Assicurata della grazia dal buon padre
gesuita, restai quieta e contenta. Credetti bene di obbedire il buon Vescovo,
proseguii ad andare da quel confessore che mi aveva lasciato. Il suddetto mi
servì di molto esercizio di pazienza e di somma sofferenza; quando gli rendevo
conto del mio spirito ne formava le più alte meraviglie, e senza proferir
parola su quanto gli avevo detto, mi dava la benedizione, e mi diceva: «Vi
aspetto un altro giorno». In altre occasioni mi diceva: «Non voglio che le mie
penitenti sollevino nelle orazioni le loro menti a Dio. Ho piacere che
camminino terra terra, perciò vi comando che nelle orazioni altro non meditate
che la morte, il giudizio, l’inferno, e non andate tanto sollevando lo
spirito».
L’obbedire mi fu di molta pena, perché non era in mio potere fare ciò. Il
Signore, il più delle volte, furtivamente mi rapiva lo spirito, per parte di un
tocco interno. Ero sollevata a contemplare le divine perfezioni. A queste
cognizioni intellettuali si accendeva la volontà di amore ardente, che mi
traeva fuori di me stessa, non ero capace di altro che andare appresso al mio
Signore, che fortemente mi tirava. Terminata la divina illustrazione, mi
ricordavo di quanto il confessore mi aveva comandato. Tutta mortificata mi
volgevo al Signore, mostrandogli il dubbio che avevo di avere disubbidito; ma
il mio Signore mi faceva chiaramente conoscere che non avevo su di ciò colpa
alcuna, ma che la creatura non può resistere al Creatore.
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