Il dì 27 giugno 1817 la mattina dopo la
consueta orazione subito levata, mi ero data a sistemare gli affari della casa,
quando ad un tratto fui sopraffatta dalla grazia del Signore, che mi rapì lo
spirito e alienata dai sensi, mi resi affatto incapace di agire, priva di ogni
sensazione, caddi in deliquio mortale, pallido e freddo se ne restò per molte
ore il mio corpo.
In questo tempo il mio spirito si trovò in un luogo immenso, che io non so
descrivere, in questo luogo mi fu dato a vedere l’anima mia. La vedevo dunque
sotto la sembianza di bellissima donzella, semplice, pura, leggiadra,
piacevole, avvenente, dotata di scienza celeste. Questa se ne stava seduta in
un’isola deserta, lungi dai rumori del mondo, ebbria di santo amore, vicina al
vasto oceano se ne stava. Questo oceano vastissimo denotava l’infinito amore di
Dio, la vaghissima donzella si mostrava perduta amante del vasto oceano, e
l’oceano si dimostrava tutto per lei propenso. A questa cognizione la donzella,
ebbria di santo amore, scioglieva la voce al canto, suonando un celeste
strumento nel vasto oceano la sua voce faceva risuonare.
Oh quali affetti intanto crescevano nel mio cuore, che dettati mi venivano
dal celestiale amore! Mostravo al mio diletto l’ardente fiamma che mi
incendiava il petto, che tutto mi consuma il cuore, il grande amore non poteva
più contenere, con interrotti accenti mostravo al mio diletto l’affetto del mio
cuore: «Oh dolce amore consumami, non aver di me pietà, annientami,
annichiliamo, così resterà soddisfatto in qualche parte il povero mio amore».
Così dicendo tornò Dio a favorirmi, unendomi a sé, in una maniera molto
mirabile, fu tanto grande l’impressione che mi restò nel cuore di questa santa
unione, che per cinque giorni perdetti ogni idea sensibile, quel poco che
operavo si faceva da me per abito, senza comprendere le proprie operazioni.
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