In questo stato di cose, fui sopraffatta
da un male mortale, che mi privò affatto dei sensi; stetti sempre combattendo
dal giorno 18 gennaio 1821 fino al giorno 25 febbraio del medesimo anno. Sicché
17 giorni stetti sempre combattendo e soffrendo i più spietati tormenti.
I professori medici mi avevano spedita affatto, mentre la mia vita, per i
gravi patimenti, era ridotta agli ultimi estremi. Per otto giorni continui non
potei prendere cibo di sorta alcuna, neppure una stilla d’acqua, nonostante che
fosse così abbattuto e derelitto il mio corpo, si vedeva dalle persone
assistenti che il mio corpo tutte le ore era così malmenato e strapazzato che
muoveva, a chi lo vedeva, grandissima compassione. Permetteva Dio, per
accrescimento dei miei patimenti, di non riconoscere neppure il mio padre
spirituale, che ad ogni istante si trovava presente, per darmi, con
l’autorevole suo comando qualche conforto, mentre era ben noto al suddetto mio
padre, la causa di questo mio grave patimento. Non mancò il lodato padre di
aiutarmi in questo tempo con le preghiere e ferventi orazioni e comandi
precettivi allo spirito delle tenebre, giacché io ero incapace di conoscere la
sua voce, mentre per i gravi patimenti avevo perduto l’umana sensazione. Non
mancò il suddetto mio padre di avvisare il medico curante che non avesse
adoperato l’umana medicina, mentre ad altro non servirebbe che per aggravare il
mio patimento.
A questo avviso il prudente dottore non mise in pratica che quei rimedi che
credette opportuno, per sollevare in qualche maniera la mia umanità.
Non sto qui a dire quello che in questi giorni seguì nella mia casa, che per
essere tutta circondata dai maligni spiriti, questi altro non facevano che
mettere in somma confusione tutti i miei parenti, che erano tutti accorsi, per
riparare alla mia grave malattia. Tra questi nasceva molta disparità di pareri,
e così facevano una grande confusione. E questo tutto era per istigazione dei
maligni spiriti. Io chiaramente distinguevo la causa della loro confusione, ma
non la potevo riparare, servendomi questo ancora di sommo patimento.
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