Passati i suddetti tre giorni all’anima
mia le fu comunicato un particolar lume di propria cognizione e di basso
concetto di se stessa, unito ad una contrizione dei propri peccati, caricandomi
ancora dei peccati altrui, forse commessi per colpa mia; trovandomi in questa
dolorosa situazione, altro non facevo che piangere amaramente chiedendo perdono
al mio Dio, che conoscevo di averlo tanto offeso e oltraggiato. Ammirando
l’infinita sua bontà, che si fosse degnato di non precipitarmi all’inferno,
come meritano le gravi mie colpe, ma quello che più mi affliggeva e rendeva
implacabile il mio dolore era nell’osservare d’essere tanto beneficata dal
Signore. Dopo tanta enorme gratitudine, i benefici di Dio, le sue misericordie
queste erano quelle che facevano maggiore il dolore mio, queste sì che mi
affliggevano e mi contristavano a un segno tale, che mi pareva che non vi fosse
creatura più vile di me, peggiore di me, e che la mia ingratitudine fosse
peggiore assai di tutti i demoni dell’inferno.
Lascio immaginare a vostra paternità reverendissima a quale eccesso arrivò
il mio dolore; questa angustia, questa pena, può chiamarsi un cumulo evidente
di pene, che non possono manifestarsi, questa pena però non toglieva all’anima
mia la santa fiducia in Dio, solo riempiva di amarezza il mio cuore e così mi
struggeva la contrizione, mi confondevo, mi umiliavo, odiavo me stessa, per
vedermi tanto ingrata al mio amato Creatore e Redentore. In questa dolorosa
situazione si trattenne il mio spirito per lo spazio di tre giorni.
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