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Beata Elisabetta Canori Mora Diario IntraText CT - Lettura del testo |
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11. Il timore di perdere il mio Dio
In questo stato di affanni e pene passai dodici giornate, vale a dire dal giorno 7 marzo fino al giorno 19, festa del santo patriarca, nel qual giorno mi trovai con indicibile contento tragittata all’altra sponda di quel funestissimo e pericolosissimo lago. E così mi trovai fuori da questo pericolo, per la quale grazia resi infiniti ringraziamenti al Signore e al mio grande protettore san Giuseppe.Ma non cessarono per questo le pene mie e le mie gravi afflizioni, perché mi trovai sola, raminga, in una solitaria campagna senza veruno che mi additasse il giusto sentiero di quella.Piangevo, pregavo il mio Dio di non abbandonarmi in questa mesta solitudine. «Degnatevi», gli dicevo, «mio amorosissimo Dio, di aver pietà di me, misera peccatrice; mostratemi la strada che mi conduce a voi, io sono del tutto smarrita in questa vostra campagna; mio sommo bene, mio sommo amore, voi lo vedete! Voi lo sapete che io non amo altro che voi, mio Dio. Io vi cerco con tanta ansietà e non vi trovo. Eppur io vi sento in me, nel tempo stesso in cui non vi vedo il cuor mio pur vi possiede, mi pare certo che voi siete con me.Ma questa cognizione era nel mio spirito molto occulta, era momentanea e non durevole, mentre appena l’anima andava per rallegrarsi di stare unita con il suo Dio, più non lo trovava, né lo sentivo in me. In questo tempo mi sentivo proprio struggere d’amore verso di lui, che ben spesso il mio spirito era sopraffatto da un deliquio di santo amore, che mi alienava dai propri sensi, per la passione amorosa e dolorosa insieme, perché ad ogni istante temevo di perdere il mio Dio. Questo è un martirio dell’anima tanto afflittivo che non ci sono termini sufficienti di poterlo spiegare. Nobile è per se stesso questo patire, ma tanto afflittivo che non si può spiegare. L’anima per questo perde ogni impressione sensibile ed umana, perde ogni gusto, ogni sollievo sensibile, ogni premura, ogni umana cura, ma tutto le si rende insipido e senza gusto, tutte le cose del mondo più non conosce, e che più per questa anima mia più non vi fossero, vivendo dimentica affatto di tutto il sensibile, solo le sue premure tutte sono di rintracciare l’amato suo Dio, pensa solo di andare appresso al suo Signore, qual perduto amante. Mi trattenevo dunque in questa vasta ed amena campagna, ma la sua amenità io non curavo, solo il mio Dio io ricercavo, in questo solo, tutto occupato era il mio cuore, ma il peggio era che in questo soggiorno, ora si faceva notte ed ora giorno; di tratto in tratto era sopraffatto il mio intelletto da folte tenebre e, per conseguenza, perdevo affatto la vista e l’intelligenza di ogni cosa e mi trovavo del tutto smarrita. In questo stato di cose ricorrevo alla fervida preghiera, tramandando dal cuore infuocati sospiri, i quali tutti li inviavo per rintracciare il sommo mio bene, servendomi ancora delle strofe dei salmi del divino ufficio, per così dimostrare a Dio la mia ambascia e la mia grave afflizione. Gemevo, languivo in mezzo a tanta pena, senza però la minima perturbazione, ma cara e grata mi era questa mia pena che non l’avrei cambiata con tutto l’oro del mondo, e né con tutte le sue false consolazioni.
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