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Beata Elisabetta Canori Mora Diario IntraText CT - Lettura del testo |
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1. Placai lo sdegno di Dio
Con queste ed altre simili parole terminavo la mia preghiera. Sopraffatta dalla fiducia negli infiniti meriti di Gesù Cristo, con santo ardire mi approssimavo a Dio, e ritenni il colpo già vibrato dalla mano onnipotente di Dio. Sospeso che ebbi il funesto colpo, mi prostrai ai suoi santissimi piedi. «Eccomi», gli dissi, «o mio Dio, Padre del mio Signore Gesù Cristo, eccomi prostrata avanti a voi, disponete di me come più vi aggrada, prendete sopra di me qualunque soddisfazione, ma placate il vostro giustissimo sdegno. Non castigate, non condannate questi uomini miserabili all’eterna morte, ma usategli misericordia. Vi prego di ricordarvi la preghiera che vi fece il vostro santissimo figliolo sopra la croce, che vi disse: Padre, perdona questi miserabili, che non sanno quello che fanno. Anche io, da miserabile peccatrice come sono, unita agli infiniti meriti di Gesù Cristo, vi dico: Pater dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt». Con questi ed altri termini ed amorose espressioni placai lo sdegno di Dio, che si degnò sospendere un colpo così fatale e lacrimevole, mentre questo castigo che aveva vibrato Dio nel mondo, per molti abitanti di esso, non sarebbe stato solo temporale, ma sarebbe stato eterno. Motivo per cui il povero mio spirito ne ebbe tanta compassione, che in quel momento, per impedirlo, mi sarei fatta straziare dai più crudeli tormenti, senza più avere alcun riguardo di me stessa né al mio proprio interesse spirituale, per riparare il danno eterno di tante povere anime, che a migliaia sarebbero piombate all’inferno. Quando tornai nei propri sensi, ricordai che il mio padre spirituale mi aveva comandato di non fare più offerte di patire senza il suo permesso. Mi trovai molto afflitta, dubitando di aver mancato alla santa obbedienza. Mi portai subito dal lodato mio padre spirituale, e piangendo gli feci il suddetto racconto, e gli dissi che in quel momento non ricordai l’obbedienza che mi aveva imposto, mentre il mio spirito era restato tanto sopraffatto dalla carità, e per non vedere tante anime eternamente perdute, io mi ero offerta di patire, per placare la divina giustizia, unendo la mia povera offerta a quella che fece Gesù Cristo Signore nostro sopra l’albero della croce. A suo esempio il mio spirito è stato portato dalla sua carità a farmi fare questo sacrificio. In quel funestissimo mornento non potei fare a meno di offrirmi, perciò le domando perdono, scusa se non l’ho obbedito. «Figlia», mi rispose il suddetto padre, «non vi affliggete per questo, Dio come padrone vi ha fatto una sorpresa. State quieta che non avete disobbedito, perché conosco bene che vi deve essere in quel momento mancato il tempo alla riflessione. Dio vede il mio cuore, sa perché vi ho fatto questo comando. Io altro non desidero che voi facciate in tutto e per tutto la sua santissima volontà. Questi sono i miei sentimenti, state quieta e contenta». Le sue parole molto mi consolarono e restò quieto e contento il mio spirito, ma la povera mia umanità di questa offerta ne sentiva tutto il peso, tutto l’aggravio, rappresentandomisi alla mente gli acerbi patimenti sofferti nelle altre due forti sanguinose battaglie, già sostenute con la potestà delle tenebre, e i molteplici supplizi che mi avevano fatto patire con tanta crudeltà e strazio, che mi credevo certamente di finire la vita.
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