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Beata Elisabetta Canori Mora
Diario

IntraText CT - Lettura del testo

  • PARTE TERZA – ALLA MAGGIOR GLORIA DI DIO (Dal 1820 al 1824)
    • 72 – CONGIUNTA CON L’ETERNO BENE
      • 8. Ferisci tu il mio cuore
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8. Ferisci tu il mio cuore

 

La mattina, dunque, del 2 luglio, dopo la santa Comunione, si raccolse tutto in Dio il mio spirito, nel tempo che stava così raccolto era tutto occupato a considerare se stesso, il suo niente, il suo nulla, la sua cattività, la sua profonda malizia nell’avere tanto offeso il suo Dio, si umiliava profondamente avanti la sua divina maestà, piangevo amaramente le mie gravi colpe, quando, tutto ad un tratto, fu rapita da Dio l’anima mia e sollevata in modo molto particolare, che non so spiegarlo.

In questo tempo, mi si fece vedere il mio Dio, tutto raggiante di eterna luce, il quale teneva nelle sue santissime mani come un pugnale, mi servo di questo basso termine, per non sapermi altrimenti spiegare, ma cosa più bella io non vidi giammai, né posso ad alcuna cosa sensibile paragonare, dunque dirò, col nobile pugnale Dio l’anima mia ferì: oh dolce ferita, che di santo amore il mio cuore riempì! la nobile ferita, di santo languore; nelle braccia del suo Signore l’anima semiviva se ne restò, perché il colpo amabile trapassò il mio cuore, dal dolore dei peccati e dal divino amore io mi sentivo morire.

L’anima, rivolta a Dio, così prese a parlare: «Amato mio soccorrimi, deh non mi abbandonare, il nobile tuo pugnale il cuore mi trapassò; mio Dio, come farò? E se tu mi hai ferita sanami ancora tu».

 

Così intesi rispondermi: «Sì, mia cara amica, la nobile ferita io ti risanerò, deh prendi nelle tue mani, il misterioso segnale, sorella mia carissima, ferisci tu il mio cuore».

L’anima ritrosa, ricusa di ciò fare, le mancano gli accenti di potersi con il suo Dio spiegare, il santo timore ingombrava il mio cuore e mi impediva di obbedire; così nuovamente intesi parlare: «Deh, non ti arresti il colpo il santo timore, perché il divino mio amore questo esige da te; deh non mi privare, diletta mia sposa, di questo piacere, ferisci suvvia, l’amante mio cuore».

A queste parole, una forza imponente mi prese la mano e mi obbligò a ferire l’amante cuore del mio Signore. Mandato il colpo, oh colpo fatale, di santo orrore il mio spirito si ricolmò, fra me dicevo, tremante e confusa: «Oh santo ardire, cosa mi facesti fare? ferire un Dio di eterna maestà! questo è un delitto di lesa maestà. Oh Dio, il mio confessore cosa mi dirà, di certo mi griderà, io non ho il coraggio di manifestargli questo fatto, che al solo pensarlo mi sento morire», piangendo dirottamente, dicevo: «Mio Dio, ditemi voi quello che devo fare».

Così mi intesi rispondere: «Dirai al tuo direttore che il tuo Creatore a questo ti obbligò; digli che un uomo Dio ferito fu da te, digli che il dolce strale ti fu dato da me, che tu feristi, oh cara, l’ampiezza del cuore mio, che tu feristi un Dio di eterna maestà! E questo lo volli io, in segno del tuo amore. Con quanta compiacenza io ricevetti il colpo, che mi fu dato da te, sposa carissima, a te mi unisco con perfetta unione e divina congiunzione, per non separarmi mai più da te! Ricevi gli sponsali amplessi, che sono i prodotti del mio parziale amore».

In mezzo a queste e ad altre sante espressioni, Dio, con quel medesimo pugnale, tornò l’anima a ferire. Mi mancano i termini e le espressioni di potermi spiegare, per poter ridire i santi affetti di questi due cuori feriti; ognuno lo può intendere a seconda dei lumi che gli comparte il Signore, ma spiegarlo al certo non si può; lascio dunque a vostra paternità reverendissima l’intendere quanto rozzamente ho detto; come ancora, per quiete del mio spirito, soggetto tutto al savio suo consiglio, per timore di non essere ingannata dal demonio. La prego di esaminare con tutto il rigore i miei scritti, e dirmi con santa libertà se sono ingannata dal demonio.

 




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