68 – IL PURGATORIO SI SPOPOLÒ
Prendo a raccontare il fatto, lasciando
per un momento il mio spirito in quella situazione poc’anzi detta, mentre
questo fatto che sono per raccontare seguì immediatamente dopo il surriferito
favore.
Quasi come a Dio non bastasse la dimostrazione della sua grande carità
verso la povera anima mia, gliene volle dare un’altra prova, per sempre più
confonderla ed umiliarla.
Ecco che in mezzo a quella luce inaccessibile vedo un masso d’oro e
d’argento, quanto mai bello, tutto lavorato con intagli e lavori finissimi,
conoscevo benissimo esser questa opera del divino artefice; una cosa così bella
che io non so descrivere, il mio spirito restò estatico e pieno di stupore nel
vedere cosa così sorprendente e bella.
Questo bellissimo masso d’oro e d’argento finissimo e lucidissimo, era
ancora intarsiato di pietre preziosissime, questo masso d’oro era fatto a forma
di altare triangolare, ma non so se altare possa denominarsi, non so spiegarmi
altrimenti, non so dire di più. Questo non aveva alcun ornamento né di fiori,
né di candelieri, ciò nonostante era in tutto così maestoso e bello che non si
può spiegare, rendeva devozione, rispetto, venerazione e stima.
Nel tempo che il mio spirito stava tutto ossequioso, umiliandosi
profondamente avanti al suo Dio, ecco, in questo tempo, tre principi della
corte celeste, con tre incensieri, che vennero ad incensare con profondo
rispetto quel sacro altare.
Il loro incenso tramandò tanto odore soave, che l’anima mia, dalla grande
fragranza del celestiale odore, mancò e cadde in amoroso deliquio. Mi sentivo
in questo tempo stemperare il cuore di puro e santo amore, mi rivolgevo verso
il mio Dio, e con dolci espressioni gli mostravo il mio amore.
Quando rinvenni da questo amoroso e santo deliquio, senza avvedermene senza
mia volontà, sopra quell’altare mi trovai, tutta circondata da quel fumo di
incenso di soavità ripieno. La povera anima mia, in mezzo a questa
magnificenza, sentiva viepiù accrescere in me stessa il lume di propria
cognizione, sicché mi umiliavo viepiù, e dolcemente mi lamentavo, con l’amato
mio bene, che tanta confusione mi facesse provare col tanto innalzarmi senza
alcun merito, quasi come se ne trovasse offesa.
A questi sentimenti dell’anima, Dio corrispondeva con somma compiacenza, e la
tirava a sé con tanta forza e violenza, questo seguiva per mezzo di una luce
inaccessibile e tanto penetrante che ad un tratto tutta mi assorbiva e
intimamente a sé mi univa, e così veniva l’anima mia a perdersi in Dio,
perdendo la sua proprietà.
Terminata questa divina unione tornai alquanto in me stessa, senza perdere
il grande bene che godevo ancora nell’anima; in quel momento ricordai che si
dava principio in quella santa giornata all’ottavario dei fedeli defunti, mi
rivolsi con somma premura ed impegno verso il mio Dio e lo pregai con fervente
preghiera e con calde lacrime ad usare misericordia con le anime defunte. «Mio
Dio», gli dissi, «degnatevi di darmi la chiave di quell’orrido carcere, come
altre volte vi siete degnato darmi, perché io sento un desiderio grande di
scarcerare dal purgatorio quelle anime sante, vi supplico di questa grazia per
gli infiniti meriti della vostra passione e morte».
Questa offerta bastò per ottenere la grazia, per essere di valore infinito.
All’istante il mio Dio, per sua infinita bontà, si degnò concedermi quanto
bramavo, mi fece arbitra delle sue misericordie; ma l’anima, in luogo di
approfittarsi liberamente della grazia, domandava al suo Dio, con umile
sentimento, cosa doveva fare, e non ardiva neppure alzare gli occhi della
mente, ma mi trattenevo genuflessa avanti al suo divino cospetto, trovandami
ancora sopra del detto altare, il quale altare, se non erro, mi pare che sia
denotato il dono dell’orazione.
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