4. Così per nove giorni, poi…
Si trattenne la povera anima mia in questo
felice soggiorno nove giornate, godendo un bene tutto spirituale e santo,
benché dell’amenità di questo bellissimo luogo io non ne godevo che i soli
buoni effetti, per essere stata da Dio bendata nell’intelletto, perciò mi
mancava la vista e la cognizione di vedere e speculare l’amenità di questo
amenissimo luogo, ma questo non privava l’anima mia di goderne in se stessa i
buoni effetti di un puro e santo amore, tutta mi struggevo in santi affetti
verso l’amoroso mio Signore, riconoscendomi indegnissima di questi eccelsi
favori, passati i suddetti nove giorni, essendo il giorno 26 gennaio 1822.
Mancarono alla povera anima i buoni effetti che fino ad allora aveva goduto, e
fui sopraffatta da una penosissima desolazione di spirito, il mio intelletto fu
oscurato da tenebre densissime, che più non sapevo dove fossi, né dove mi
trovassi; mi pareva di aver perduto il mio Dio, piangevo, mi affliggevo, facevo
al mio Dio umile ricorso, ma questo non bastava, perché non si faceva da me
ritrovare, andava ogni giorno più crescendo a dismisura la mia pena,
aggiungendosi a questa pena un grande timore di perdere il mio Dio, e perderlo
per sempre. Questo timore era la mia pena maggiore, che mi portava quasi ad
agonizzare, e rendeva l’anima all’ultima desolazione. In questo stato di grave
afflizione, si giungeva un altro timore, mi pareva che il demonio mi avesse
tramato una forte insidia, per la quale dubitavo di essere vittima di questo
nemico con l’acconsentire alle sue perverse suggestioni, in questa maniera mi
andavo struggendo e consumandomi nell’afflizione, dubitando ogni momento di
fare qualche grave offesa al mio Dio, in questo stato di cose altro non facevo
che ricorrere umilmente a Dio, trattenendomi lungamente in orazioni, sebbene
queste orazioni erano ripiene di affanni e di amarezze; perché, se mi
trattenevo a considerare l’infinita bontà di Dio, vieppiù mi affliggevo al
riflesso della mia grande ingratitudine; se meditavo la passione di Gesù
Cristo, questa mi rimproverava la mia cattiva corrispondenza, sicché mi pareva
sempre di essere perseguitata giustamente dalla divina giustizia.
Oltre a ciò altri affanni e pene che mi facevano propriamente agonizzare,
si aggiungeva a queste pene un grandissimo desiderio di possedere Dio e
possederlo per sempre. Io lo speravo negli infiniti meriti di Gesù Cristo, ma
dicevo a me stessa: «Anima mia, e chi ti assicura di corrispondere alla grazia,
senza la quale corrispondenza non puoi certamente salvarti? Osserva quanto già
ne abusasti, a quante grazie tu non hai corrisposto! Epotrà Dio più soffrire
tanto eccesso di tua ingratitudine? Sarà obbligato di certo a condannarti
all’inferno per tutta l’eternità».
A tutti questi riflessi, qual funesto quadro mi si presentava alla mente,
non è spiegabile, tutte le ingratitudini usate verso il mio Dio facevano prova
di levarmi la vita. Per l’eccessivo dolore piangevo dirottamente le mie
ingratitudini, le detestavo di vero cuore e con proposito fermo e stabile
promettevo di non dare a Dio mai più il minimo disgusto; ma tutto questo non
giovava a rendere contento il mio cuore, mesto e dolente, che, sopraffatto da
una profonda mestizia, dubitava ogni momento di fare qualche grave offesa a
Dio.
Esaminavo rigorosamente la mia coscienza, e non trovavo alcuna cosa che mi
gravava, mentre dei peccati, dopo averli confessati nella sacramentale
confessione, trovavo di averli sempre pianti e detestati di vero cuore con vero
proposito di morire mille volte, che tornare ad offendere Dio; cercavo ancora
quali fossero i miei desideri, e trovavo che non sono che di piacere al mio Dio
e di adempire, in tutti i momenti della mia vita, la sua santissima volontà,
vivendo tutta abbandonata al suo divino beneplacito, questi erano nelle mie
orazioni i sentimenti più frequenti e venivano da me ratificati nella giomata
con molta frequenza.
Eppure, chi lo crederebbe? il mio povero spirito non ne trovava alcun
sollievo, trovava solo pene, afflizioni, travagli e angustie.
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