Il dì 10 ottobre 1815, nella santa
Comunione godetti un paradiso anticipato. Non so, non posso dir di più. La
dolcezza, il gaudio, l’esuberanza dei vivi affetti non si possono esprimere;
qual cognizione mi compartì Dio di se stesso non è spiegabile. Credo
sicuramente di aver goduto qualche parte di quella gioia, di quel gaudio che
godono i comprensori beati lassù nel cielo.
Santa obbedienza, tu mi costringi contro mia voglia a dire di più. Dopo
aver goduto un paradiso anticipato, come già dissi, il gaudio straordinario che
godeva l’anima mia, mi veniva partecipato dalla particolare cognizione che Dio
mi donò di se stesso, e di qual valore sia il possedere il suo santo, divino
amore. L’anima, dunque, vedendosi in quel felice momento ricolma di questo
sommo bene, infinitamente lodava, ringraziava, amava ardentissimamente il suo
Signore.
Questo era il motivo di tanto gaudio, che al mio scarso talento mi pareva
godere un paradiso anticipato. Ma come no! se vostra paternità reverendissima
m’insegna benissimo che il gaudio che godono i felici comprensori del paradiso
viene originato in loro da questa cognizione, di conoscere Dio per quello che
egli è, e di possederlo con sicurezza per tutta l’interminabile eternità?
Dopo che la povera anima mia si era in Dio tanto consolata e rallegrata,
che per l’esuberanza del gaudio era fuori di se stessa, dopo aver goduto tutto
questo grandissimo bene, si raccoglieva tutta in se stessa, e sciolta e libera
da tutte le cose esterne, richiamato il mio cuore dal silenzio tranquillo di
quel bene che godeva, radunate tutte le sue forze e virtù, piangendo,
trascorreva, girava l’ampia e vasta solitudine di un immenso dolore; tutta
affannosa e dolente diceva alla rimembranza della mia ingratitudine:
«Offendesti Dio, e potesti? Dove mai cadesti di miseria e di calamità!».
E traevo dal petto mestissimi sospiri e lamenti amarissimi, con lacrime
abbondantissime; cercavo con i forti sospiri di penetrare i cieli, per
dimostrare così alle schiere angeliche la mia pena. «Ohimè», dicevo tra i
singhiozzi e i gemiti, il cuore angustiato tramandava dagli occhi un profluvio
di amarissime lacrime, «ed è possibile, ohimé, che io sia caduta in tanta
miseria? Oh, giorni infelicissimi; oh, ore miserande della mia ingratitudine! è certo che per l’avvenire sarà mio
dovere morire affatto a me stessa; e quanto io possa, patire di qua, tutto è
poco, tutto è meno alla colpa mia. Anzi questa è la croce di tutte le croci;
questo è l’inferno di tutti gli inferni: l’avere offeso il mio buon Dio! Ohimè,
o me misera, che tanto benignamente fui da voi prevenuta, e tanto dolcemente
avvertita e con tanta familiarità trattata, eppure ho disprezzato tutte queste
grazie, e le ho poste in oblio! Oh morte, oh durezza del cuore umano, che può
fare simili errori! O mio cuore di sasso e di diamante, perché non scoppi e non
ti spezzi per il dolore? Oh anime innocenti e pure, che illibate sapeste
mantenere a Dio la fedeltà, felicissima, beatissima fu la vostra sorte!
Io non so se mai intendeste appieno qual sia il tormento di un cuore
aggravato dai peccati. Oh me dolente e sconsolata, quante delizie avevo e
quanto stavo bene con voi, o Gesù mio, o sposo mio amorosissimo, quanto stavo
bene nell’età della mia puerizia, racchiusa in quel sacro chiostro, che non
pensavo ad altro che a piacere a voi, e voi con grazie molto distinte, vi
degniavate di favorire la povera anima mia, chiamandola vostra carissima sposa.
Oh quanto lieto e quanto tranquillo era il mio cuore! Eppure allora non
conoscevo il mio buon essere; benché fossi innocente, credevo di essere la
creatura più maliziosa, più cattiva che abitasse la terra.
Oh, chi mi darà un profluvio di pianto, per deplorare le mie colpe? Chi mi darà
parole tanto efficaci, per spiegare i dolori dell’afflitto mio cuore, per i
danni irreparabili nei quali sono incorsa, per aver abbandonato, peccando, il
mio amorosissimo sposo? Ohimé, perché venni a questa luce? E ora che mi resta
altro da fare, se non morire di dolore per aver offeso il mio sommo amore?
Andava in mezzo a queste espressioni tanto crescendo il dolore e la pena,
che Dio si mosse a compassione di me: con le braccia aperte mi si fece vedere
la sua misericordia, qual madre pietosa, che frettolosa va in soccorso del suo
amato figlio, e strettamente lo abbraccia, e lo stringe al casto suo seno, e lo
bacia dolcemente, in simil guisa il pietoso Dio si compiacque di asciugare le
mie lacrime e di consolare l’afflitto mio cuore, col farmi provare una dolcezza
di spirito tanto particolare, che non è veramente spiegabile. Quello che posso
dire è che dal giorno 8 ottobre 1815, che mi seguì il suddetto fatto, fino al
12 del mese suddetto sempre godei di questo bene.
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