Il dì 20 gennaio 1816 così la povera
Giovanna Felice: dal 20 gennaio fino al primo di febbraio 1816, Dio mi fece
provare una pena di spirito quanto mai grande ed afflittiva, ma io non so
spiegare. Era questa pena come un esilio penosissimo; mi vedevo allontanata da
Dio, era l’anima sopraffatta dalla propria cognizione, e annientata e avvilita,
umiliata fino al profondo abisso del proprio nulla, odiosa mi rendevo a me
stessa per la mia cattiveria; mi pareva che la terra mi si aprisse sotto i
piedi per ingoiarmi, dubitavo ogni momento che l’aria mi negasse il poter
respirare, mi pareva che i demoni mi precipitassero ogni momento nell’inferno.
Che pena! che afflizione! che desolazione! che aridità di spirito! Ma la
pena si faceva maggiore per la particolare intelligenza che Dio si degnava
darle delle sue divine perfezioni.
A queste cognizioni l’anima sentiva un amore grandissimo verso Dio, che mi
necessitava ad amarlo, ma la propria cognizione non mi permetteva che lo
spirito liberamente potesse slanciarsi verso l’amorosissimo Dio; perché se ne
riconosceva indegna. Avrebbe voluto per mezzo di ogni qualunque pena
purificarsi, per così potersi a lui avvicinare; questa pena mi ridusse quasi ad
agonizzare, il dolore di avere offeso Dio lacerava il mio cuore, e tramandar mi
fece dagli occhi un profluvio di lacrime. Ogni giorno si faceva maggiore la
pena mia, andava crescendo a dismisura, proseguendo in questo penoso stato dal
giorno 20 gennaio 1816 fino al primo di febbraio, come si è detto di sopra,
così si andava purificando la povera anima mia, macerandosi nel pianto e
nell’afflizione, contenta di patire per amore, mentre non avrei cambiato il mio
patire con tutto il bene del mondo.
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