Il giorno 21 aprile 1821, giorno della
Risurrezione del Signore, stando in orazioni, tutto ad un tratto mi parve di
trovarmi con lo spirito in un delizioso ed ameno giardino. Era il mio spirito
tutto raccolto in Dio, contemplando la bellezza e l’amenità dei preziosi fiori
di quell’amenissimo soggiorno, che tutto spirava odore di santa soavità. Tutto
quello che vedevo mi rammentava l’amor grande che mi porta il mio Dio. Queste
cognizioni mi umiliavano profondamente e mi facevano riconoscere per la
creatura più vile della terra.
Restavo stupefatta, considerando l’infinita bontà di Dio, nel vedermi tanto
beneficata dopo averlo tanto offeso ed oltraggiato, riconoscendomi affatto
immeritevole di ogni bene, prorompevo in lacrime di eccessivo dolore,
ricordandomi di averlo offeso, mi umiliavo fino al profondo del proprio mio
nulla. Lodavo e benedicevo l’infinita misericordia del mio amorosissimo Dio, e
sopraffatta da veemente amore lo pregavo incessantemente a prendere sopra di me
qualunque soddisfazione, purché degnato si fosse di perdonarmi tutti i miei
peccati, e mi avesse permesso di poterlo incessantemente amare.
Questo santo desiderio si accrebbe nel mio spirito in guisa tale che mi
faceva languire d’amore. Dopo di essermi trattenuta per qualche tempo in questo
amoroso languore, che mi alienò dai sensi, mi parve di trovarmi con lo spirito
sopra un altissimo monte, dove vedevo una croce ben grande, già piantata e
stabilita sopra del suddetto monte.
A questa vista la povera anima mia si riempì di timore, perché conosceva
che quella croce a me apparteneva. Ciò nonostante, genuflessa avanti a questa
croce, adoravo le divine disposizioni di Dio e lo pregavo di darmi la grazia di
adempire la sua santissima volontà.
Fatta la preghiera, mi parve di vedere l’amabilissimo mio Gesù con la sua
santissima Madre, i quali, pieni di piacevolezza e amore, a me si avvicinarono,
facendomi coraggio a patire per amore e per onore dell’eterno divin Padre.
Gesù Cristo mi fece intendere che di nuovo mi fossi offerta, qual vittima
d’amore, a patire in unione dei suoi patimenti. Si degnò l’amorosissimo Signore
di confortarmi e consolarmi con le più dolci ed amabili sue parole: «Figlia», mi
disse, «confida pure negli eccessi
incomprensibili della mia infinita misericordia. Fatti coraggio di patire per
amor mio. Io sarò sempre con te, per aiutarti e per renderti vittoriosa di
te stessa. Io ti lascio la mia cara Madre per tuo conforto. Figlia, il mio
amore è quello che ti crocifiggerà sopra questa croce. Io sarò il sacerdote e
tu la vittima. L’amor mio ti pone in questa situazione, affinché tutti
conoscano ed ammirino l’eccesso incomprensibile della mia carità verso di te, da me praticata, e perché molte anime
imparino ad amarmi con semplicità di spirito, con purità di mente, con
retta intenzione di solo a me piacere, e che
l’amor mio le guidi all’adempimento perfetto della mia volontà. Felici saranno
quelle anime che seguiranno i tuoi esempi, e in spirito e verità si daranno
alla tua sequela, e non altro cercheranno che l’amor mio, il mio onore, la mia
gloria. Oh come da queste anime mi farò trovare prodigo delle mie grazie e dei
miei favori!».
Con queste, ed altre simili espressioni di carità, andava il benedetto
Signore confortando la povera anima mia, e con interne illustrazioni le dava a
conoscere la nobiltà di questo patire. Mi dava a conoscere ancora quanto grato
gli fosse il povero mio sacrificio, per mezzo del quale si sarebbe degnato di
far grazie a tutti quelli che con fiducia per mio mezzo alla sua infinita
misericordia ricorressero.
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