmi l’obbedire. Allora si
degnò di farmi intendere che il manifestare i suoi favori e tacere le virtù
sarebbe lo stesso che descrivere la bellezza, la vaghezza di una pianta infruttuosa,
che rende inutili le fatiche del suo lavoratore. «Figlia», proseguì a dire il
mio Signore, «diletta figlia, perché vuoi occultare i frutti delle mie fatiche
e dei miei sudori? Scrivi liberamente, se mi vuoi compiacere, manifesta le mie
eterne misericordie».
In brevi parole accenno come ho passato i giorni 21 fino al giorno 26
agosto 1815. Il mio spirito se l’è passata quale figlia amante, riposando
dolcemente nelle braccia del celeste mio padre.
Oh, qual contento godeva il mio cuore! niente cercava, niente curava,
niente bramava, perché nelle sue braccia trovavo quanto mai possa bramarsi di
gaudio, di contento, unitamente ad una interna pace, tranquillità,
raccoglimento.
|