Ho dimenticato di scrivere un fatto che mi
seguì il giorno 19 nel mese di marzo del 1807, nel tempo che era fuori il mio
direttore e che in mancanza del suddetto mi assisteva il reverendo padre
Ferdinando, come si è detto nei passati fogli.
Il giorno che ricorreva la festa del glorioso san Giuseppe, nella santa
Comunione, ero tutta intenta a piangere i miei peccati per trovarmi colpevole
di impazienza, improvvisamente fu sopito il mio spirito e sopraffatto da intima
quiete. Mi parve in questo tempo di essere condotta da mano invisivile sopra di
un monte, dove trovai molte anime che formavano d’intorno all’umanità
santissima di Gesù Cristo nobile corona. Si arrestò a questa vista il mio
povero spirito, riconoscendosi indegno di inoltrarsi, per riconoscere in quelle
anime che quivi erano molta santità e perfezione.
Piena di lacrime mi rivolsi a loro, acciò si fossero degnate ottenermi
dall’amabile Signore il perdono dei miei peccati, ed intanto, umiliandomi fino
al profondo del mio nulla, mi disfacevo in lacrime di contrizione, desideravo
ottenere per grazia di esser serva di quelle anime che quivi erano.
Oh, quanto mai erano belle, le vedevo tutte vestite di bianco, trattar
familiarmente con Gesù Cristo. Oh, qual consolazione, dicevo tra me, sarebbe
poter servire queste anime tanto sante! Ma una indegna peccatrice come sono io
non merita tanto onore». Rivolta all’amato Signore, piena di fiducia, dissi:
«Gesù mio, abbiate pietà di me, misera peccatrice!».
Ed intanto, discostandomi da quel sacro monte, per rispetto e riverenza,
piangendo la mia grande ingratitudine, quando l’amoroso Gesù, pieno di santo
affetto, a me rivolto mi disse: «Mia diletta figlia, ti arresta», e, comandato
a quelle anime che attorno gli facevano corona, che liberamente mi facessero
passare, a me rivolto soggiunse: «Amica mia, appressati a me senza timore.
Voglio coronare il tuo capo di pregiata corona».
A questo invito qual contrasto provò il mio cuore di santi affetti, la
propria cognizione non mi permetteva di accettare liberamente gli amorosi e
replicati inviti del mio Signore. «E come ardirò io», dicevo, «avvicinarmi
tanto alla stessa santità? Queste anime giustamente mi rimprovereranno il mio
ardire! Ma come potrò resistere a invito tanto parziale che mi fa il mio
Signore?».
Ma intanto l’amato Signore, osservando il santo contrasto che facevano i
diversi affetti nel mio cuore, si compiaceva di vedermi per amor suo così
patire, tornò nuovamente ad invitarmi con maggior efficacia, l’amore di
compiacerlo superò il timore di disonorarlo; mi avvicino a lui qual figlia
amante al caro padre suo, mi prostro ai suoi piedi, piena di; rispetto e
riverenza dicendo: «Domine, quid me vis
facere? Fiat voluntas tua!».
Appena ebbi proferito le suddette parole, si degnò con le sue preziose mani
calcare sopra il mio capo preziosa corona, poi fece mettere in bell’ordine le
suddette anime, mi comandò di sedere ad una bella sedia che quivi era, e
comandò alle suddette anime che mi avessero prestato obbedienza.
Queste, piene di rispetto, si degnarono soggettarsi a me, due per due
vennero a prestarmi ossequiosa obbedienza; per non più dilungarmi non sto qui a
ridire quale e quanta fosse l’umiliazione che cagionò al mio povero spirito
questo rispettoso ossequio. Fu tale e tanto il lume di propria cognizione che
Dio donò all’anima mia, che credetti veramente di restare annientata nel
proprio nulla, un profluvio di lacrime soffocavano il mio cuore, e piena di
rossore e confusione nel vedermi d’intorno anime sì care, che non alzavo
neppure gli occhi per rimirarle, conoscendomi affatto indegna di loro.
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