Italo Svevo: Raccolta di opere
Italo Svevo
I racconti

VII UN QUARTO ROMANZO? GLI ULTIMI GRANDI FRAMMENTI

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VII
UN QUARTO ROMANZO?
GLI ULTIMI GRANDI FRAMMENTI

              

               UN CONTRATTO

Non ho mai capito bene come io sia arrivato alla mia inerzia attuale, io che durante la guerra ero considerato in città come un uomo molto operoso. C'è mio nipote Carlo che consultai anche su questo punto che pure anch'esso riflette sulla mia salute, e mi disse che facevo bene di stare tranquillo e che avrei ripreso il mio lavoro alla prossima guerra mondiale.

Quel biricchino ne indovina parecchie in quel suo gergo triestino e argentino. È vero la mia attività era stata quella della guerra e venuta la pace, non sapevo più movermi. Proprio come un molino a vento quando l'aria non si move.

Cerco di ricordare: Magari mi fossi fermato prima, ma io non m'ero accorto dell'immenso rivolgimento. Per le vie acclamavo alle truppe italiane e sapevo che la mia città finalmente usciva da una specie di medioevo. Poi andavo al mio ufficio e trattavo gli affari come se fuori ci fossero ancora le truppe austriache e l'inedia austriaca. E ricordo ancora: Quando le comunicazioni con l'Italia si ristabilirono io ne approfittai per scrivere una bella lettera al vecchio Olivi che aveva passata la guerra a Pisa. Era una lettera proprio innocente perché dalla stessa traspariva la mia convinzione che le cose a guerra finita sarebbero continuate come se la guerra fosse continuata. Gli scrivevo che il destino aveva voluto ciò che il mio povero padre aveva escluso cioè che divenissi il padrone dei miei affari. Gli esponevo la florida posizione a cui avevo portato la casa nostra, i tanti affari che avevo fatti e gli presentavo anche un computo dei denari guadagnati. Tutto ciò con grande serenità e senza vanteria. Non occorrevano parole: Bastavano i fatti per farlo schiattare dalla bile. Infatti schiattò.

Quando pochi giorni dopo appresi ch'era morto pensai che non avesse saputo sopportare la mia lettera. Invece era morto di grippe. Nella lettera seccamente io gli avevo proposto di lasciar continuare le cose come il destino le aveva poste, forse dimenticando un po' le ultime disposizioni di mio padre, che a quest'ora si erano fatte molto antiche. Sollecitavo l'ulteriore collaborazione sua e di suo figlio ma di restare io il padrone e che gli avrei lasciato la necessaria libertà per riannodare gli antichi suoi affarucci mentre io avrei atteso ad affari maggiori nei quali volevo avere l'assoluta libertà anch'io. Anche la direzione degl'impiegati sarebbe spettata a lui. Io ne ero alquanto stanco per quanto durante la guerra avessi tenuti ben pochi impiegati.

Non ne sono sicuro ma è possibile che sarebbe stata una fortuna per me di essere subito avvisato della morte del vecchio Olivi mentre io ne seppi soltanto 8 giorni dopo avvenuta. Non tenni conto delle date e forse sarebbe stato opportuno ch'egli morisse qualche giorno prima.

Insomma l'affare disastroso in cui mi precipitai dipese certamente dalla mancanza di sensibilità mia, credevo cioè che continuasse la guerra mentre sapevo che era scoppiata la pace. Ma m'affrettavo anche di mettermi in un affare importante perché al suo arrivo l'Olivi trovasse un motivo di più per ammirarmi. Se avessi saputo della sua morte anch'io mi sarei tenuto più tranquillo.

Arrivarono dunque a Trieste una quantità di vagoni di sapone dalla Sicilia. Durante tutta la guerra il sapone a Trieste era stato il desiderio di tutti e specialmente di chi con esso voleva fare fortuna. Io me ne impadronii con avidità e pagando per cassa pronta. Come ero uso di fare durante la guerra ebbi meno premura di venderlo. Poi, come mi vi accinsi, scopersi che a Trieste non sentivano il bisogno del sapone. Pareva vi si fossero disabituati. Poi avvenne di peggio: Ricevetti da tutta l'Italia altre offerte di sapone e a miglior prezzo di quello che avevo pagato io. Allora mi agitai e compresi che era avvenuto anche per il sapone il fatto nuovo, la pace. Ma mi parve che per il sapone ci fosse ancora una salvezza. Infatti il mio si trovava già a Trieste mentre l'altro era più lontano. Avviai senz'altro il mio sapone a Vienna per arrivare primo e ne tentai la vendita. Neppure adesso so esattamente perché il mio sapone fu intanto sequestrato. C'erano due ragioni, pare, per togliergli la libera viabilità: Il bisogno urgente che la gente ne aveva eppoi il fatto che il sapone non bene corrispondeva nella sua contenenza a certe leggi austriache di cui anch'io sapevo qualche cosa. Poi incominciarono le trattative che durarono qualche mese. Infine ebbi il mio sapone libero ma intanto il mondo aveva avuto il tempo di rifornirsi del materiale dal consumo tanto lento ed io dovetti venderlo sotto prezzo ed in corone austriache che mi pervennero solo quando non c'era più il tempo di cambiarle. Valevano pressocché nulla. Quest'ultimo affare mi portò via quasi tutto il beneficio da me realizzato con tanta fortunata intraprendenza durante la guerra. Fu duro rassegnarvisi e tanto più in quanto il giovine Olivi che nel frattempo era arrivato ancora vestito da sottotenente non sapeva guardare i miei bilanci passati con benefici importanti ch'erano stati tutti assorbiti da quell'ultimo disgraziato affare senza ridere. Dimostrava anche un grande disprezzo per gli affari di guerra e un giorno asserì ch'era troppo naturale che in tempo di pace fosse subito distrutto chi s'era abituato a lavorare in tempo di guerra. Mormorò anche: «Già se io avessi potuto comandare avrei fatto fucilare tutti quelli che durante la guerra commerciarono». Poi si ravvisò e, senza ridere, aggiunse: «Meno lei... naturalmente».

Il timido giovinotto durante la guerra s'era fatto molto ardito. Ne ebbi paura dapprima. Come avrebbe atteso ai miei affari un uomo ch'era tanto fortemente intinto di bolscevismo? Ad ogni tratto sputava delle sentenze contro i ricchi. Lui e suo padre erano corsi in Italia coi loro titoli austriaci sotto il braccio. Senza pensarci altro egli era andato in trincea e quando finalmente gli riuscì di distruggere le trincee nemiche apprese che nello stesso tempo aveva distrutto anche la propria sostanza. Ciò lo amareggiò profondamente.

«E vostro padrearrischiai io. «Lui, poi, era un uomo d'affari. Non come io che sono un commerciante di guerra né voi che siete un uomo d'arme».

«Non ci pensò» sospirò l'Olivi. «Durante la guerra non fece altro che aspettare le mie notizie. Poverino!».

Trionfalmente esclamai: «Anch'io aspettavo le notizie da Firenze eppure seppi anche attendere ai miei affari. Sta bene che causa quei maledetti saponi la mia sostanza non fu aumentata. Ma almeno non la lasciai distruggere».

Con vera amarezza l'Olivi disse: «Sui membri della sua famiglia nessuno tirava mentre io mi trovavo in trincea». Pareva rimpiangesse che mia figlia non si fosse trovata in trincea.

Ad onta del suo bolscevismo l'Olivi fu negli affari esattamente quello ch'era stato suo padre, accorto, attento e duro. Gl'impiegati erano stati viziati da me che non ero bolscevico. Lui li rimise all'ordine. Li obbligò a tenere esattamente l'orario e, quando poté, ridusse le loro paghe.

Presto m'accorsi che con lui non dovevo parlare ma che di lui potevo fidarmi. Dava lui l'esempio di un'attività indefessa. Tanto che io cominciai a prendermela molto comoda. Dapprima, un certo giorno di cui mi ricordo ad onta che in esso non fosse successo proprio niente altro che un movimento nel mio animo pensai: "M'innalzo ancora se regno senza governare". L'Olivi per qualche tempo mi sottoponeva per la firma qualche lettera importante. Io firmavo dopo un'esitazione con una smorfia che voleva dire: È quasi bene. Se volessi rifarla, la farei ancora meglio, ma per non sottopormi a tanta fatica, con un sospiro firmavo.

L'unico affare cui l'Olivi rifiutò l'attenzione dovuta fu quello del sapone. Le corone non arrivavano mai ed io un giorno esclamai: «Ma insomma, non si potrebbero costringere quei viennesi di fare il loro dovere? Non abbiamo vinto noi la guerra?». Egli rise di cuore, tanto di cuore ch'io compresi che fra quelli che avevano vinto la guerra io non c'ero e arrossii.

Io sono molto sensibile a tali rimproveri. Non dissi nulla perché m'occorse del tempo per fare il conto che allo scoppio della guerra io avevo avuto 57 anni. Il giorno appresso gli domandai: «Lei crede che se alla guerra mi fossi presentato quale volontario m'avrebbero accettato quale generale? Perché credo che fra i fanti non m'avrebbero ammesso».

Egli rise: «Certo di generali ne abbiamo avuto di tutte le qualità».

Era meno cattivo. Meno cattivo di me perché io durante la notte avevo preparato tutte le parole che dovevo dirgli. E soggiunsi per nulla commosso dalla sua bonarietà: «Non mi sarebbe bastata neppur la carica di sottotenente perché anche per quella carica occorrono buone gambe: Per avanzare e anche per scappare».

Egli non sentì la botta. Si fece triste. Pensava ad una ritirata. Anche lui era un uomo lento. Il giorno appresso mi disse: «Quelli che nulla sanno della guerra credono che il buon ufficiale si veda nell'organizzazione dell'attacco. Io credo di essere stato utile alla mia patria, utile nel senso di aver diffuso la mia fiducia a molti, durante la ritirata».

«È questione di gambe» dissi io implacabile. E allora egli si arrabbiò. Ma non contro di me. L'aveva con altri. Comandanti varii che s'erano avvantaggiati dei suoi meriti. Eppoi l'aveva con gente anche più lontana, coi morti cioè. Quelli erano gli eroi e si proclamavano tali tanto volentieri perché costavano poco, una tomba e qualche scritta. I vivi che avevano fatto tanto venivano negletti e se volevano vivere dovevano andar a lavorare per il signor Zeno Cosini.

Non sentii subito la botta e soltanto il giorno appresso gli dissi: «Sarebbe bella che toccasse proprio al povero Zeno Cosini di pagare gli eroi che seppero sopravvivere». Egli rise con disprezzo. Io alzai la voce: «Lei ha combattuto per molti altri. In questa stessa contrada può trovare chi le deve quanto me».

Ero tuttavia timido quando sapevo alzare la voce. Ma mi seccava di farlo. In fondo era vero che lui aveva combattuto mentre io avevo fatto affari. Ma il peggio venne poi. A forza di governare e non regnare io presto non seppi più nulla dei miei affari. Quando per caso mi avveniva di dare qualche consiglio venivo subito deriso. Veniva il mio consiglio da altre epoche. Citavo degli uffici cui bisognava ricorrere e che non esistevano più e l'Olivi mi diceva: «Ma lei crede di essere ancora contemporaneo di Alberto l'Orso». O suggerivo una cosa che sotto l'antico regime si poteva fare e allora l'Olivi mi raccontava che nel 1914 i serbi avevano ucciso un arciduca e che ne erano seguite tante storie che il mio consiglio non si poteva più applicare.

Io cominciavo sinceramente ad annoiarmi in quell'ufficio. Talvolta mi prendevo delle vacanze. Per amore al buon ordine la sera prima avvisavo l'Olivi che il giorno seguente non sarei venuto in ufficio. L'Olivi mi diceva: «S'accomodi, ma s'accomodi». E rideva. Voleva significare il suo contento di vedermi meno frequentemente.

Già allora io cominciai a dover esercitare uno sforzo per recarmi all'ufficio. Vi andavo sempre nella speranza di cogliere l'Olivi in fallo. Speravo non vedesse bene qualche lettera o l'interpretasse male ed ero pronto a dimostrargli la necessità della mia presenza. Mai mi concesse tale gusto. Anzi una volta in cui io credetti di coglierlo in fallo, mi disse: «Ma lei non sa leggere una lettera?». E mi dava la prova che mi sbagliavo. Ed è vero che molti mesi dopo che una tale discussione era avvenuta m'accorsi una volta di aver avuto ragione ma che intimidito dalla sua sicurezza non ero stato capace di conservare la mia opinione.

E così fra le dispute in cui avevo torto e quelle in cui contro ogni giustizia il torto mi veniva addossato, io finii con l'avere in quell'ufficio non l'aspetto di chi regna ma piuttosto di un ingombro cui nessuno bada. Gl'impiegati non mi mancavano di rispetto ma neppure quando l'Olivi momentaneamente si assentava mi domandavano istruzioni. Io fingevo di non accorgermi che in quel momento d'istruzioni ci sarebbe stato bisogno perché io sapevo che qualunque istruzione avessi data si sarebbe finito col provarmi che m'ero sbagliato. Stavo quieto quieto ben contento che nessuno mi domandasse nulla.

Ma poi un bel giorno fui aggredito. Quella bestia di mio genero (poverino mi dispiace di dirlo così ora, ora ch'è morto non vorrei fargli di torto) fu incaricato dall'Olivi di trattare con me per un nuovo contratto con lui. Gli affari andavano male. Bisognava riorganizzare la ditta, trovarle nuovo lavoro. Perciò l'Olivi s'apprestava a studii, lavori e viaggi e intendeva dedicare la sua vita al suo compito. Bisognava però retribuirlo in tutt'altra misura. Egli esigeva un onorario un po' più alto di quello che percepiva allora e inoltre il 50% dei benefici.

Mio genero mi guardava con quella sua faccia pallida, grassa un po' informe (mai intesi come poté piacere a mia figlia) e mi domandava scusa di aver accettato lui l'incarico di apportarmi una simile missiva. L'aveva fatto a fin di bene; era meglio l'avesse lui che un altro.

Io ero indignato. Vedevo davanti a me tutta la storia delle mie relazioni col padre e figlio Olivi. Tanti anni si era restati alle condizioni stabilite da mio padre. Se si cambiavano ecco ch'io sarei stato libero di allontanare dall'ufficio l'Olivi e mettermi io a capo della mia ditta. Ma giusto ora avevo qualche esitazione. Era tanto lontano quel giorno in cui liberato da ogni catena della guerra m'ero gettato impetuosamente negli affari. Con astuzia diabolica l'Olivi era riuscito a convincere tutti della mia insufficienza. Aveva convinto anche me. Io mi vedevo assediato da persone che m'avrebbero chieste delle istruzioni di cui non potevo che dire: Rivolgetevi all'Olivi!

Ma non era vero che mio genero Valentino avesse fatto bene d'incaricarsi lui di quella missiva. Prima di tutto io sapevo ch'egli stimava moltissimo l'Olivi e pochissimo me. Lui era procuratore di un grande istituto d'assicurazioni e aveva tentato con me di stabilire una polizza generale per tutti i nostri trasporti. S'accorse a un dato punto che con me esitante (mal diretto dall'Olivi stesso) non sarebbe venuto a capo di nulla e finì col rivolgersi all'Olivi con cui in due e due quattro la polizza generale fu firmata e – a dire il vero – a condizioni per noi più vantaggiose di quelle ch'io mai mi sarei sognato di raggiungere. Valentino si scusava poi con me dicendo: «Ma tu non m'avevi spiegato questo o quell'altro...». È certo ch'egli concesse all'Olivi delle condizioni migliori di quelle che aveva offerto a me e finì – ciò ch'era peggio di tutto – col concepire una grande stima per l'Olivi.

Perciò aveva fatto male d'incaricarsi lui di quella missiva. Io per il momento respinsi ogni proposta e pregai Valentino di dire all'Olivi di ritenersi licenziato e che avrei provveduto a rimpiazzarlo se non avessi finito col mettermi semplicemente io al suo posto.

Valentino come tanti altri uomini d'affari credeva che le cose si possono discutere a questo mondo. Come poteva farlo lui che non sapeva che intanto in quel momento a me importava piuttosto di ergermi dinanzi a lui che fare il mio interesse con l'Olivi? E si mise a parlare dei lunghi anni di servizio dell'Olivi e della sua grande pratica. Aveva una voce sgradevole il povero Valentino. Quel suo grande naso partecipava a creare il suono della sua voce. E non era mica una voce forte (già, che cosa era forte in Valentino?) per cui la noia di starlo a sentire era accompagnata dallo sforzo di tendere l'orecchio. Ed io tendevo l'orecchio con lo sforzo necessario eppoi chiudevo l'orecchio per non sentire quelle parole di cui non m'importava affatto. Parlava del mio interesse il povero Valentino mentre si trattava ora di tutt'altra cosa.

Finalmente finì. Si levò per raggiungere gli altri e prima di andarsene domandò scusa di avermi seccato. Io allora mi feci affettuoso ricordandomi che se c'era qualcuno da rimproverare era l'Olivi e non Valentino e gli sorrisi, lo ringraziai, l'accompagnai fino alla porta. Così egli non poté affatto accorgersi che dal mio animo sorgeva una rampogna ch'io spesso sento: "Come son buono! Come son buono!". E continuo ad essere buono contro ogni migliore convincimento. Che il povero morto mi perdoni ma in quel momento anziché sorridergli come feci avrei voluto accelerare la sua uscita con un calcio.

Andai da un avvocato, l'avvocato Bitonti, figlio dell'avvocato di mio padre, vecchio come me, più cadente di me, magro e la piccola faccia incorniciata da una barba bianca, ma l'occhio vivo e sereno. Curioso come certe persone quando studiano un affare non vedono altro che quello. Tutta la propria persona scompare e insieme a quella anche quella dell'interlocutore e resta l'affare. Egli non conosceva quell'affare che per quello che gliene dicevo io che al solo affare non sapevo pensare. Sarebbe stato perciò perduto insieme a me. Ma s'attenne all'affare non inteso, non saputo, male presentato. Mi disse: «Tu dici che in guerra hai saputo dirigere da solo i tuoi affari. Devi vedere se sapresti dirigerli da solo anche in tempo di pace. Tu dici che in ufficio hai almeno l'importanza dell'Olivi. Studia anche se la stessa importanza la conserveresti senza l'Olivi. Ma io credo che non devi rimpiazzare subito l'Olivi con qualcun altro. Devi assumere tu la direzione della ditta e in un secondo tempo cercare chi ti possa aiutare o sostituire».

Andai via odiandolo ma non facendoglielo vedere. Per fortuna! Perché dopo qualche tempo al grammofono vidi pieno di compassione per me stesso, la compassione più viva che esista che io, povero vecchio, non avevo aperte che due vie: Mettermi a lavorare col dubbio di non saperlo fare o arrendermi all'Olivi.

E fu allora che mi rivolsi per consiglio ad Augusta. Non speravo mica ch'ella avrebbe saputo dirigermi. Ma era utile chiarire le proprie idee dicendogliele. Dapprima la trovai ancora inferiore di quanto avessi temuto. Diceva: «Ma non sei tu il padrone? Come può osare questo? Come può osare?». Se mi fossi messo a studiare come l'Olivi avesse osato tanto avrei impiegato bene il mio tempo. Fui un po' impaziente e per il momento ritornai al grammofono.

Non ne avrei più parlato con l'Augusta se il giorno appresso essa, dopo pranzato, quando restammo soli, non m'avesse domandato: «Ebbene! Che hai deciso?».

Le spiegai che io trovavo abbastanza giusto di concedere all'Olivi il 50% del beneficio. Ciò in quell'epoca non era mica la grande cosa perché non si trattava più degli utili prebellici o di quelli che avevo saputo realizzare io durante la guerra. Ora veramente urgeva che l'Olivi ed io dedicassimo ogni nostro potere alla ricostruzione della casa su altre basi. Ma se io dovevo collaborarvi perché non avrei ottenuto anch'io un onorario uguale a quello dell'Olivi?

Mi era facile risolvermi a spiegare tutto ad Augusta. Quella bestia dell'Olivi rivolgendosi a Valentino che raccontava tutto a sua moglie la quale con la propria madre non aveva segreti m'aveva già esposto ad una sincerità assoluta.

Augusta mi consigliò di domandare l'onorario doppio di quello percepito dall'Olivi. Io assentii gravemente ma subito pensai che all'Olivi non avrei domandato tanto.

E feci uno sforzo disperato per allontanare dalla discussione Valentino. Trattai direttamente con l'Olivi.

Non mi parve mica imbarazzato. Trattava quell'affare con la stessa disinvoltura con cui avrebbe ceduto o rifiutato di cedere una partita di merce. Ed invece io non sapevo arrivare ad una disinvoltura simile. Sorridevo, pensavo, discutevo, ma sicuramente si vedeva ch'ero come un cane che quando avvicina un nemico s'irrigidisce cacciando la coda fra le gambe. E mi mancava il fiato sentendo l'importanza del momento. In quel momento vedendolo tanto sicuramente disinvolto in un affare simile e sentendo me infelice e malsicuro intuii la superiorità sua e decisi di conservarlo nei miei affari a tutti i costi.

Proposi che a me fosse assegnato un onorario uguale al suo e si dividesse poi il beneficio oppure che si trascurasse di fissare un onorario qualunque sia a me che a lui e si provvedesse alla divisione dell'utile. A me pareva di aver fatta una proposta sola ma non all'Olivi. Prima mi raccontò ch'egli stava per ammogliarsi e che se avesse accettato la mia proposta poteva vedere dal bilancio precedente che i denari non gli sarebbero bastati per vivere onorevolmente con la sua famiglia: Egli abbisognava proprio della sua paga intera e della metà dell'utile non attenuato da una mia paga.

«Ma» dissi io «se il mio lavoro non ha da essere retribuito io neppure lavorerò. Verrò qui solamente di tempo in tempo come sorvegliante ma non toccherò una penna».

Ipocritamente l'Olivi disse: «Mi dispiace di dover rinunziare alla sua collaborazione ma non si può fare altrimenti».

Ipocrite erano le parole non l'atteggiamento deciso che proprio significava: La collaborazione che tu mi offri non vale un soldo.

Ci fu da me ancora una piccola resistenza. Gravemente domandai: «Fino a quando lei mi lascia il tempo per darle una risposta

Mi spiegò ch'erano già trascorsi otto giorni dacché la sua prima proposta era partita. Egli, volentieri, avrebbe atteso anche fino al bilancio che dovevasi chiudere alla fine del mese secondo il contratto vecchio, ma non poteva perché le persone con le quali trattava l'obbligavano ad una pronta risposta. La risposta io la dovevo dare l'indomani mattina. Egli voleva trattare con me francamente. Aveva consegnato a mio genero Valentino la lettera delle persone che volevano assumerlo alle condizioni stesse ch'egli da me domandava e mio genero me l'avrebbe fatta vedere quella sera stessa.

Per due ragioni io diedi un balzo: Apprendevo che l'Olivi se non andava d'accordo con me s'apprestava a farmi la concorrenza eppoi (ciò che mi doleva di più) di nuovo un membro della mia famiglia veniva ammesso a queste discussioni che – a quest'ora lo s'intendeva all'evidenza – non potevano terminare per me che con una sconfitta.

Balbettai: «Ma perché occorreva di mettere fra di noi degli estranei?».

«Degli estraneirise lui. «Non è suo genero?».

Mi ravvisai e mormorai: «È vero». Ecco un'altra cosa che non si poteva discutere. Era da perdere i sensi. Con l'Olivi soggiacevo sempre.

Non osai più discutere ma ancora una volta, l'ultima, mi eressi come consigliava Augusta – la sola – da padrone. «Ebbene, sia! Domani mattina le darò la mia risposta».

E il curioso è che subito abbandonai l'ufficio per la prima volta nell'ora stessa in cui si apriva la posta. In quella stagione e a quell'ora si sarebbe stati meglio nell'ufficio caldo che all'aperto sotto ad una nuvolaglia pregna di neve. Agivo da padrone, cioè da padrone di me stesso, ma non da padrone di quell'ufficio ove il vero padrone, l'Olivi, restava a lavorare, a lavorare al caldo, mentre io dovevo correre in cerca di altro ricetto.

M'arrampicai a piedi fino alla mia villa. Non era il caso di celare ad Augusta la mia sconfitta dal momento che Valentino ne avrebbe saputo. E gliela raccontai subito. Per liberarmi subito da tanto peso strappai Augusta alle sue faccende domestiche e al suo bagno. Le confessai ch'era vero ch'io non sapevo lavorare. Era forse l'età? Non avevo allora che 63 anni ma poteva trattarsi di un invecchiamento precoce. Noto come una coincidenza ch'era la prima volta che in casa si evocava quella malattia. E quando essa colse Valentino ebbi per un momento un rimorso come se gliel'avessi appioppata io.

E parlando della mia irrimediabile vecchiaia mi vennero le lacrime agli occhi. Augusta si mise a consolarmi commossa pronta a piangere con me. Essa ci tiene molto ai denari perché ne consuma molti, saggiamente nel senso che non guarda alla spesa quando si tratta di aumentare la propria comodità. Ma non credo che s'informasse tanto del danno finanziario che dal nuovo contratto doveva derivarmi. Supponeva fosse piccolo e voleva trarne una nuova ragione per consolarmi.

Infatti era piccolo. Poteva diventare maggiore se ci fossero state delle perdite perché allora oltre alle perdite avrei dovuto anche sopportare la spesa dell'onorario dell'Olivi visto che nel nuovo contratto l'Olivi veniva esonerato da perdite perché riteneva che colui che rappresentava il lavoro nell'associazione non poteva vedersi sminuita la retribuzione. Era insomma quello che si dice un contratto ben fatto... dal punto di vista dell'Olivi. Posso anche dire subito che se il nuovo contratto fortemente avvantaggiò l'Olivi non posso dire adesso dopo sette anni di prove di essere stato molto danneggiato altrimenti che nella salute come dirò. Certi anni i bilanci furono splendidi e la maggiore difficoltà fu di ingannare l'agente delle imposte. Altri anni furono poco lauti, ma di perdite non ce ne furono giammai. In fondo l'Olivi trattava i miei affari come faceva suo padre solo che è retribuito meglio del vecchio, un vero segno dei tempi.

Io, quel primo giorno dopo di aver sofferto il freddo e lo sconforto della mattina restai in casa. Non avevo ancora il progetto di non rivedere più il mio ufficio. Credevo di essere a riflettere come per salvaguardare la mia dignità avrei ricevuto Valentino che alla sera certamente sarebbe venuto da me. Invece non ci pensai affatto. Io non so dirigere la mia attenzione dove voglio. Essa è veramente indipendente da me. Ricordo che tutto il giorno nelle ore in cui restai solo rimasi fisso a guardare se alla mattina non avrei dovuto subito accettare la proposta dell'Olivi oppure se forse non avrei fatto meglio di mandarlo a quel paese e di assumere la direzione dei miei affari. Ed è proprio vero ch'io più intensamente rivolgo il mio pensiero al passato come per correggerlo – anzi un evidente tentativo di falsarlopiuttosto che all'avvenire su cui il pensiero non sa come adagiarsi non vedendone chiaro il piano che non è ancora formato.

E così quando finalmente capitò il povero Valentino io non seppi far altro che subito allontanarlo (io quando guardo una montagna aspetto sempre che si converta in vulcano) dichiarandogli che io poco prima avevo visto l'Olivi e che m'ero messo d'accordo con lui. Valentino parve dubbioso e confuso. Mi guardava fisso indagando con quel suo occhio che – purtroppo per lui – non conosceva la serietà. Poi disse anche il suo dubbio: Aveva visto l'Olivi alle sei di quello stesso pomeriggio ed ora si era alle otto. Non vedeva dunque dove io avessi potuto vedere l'Olivi e discutere con lui di un affare di simile importanza.

A me spiace molto di dire delle bugie e di esservi costretto era un nuovo motivo per me di rancore per il povero Valentino. E veramente vi ero costretto dal momento che avevo detto la prima bugia. Ma perché Valentino era tanto insistente? Più tardi – quando morìcompresi e scusai. Egli era fatto così e non sapeva abbandonare un affare che quando l'aveva compreso a fondo ciò che domandava uno spazio di tempo non tanto piccolo perché egli pensava lentamente e con grande esattezza.

Gli spiegai che m'ero imbattuto nell'Olivi per caso sulla via e che in due parole fummo d'accordo. L'affare non aveva una grande importanza. Cortesemente gli dissi anche la meschina cifra di utile che avevamo raggiunta l'anno precedente. Dunque l'affare per me non aveva importanza ma non ne aveva neppure per l'Olivi ch'era tanto più povero di me.

Fin qui avevo saputo domare la voce turbolenta che dall'imo delle mie viscere mi urlava: «Come sei buono, come sei buono!». Ma pare che attraverso alla mia bocca quel suono sia finito pure per coll'essere percepito dal povero Valentino. Aveva però abusato della mia bontà. S'era messo a provarmi che l'affare aveva una grande importanza perché poteva avvenire che un anno dell'esercizio desse per risultato una forte perdita e allora essa sarebbe stata resa più sensibile dall'esborso del salario all'Olivi.

Ma che c'entrava questo? Perché tutt'ad un tratto, ora che aveva sentito che l'affare era stato concluso e per quanto non ci credesse, citava gli argomenti che militavano contro la sua conclusione? Forse per intendere meglio l'affare? Io non so neppure come il mio suono d'impazienza e d'ira sia potuto essere stato percepito da lui perché io non dissi altre parole pacate: Conoscevo la mia ditta e i miei affari e perciò potevo escludere che ne derivasse una perdita trattati come erano da un uomo prudente come l'Olivi. Ma la mia impazienza irosa dovette trapelare chiara ed offensiva perché tutt'ad un tratto la faccia del povero Valentino di solito immobilizzata, assorta nell'attenzione intensa del buon impiegato, si agitò, si sbiancò ed egli andò deciso alla porta. Era tanto offeso che pareva volesse negligere ogni buona forma e uscire senza una parola. Alla soglia si fermò e con la voce malferma ad onta che fosse sempre appoggiata al naso, mi disse: «Già, è certo che io in cotesto affare non c'entro. Parlavo solo perché l'Olivi me ne aveva pregato, eppoi anche nel tuo interesse».

Io sempre sdraiato nella mia poltrona lo guardavo stupito cercando di trovare fra le parole che gli avevo detto quale avesse potuto ferirlo. Ma non la trovai anche perché egli mi confuse esagerando nelle buone forme e mi disse ancora che ci saremmo rivisti a cena per parlare di tutt'altre cose e mai più di quell'affare. Mai più? Non era un eccesso di dire così? Erano troppe le cose cui in un solo istante dovevo pensare e perciò la parola offensiva che doveva essermi uscita di bocca non la trovai più. Doveva essere stato ferito più dal suono che dal senso delle parole.

Poi seguirono delle ore di un affanno strano. Dovevo prima di tutto avvisare Augusta di non dire a Valentino ch'io da molte ore non m'ero mosso di casa perché egli altrimenti avrebbe saputo ch'io quella sera non avrei potuto aver visto l'Olivi. Ma come fare? Augusta si trovava certamente nel salone con Valentino ed Antonia. Poi io dovevo quella sera stessa trovare l'Olivi e subito mettermi d'accordo con lui prima ch'egli rivedesse Valentino. Così, in piena angoscia, pronto per uscire con indosso il cappello ed il cappotto d'inverno nella casa come al solito per volere di Augusta surriscaldata, rimasi per qualche minuto alla porta del mio studio irresoluto se correre nel salone a chiamare Augusta o andare al Tergesteo ove sapevo di poter ancora trovare l'Olivi che non si staccava dagli affari – in questo simile al padre suo – fino alle nove di sera.

In quella passò Renata la bambinaia di Umbertino. Poteva aiutarmi. La chiamai. Essa alzò i suoi occhi bruni stupita e un po' spaventata perché era la prima volta che, lontana dal bambino, io le rivolgessi la parola, mentre io anche nella mia agitazione non sapevo non sorprendermi delle sue gambe lunghe ancora un po' infantili coperte di sole calze di seta.

Fu un po' difficile di spiegarmi. Volevo ch'ella facesse venire a me Augusta senza che gli altri apprendessero ch'ero io che la chiamavo.

Essa subito comprese. Aveva una voce come spezzata da un suono acuto sforzato ch'era aumentato dal riso che ora le interrompeva la parola. Passavano molte note nella sua voce. Propose: «La signora Augusta mi mandò di qui a cercare i suoi occhiali. Io li trovai e li ho qui ma le dirò che non seppi rintracciarli ed allora è sicuro ch'essa verrà a cercarli essa stessa».

Non ero ben convinto che proprio così le cose dovessero svolgersi ma nell'esitazione lasciai che Renata s'allontanasse. Quando capitò Augusta di corsa ammirai molto l'astuzia della piccola servetta.

Per fortuna Augusta non aveva ancora detto una parola che potesse compromettermi verso Valentino. Poi essa non fu affatto sorpresa della bugia che avevo detta; la intese e persino parve l'approvasse. Io credo di spiegare la cosa che ora mi pare abbastanza strana ricordando ch'essa proprio allora ce l'aveva col povero Valentino perché aveva trovato da dire col nostro figliuolo Alfio. Naturalmente poi essa fu d'accordo anche ch'io uscissi per trovare l'Olivi e prevenirlo che il contratto da lui proposto era stato accettato molto prima dell'intervento di Valentino e avrebbe detto a quest'ultimo ch'io adesso uscivo per eseguire una sua commissione. Solo così era possibile di farmi usare dell'automobile di cui l'uscita dal garage si sentiva nel quartiere.

Trovai l'Olivi al Tergesteo. Feci con lui una figura alquanto strana. Mi trovavo in uno stato di assoluta inferiorità con quel mio dipendente. Avevo fretta, non c'era tempo di pensarci e m'abbandonai senza ritegno alla mia passione: Quella di eliminare definitivamente da quell'affare mio genero.

Gli dissi ch'ero disposto ad accettare tutte le condizioni da lui domandate a patto mi facesse una concessione, una sola.

L'Olivi mi guardò esitante. Poi parlò anche, lentamente come faceva sempre quando trattava degli affari, col rispetto sciocco che egli ad essi portava come se potessero avere altra importanza che quella che derivava loro dal denaro che si voleva trarne, come se potessero essere scienza, arte, invenzione.

E così in quel momento in cui mi comportavo come un bimbo imbizzito a me parve di essere molto superiore all'Olivi il quale con tanta lentezza e solennità voleva dirmi delle parole che non m'importavano affatto e ch'io neppure volevo discutere.

Gravemente esordì dicendomi ch'egli, prima di presentarmi le sue condizioni le aveva ben studiate e che perciò egli non poteva concedere alcuna loro modificazione.

Io urlai impaziente: «Ma se non penso di proporre delle modificazioni. A me importa tutt'altra cosa». E gli spiegai quello che desideravo: Che Valentino non potesse credere che il nostro accordo fosse frutto del suo intervento.

L'Olivi non seppe celare un gesto di sorpresa. Mi conosceva da tanti anni, ma non gli parve di avermi mai visto tanto irragionevole. Mi scrutò per accertarsi che non scherzavo. A tale certezza non arrivò ma – infine – che gl'importava? Se si arrivava alla conclusione dell'affare magari in seguito ad un mio accesso di pazzia non aspettava a lui di esitare. Mormorò riflettendo: «Sono stato io che incaricai il signor Valentino. Mi pareva fosse l'uomo più adatto per tali trattative: È un vecchio amico mio ed è un suo figliuolo». E mormorò ancora: «Si può fare questo. Io ho visto Valentino alle sei e posso benissimo aver incontrato lei alle sette». Così si raccolgono le persone dal pensiero troppo lento: Parlando ad alta voce. E disse ancora una cosa stranissima: «Adesso che sento che Valentino non è suo figliuolo...».

Io protestai: «È il mio figliuolo ma non voglio avere l'aspetto di un uomo che si lascia dirigere dai proprii figliuoli». Dissi subito risolutamente così ma il lapsus strano dell'Olivi mi rese pesante il cuore. Non stavo commettendo io un'azione meno delicata verso mio genero che non aveva mai mancato di ogni riguardo verso di me, e perciò anche verso mia figlia Antonia?

Questo dubbio m'accompagnò per lungo tempo e rese più dura la mia posizione tanto disgraziata dopo di aver firmato quel contratto che mi privava di ogni attività e anche di non poco denaro. Talvolta per riacquistare la mia serenità me la presi col povero Valentino il cui intervento m'aveva costretto a dare il mio consenso al contratto con tanta precipitazione.

Al letto di morte di Valentino e mai prima il mio rimorso fu chiaro, evidente, tanto che mi sentivo molto infelice. L'Olivi aveva tenuto parola con la sua solita serietà e Valentino mai nulla aveva appreso del tiro che gli avevo giocato. Proprio per ciò con la solita debolezza di noi miscredenti che quando vediamo morire qualcuno crediamo che arrivati al di apprendano tutto, avrei voluto confessarmi a lui e domandargli perdono di quel tiro e anche di qualche altro che gli avevo giocato come per esempio qualche parola contro di lui che avevo detto a sua moglie Antonia che però – a quanto pare – non ne aveva sentita l'influenza. Ma con lui non mi lasciarono mai solo. Egli aveva già l'udito molto duro ed io ero disposto a confessarmi ad uno che m'abbandonava definitivamente ma non dinanzi a tanti che rimanevano con me a deridermi o a rimproverarmi.

E devo direconfessandomi qui – ch'io mai ebbi una grande simpatia per il povero Valentino. Credo non avrebbe potuto essere altrimenti perché egli era molto brutto con quel suo busto grasso e le gambe corte ed io credevo egli stesse peggiorando la mia razza. Ma perciò fuori che per rimorsi sopportabilissimi, io, al suo letto di morte, mi sentii abbastanza freddo e capace di osservare tutto con occhio sereno. Mi parve che tutti a lui d'intorno avessero maggior voglia di confessarsi che lui stesso che pure vi era esortato dalla moglie religiosissima. Ho paura che nelle stanze dei moribondi ciò si avveri frequentemente.

Augusta aveva preso parte al tiro giocato al povero Valentino e mai ne ebbe rimorso.

Quella sera, al mio ritorno, trovò il modo di restare un momento sola con me e mi domandò da vera complice: «Sei riuscito di parlare con l'Olivi e metterti d'accordo con lui?». E alla mia affermazione dette un sospiro di sollievo.

La notte seguente io la passai molto inquieto. Non sapevo neppur bene quali dei miei dubbi – ne avevo parecchi – si fosse convertito in incubo ma qualche cosa mi pesava orrendamente. Il contratto stesso? La condanna mia ad un'inerzia definitiva? Ma pensai: Se io in commercio posso valere qualche cosa finirò facilmente col trovare qualche occupazione che mi si confaccia. Neppure questa sicurezza mi diede la tranquillità.

Dopo un paio d'ore d'irrequietezza non ne potei più e destai Augusta. Essa mi propinò un calmante. Primo effetto del calmante fu di farmi parlare: «È quel maledetto contratto che non mi lascia dormire eppoi ho paura che l'Olivi racconti a Valentino che il mio consenso mi fu strappato proprio dal suo intervento». Non dicevo esattamente il mio pensiero perché sono sicuro che già allora io sapevo che quel vuoto uomo pieno di serietà ch'era l'Olivi avrebbe tenuto la sua parola.

Augusta mi poteva essere di poco aiuto. Era tanto cieca quando si trattava di me, che credeva io fossi veramente tuttavia il padrone e suggerì che il giorno appresso dal notaio all'atto di firmare il contratto io mi vi rifiutassi visto che non mi piaceva più. Essa non sapeva ch'io già conoscevo tutte le clausole del contratto di cui qualcuna abbastanza avvilente per me e che le avevo già accettate. Io dissi: «Se Valentino non si fosse intromesso certamente il contratto non sarebbe stato accettato così presto, ma così non è più possibile di ritirarsi».

E dopo di aver detto quelle parole trovai un po' di pace per quella notte. Avevo trovato il modo di attribuire a Valentino dei torti che compensavano i miei.

La firma del contratto fu dolorosa. Conoscevo tutte le clausole ma lette dal notaio mi parevano nuove. Una di esse, quella che stabiliva ch'io potevo intervenire nei miei affari con dei consigli ma che l'Olivi era libero di accettarli o rifiutarli.

Io firmai subito. Poteva esserci anche una clausola che mi condannava a morte perché dopo di quella clausola che mi proibiva di pensare neppure ai miei affari io non seguii più la lettura del contratto. Pensavo invece all'odiosa azione che l'Olivi aveva commessa e con la quale aveva ferito tanto profondamente un povero vecchio come me. La lotta era finita. Perciò ora mi sentivo tanto debole e disarmato. Pensando alla mia debolezza e alla forza del mio avversario, mi pareva di aver ragione: Finalmente ero dalla parte della ragione, io povera vittima. E quel sentimento di essere una povera vittima innocente, che doveva accompagnarmi per tanto tempo e degenerare in malattia, nacque proprio , al momento di subire la lettura di quel contratto.

Poi volli correre via. Mi parve dovessi allontanarmi dall'Olivi per fortificare il mio pensiero nella solitudine e dedicarlo alla vendetta. Strana quella furia di allontanarsi dall'avversario per accingersi a punirlo.

Ma non ero preparato alla parola che volevo dirgli, non vi ero preparato affatto. Firmato il contratto e volendo allontanarmi immediatamente, con gesto istintivo porsi all'Olivi la mano come deve fare un gentiluomo quando si sente battuto al giuoco. Il gesto si fa anche quando si ha il sospetto di essere stato barato e non si sa darne la prova.

L'Olivi mi strinse la mano e disse: «Vedrà, signor Zeno. Ella non avrà mai da rimpiangere di aver firmato questo contratto. Appena ora io spero di riportare la sua ditta non all'antico lustro, perché gli affari non possono più essere quelli, ma ad un'attività ordinata e regolare che le assicuri l'esistenza».

Le buone parole non mi placarono affatto. Che poteva importarmi un po' più o meno di rendita? Mi gettavano fuori dal mio ufficio dove ero stato tanto felice solo finché l'Austria m'aveva liberato dei due miei padroni e volevano consolarmi. Era troppo.

Con voce strozzata dissi: «Certe clausole non appartenevano in quel contratto. No, davvero! Bisognava ricordare che si aveva da fare con un vecchio che per legge di natura presto avrebbe abbandonato i proprii affari. Quella clausola che appena appena mi concede di fiatare quando potrei desiderare che un affare sia fatto o che un altro non lo sia, dovrebb'essere cancellata».

Il notaio saltò su spaventato. A dire il vero io quel notaio non lo ricordo neppure perché non lo vidi. So che a quel posto tanto importante sedeva qualche cosa di molto giovine, biondo o rosso, vivace come nessuno pensa possa essere un notaio. Mi colpì l'oro dei suoi occhiali dai quali pendeva un cordoncino d'oro che per arrivare ad una buca del gilè passava dietro all'orecchio. Osservai quel cordoncino forse perché era una cosa tanto pedantescamente ordinata che mi parve l'unica cosa che in quell'uomo fosse veramente da notaio.

Alzò la voce: «Ma il contratto è già fatto e bollato. Non capisco come si possa pensare di alterarlo».

L'Olivi intervenne con voce molto seria e tanto serena che mi parve contenesse tutta la minaccia dell'uomo fortissimo, sicuro di sé. «I bolli non hanno importanza» disse. È bensì vero che io le avevo dato tempo per rifletterci fino a ieri alle otto della mattina. Ma non importa. Io troverò sempre a mia disposizione i contraenti su cui contavo pronti a firmare con me questo stesso contratto. Se lei lo vuole, signor Zeno, stracciamo questo contratto. Io non ci tengo. Le ridò tutta la sua libertà. Ma però esigo di avere in confronto anch'io resa la libertà subito oggi. Da oggi io non rimetterò più piede nel suo ufficio».

Mi girò la testa. Stavo sforzandomi di rassegnarmi di perdere l'ufficio. Ecco che da un momento all'altro mi veniva proposto di riaverlo intero con tutte le sue noie, le sue responsabilità, e tanta schiavitù. Come potevo da un momento all'altro ritrovarmi in tale nuova posizione? Non era possibile, questo intesi subito. E vedendo che l'Olivi, deciso, stava avvicinandosi al tavolo ove giaceva il contratto, forse per stracciarlo, urlai: «Il contratto è ormai firmato e tocca a lei, signor notaio, di difenderlo. Io non ho mai proposto di annullarlo». E qui tentai di ridere per fermarmi e pensare ancora a quanto volevo dire. Trovai. Vittoriosamente urlai: «Io volevo soltanto provarle che lei non ha trattato come doveva con un vecchio. Si poteva ottenere la stessa cosa lasciando fuori alcune di quelle clausole. E non m'importa ora neppure che sieno cancellate. Una volta che ho saputo che lei quelle clausole pensava, il male era già fatto: Irrimediabilmente».

Brusco e sicuro l'Olivi disse: «Non si poteva fare altrimenti. Me lo creda, signor Zeno».

«E allora sta bene» dissi io. «E non parliamone più». M'accinsi ad uscire. Ma poi ritornai ancora una volta sui miei passi per stringere la mano al notaio ed anche un'altra volta all'Olivi. Che diavolo! Si era o non si era gentiluomini. Ma quando ebbi afferrata la mano dell'Olivi la lasciai subito cadere come se ne fossi stato scottato. Bisognava essere gentiluomini e perciò non si doveva simulare un'amicizia che non si sentiva.

Uscii presto perché pareva che l'Olivi avesse voglia di accompagnarmi. Volevo essere solo. Tante volte nella solitudine avevo saputo rimettermi, consolarmi, riacquistare la fiducia in me stesso quando ero soggiaciuto alla forza di qualcuno. Chissà! Riesaminata serenamente la mia posizione forse mi sarebbe apparsa meno brutta.

Fuori faceva un tempo sgradevole. Di tempo in tempo pioveva, lievemente pioveva. L'atmosfera fosca era pregna d'acqua. Che noia! Sbadigliai, passando con l'ombrello sempre chiuso per la grigia via. A quell'ora in ufficio doveva essere arrivata la posta. Esitai per un istante nel dubbio se non avessi dovuto andarci, per giungervi prima dell'Olivi e fare atto di padrone aprendo la posta. L'idea mi parve tanto originale che mi volsi per risalire la via. Ma poi mi ricredetti. Non avevo stabilito che poiché non mi si concedeva una paga io non avrei lavorato? E mi misi a correre nell'altra direzione per il timore che essendomi riavvicinato all'ufficio del notaio potevo imbattermi di nuovo nell'Olivi. E accelerando il passo pensai una cosa strana: "Dio mio! Ecco che già faccio qualche cosa".

Come in quel momento amavo l'attività. Intanto l'attività che di solito m'incombeva in quell'ora. Com'era bello aprire la posta! Si levava dalla busta una carta e non si poteva prevedere quello che contenesse. L'aspettativa era una bella cosa seguita molto spesso dalla noia o dall'ira. È vero ch'io di solito, dopo dieci lettere, non ne potevo più e lasciavo che l'Olivi facesse il resto. Ma ciò significava che avevo esaurito un piacere.

Sempre camminando verso il mare decisi di non dire subito ad Augusta ch'io non volevo rimettere il piede nel mio ufficio. Sarebbe equivalso a confessarle ch'io con quel contratto ero stato proprio gettato fuori del mio ufficio. I primi giorni avrei trovato qualche cosa da fare fuori di casa. Poi le avrei detto che non potevo più sopportare la vista dell'Olivi e che perciò non avrei più rimesso piede nel mio ufficio.

Intanto dovevo ripararmi dalla pioggia e m'avviai verso il Tergesteo. Ma poi m'imbattei in Cantari, un rappresentante di fabbriche germaniche di prodotti chimici. Mi dispiacque perché il Cantari talvolta vedeva Augusta e avrebbe potuto raccontarle che mi aveva visto fuori. Avrei voluto passare oltre dopo di averlo salutato ma egli mi fermò. Era stato incaricato dall'Olivi di comunicargli dei prezzi di prodotti chimici e voleva sapere se dicendoli a me poteva risparmiarsi la fatica di andare con quel tempo fino dall'Olivi.

Gli dissi che io non credevo che all'Olivi che stava tentando tutti gli articoli di questo mondo per rimpiazzare quelli di cui il commercio con il nuovo ordine di cose era escluso da Trieste, fosse possibile di lavorare in prodotti chimici. E feci un gesto di disprezzo che mi era tanto facile quando pensavo all'Olivi: Perciò io non volevo sentir parlare di prodotti chimici.

E allora il grosso uomo tanto apprezzato dall'Olivi perché non perdeva mai le cartedimenticava di visitare i clienti o di dare loro le comunicazioni necessarie, insomma un uomo tutto ordine perché il suo mestiere non esigeva altro che tale qualità, armò il suo ombrello e, rassegnato, si avviò.

Ma io nel frattempo avevo cambiato d'intenzione. A che aggiungere a tanto mio abbattimento anche la confusione e lo sforzo, il dolore insomma, d'ingannare Augusta? E che importanza aveva il fatto che Augusta poteva sospettare ch'erano riusciti a gettarmi fuori del mio ufficio? Si poteva celarglielo parzialmente. Dirle intanto quella prima volta in cui mi vedeva ritornare a casa tanto di buon'ora che ciò avveniva in seguito ad un violento male di testa. M'era facile di simulare qualunque malattia quel giorno. Certo Augusta avrebbe finito con l'obbligarmi a prendere un purgante. Ma forse ne avevo bisogno dovendo digerire tanta di quella roba indigesta.

Quando fui nel mio studio dopo di aver dato qualche spiegazione ad Augusta in seguito alla quale ebbi la testa fasciata, mi domandai: "Che fare, ora?". Forse avrei trovato qualche cosa da fare, qualche lettura o il grammofono. Avendo tanto tempo a disposizione avrei magari potuto prendere la grande risoluzione di ritornare al violino. Ma come occuparmi quando io tuttavia stavo litigando con l'Olivi? Io non gli avevo ancora dette tutte le insolenze che avrei potuto.

Molti giorni dopo la firma del contratto scopersi che se il vecchio Olivi non fosse morto io non avrei avuto da dover subire un simile affronto perché lui non l'avrebbe permesso. Questo sarebbe stato un rimprovero che avrebbe certamente addolorato il giovine Olivi che portava tanto rispetto alla memoria del padre. Potevo anche dirgli che se mio padre avesse saputo quale razza di gente sarebbe stata confezionata da quella loro prosapia, non m'avrebbe messo in mano loro.

E allora soltanto studiai il contratto di cui avevo una copia. Come era fatto con furberia diabolica! Ogni clausola era un'offesa per me. Se per mio volere la ditta avesse da essere sciolta ciò avrebbe implicato la mia perdita di mezzo capitale a vantaggio dell'Olivi.

Quella clausola mi bruciò tanto che non seppi rinunziare a cercare uno sfogo e credetti di trovarlo rimproverando a Valentino di aver collaborato alla firma del contratto. Credevo di poter fare quel rimprovero in piena coscienza perché io sapevo anzi che la causa della sua firma precipitosa era stato proprio lui. Ma egli si offese: Non mi andava ch'egli m'aveva proposto di discutere il contratto clausola per clausola e che quando l'aveva proposto aveva trovato ch'io già avevo accettato tutta la proposta dell'Olivi come se fosse stata una ed inscindibile. Proprio così egli disse.

Io tentai di non ricordare ma non fu possibile perché c'erano dei testimoni e dovetti ritirarmi sconfitto una volta di più.

Ci fu un'altra cosa che per qualche giorno aggravò la mia posizione. Mio figlio Alfio, il pittore, ebbe per breve tempo dei dubbi sulla possibilità della sua strana pittura e si guardò d'attorno alla ricerca di un'altra occupazione. Fra altre cose pensò di dedicarsi al commercio, di mettersi in società con l'Olivi. Ma si trovò che nel contratto c'era una clausola che glielo proibiva. «In fondo» brontolò Alfio che non brilla per essere molto riguardoso «questa era un'eredità del nonno e non bisognava lasciarla toccare».

Io allora passai qualche giorno a studiare quali concessioni avrei potuto offrire all'Olivi per ottenere il permesso per Alfio di collaborare nel suo ufficio. Pensavo di comperare tale permesso con una ingente somma di denaro. Ma intanto Alfio non ci pensava già più ed era ritornato a sporcare con la sua tempera innumerevoli fogli di carta. Io tuttavia mi sentivo suo debitore, ciò che mi rese anche più riguardoso nelle mie già difficili relazioni con lui.

E un giorno ebbi l'avvilimento di apprendere che all'infuori del contratto, in opposizione a tutte le sue precauzioni, Valentino era riuscito ad ottenere una concessione importante dall'Olivi: Egli avrebbe passato ogni sera un'ora nell'ufficio a rivedere per conto mio le registrazioni confrontandole coi documenti originali.

              

               LE CONFESSIONI DEL VEGLIARDO

4 aprile 1928

Con questa data comincia per me un'era novella. Di questi giorni scopersi nella mia vita qualche cosa d'importante, anzi la sola cosa importante che mi sia avvenuta: La descrizione da me fatta di una sua parte. Certe descrizioni accatastate messe in disparte per un medico che le prescrisse. La leggo e rileggo e m'è facile di completarla di mettere tutte le cose al posto dove appartenevano e che la mia imperizia non seppe trovare. Come è viva quella vita e come è definitivamente morta la parte che raccontai. Vado a cercarla talvolta con ansia sentendomi monco, ma non si ritrova. E so anche che quella parte che raccontai non ne è la più importante. Si fece la più importante perché la fissai. E ora che cosa sono io? Non colui che visse ma colui che descrissi. Oh! L'unica parte importante della vita è il raccoglimento. Quando tutti lo comprenderanno con la chiarezza ch'io ho tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata. Metà dell'umanità sarà dedicata a leggere e studiare quello che l'altra metà avrà annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita orrida vera. E se una parte dell'umanità si ribellerà e rifiuterà di leggere le elucubrazioni dell'altra, tanto meglio. Ognuno leggerà se stesso. E la propria vita risulterà più chiara o più oscura, ma si ripeterà, si correggerà, si cristallizzerà. Almeno non resterà quale è priva di rilievo, sepolta non appena nata, con quei giorni che vanno via e s'accumulano uno eguale all'altro a formare gli anni, i decenni, la vita tanto vuota, capace soltanto di figurare quale un numero di una tabella statistica del movimento demografico. Io voglio scrivere ancora. In queste carte metterò tutto me stesso la mia vicenda. In casa mi danno del brontolone. Li sorprenderò. Non aprirò più la bocca e brontolerò su questa carta. Io non sono fatto per la lotta e quando mi fanno intendere che non capisco più bene le cose invece che negare e cercar di provare che sono ancora capace di dirigere me stesso e la mia famiglia correrò qui a rasserenarmi.

Avrò la sorpresa di trovare me che qui descrivo molto differente da colui che descrissi anni or sono. La vita, benché non descritta, lasciò qualche segno. Mi pare che col tempo un po' si rasserenò. Mi mancano quegli sciocchi rimorsi, quelle spaventose paure del futuro. Come potrei spaventarmene? È quel futuro quello ch'io vivo. Va via senza prepararne un altro. Perciò non è neppure un vero presente, sta fuori del tempo. Manca un tempo ultimo nella grammatica. È vero che la storia dell'operazione di ringiovanimento mi parve tanto importante. Ma decisa in un momento di bizza io mi avviai poco convinto, stralunato, sempre pronto a ricredermi, sempre con l'orecchio teso per sentire se mia moglie, mia figlia o mio figlio si fossero messi all'ultimo momento a strillare per fermarmi. Nessuno fiatò probabilmente tutti desiderosi di assistere ad un'esperienza tanto strabiliante che a loro non costava nulla. Ed io m'adattai soffrendo e celandolo. M'ero compromesso dapprima con mia moglie e mia figlia cui avevo gridato il mio volere per spaventarle o per punirle, poi, al telefono anche col dottore sempre allo scopo di spaventarle e punirle meglio, e finii contro ogni mio desiderio sul tavolo d'operazione. Poi venne quella foruncolosi che mi tiene in camera da un mese.

Ma del resto la vecchiaia è il periodo calmo della vita. Tanto calmo ch'è difficile registrarlo. Da quale parte afferrarlo per descrivere quello che precorse all'operazione? Dopo è facile. L'aspettativa della giovinezza voluta dall'operazione fu una specie di giovinezza, qualche cosa ch'ebbe la facoltà di creare un periodo tant'è vero che io so descriverlo coi suoi grandi dolori e grandi speranze. Ed io vedo ora la mia vita iniziarsi con la mia fanciullezza, passare alla torbida adolescenza che un bel giorno s'acquietò nella giovinezza – qualche cosa come una disillusione – la quale poi piombò nel matrimonio, una rassegnazione interrotta da qualche ribellione, e passò alla vecchiaia di cui la caratteristica principale fu di farmi entrare nell'ombra e togliermi la parte di protagonista. Per tutti, per me pure io oramai vivevo perché gli altri, mia moglie, mia figlia, mio figlio e mio nipote avessero maggiore rilievo. Poi venne l'operazione e tutti mi guardarono con ammirazione. Io m'agitai, ritornai a qualche tratto di vita, molto simile a quelli ch'erano i miei propri, voglio dire quelli di quella vita che non aveva avuto bisogno di operazioni, la naturale, quella che hanno tutti, e l'agitazione finì col portarmi a questa carta che mi pare non avrei mai dovuto abbandonare. Questo rimprovero che mi faccio mi pare fondato, ma in fondo non è più ragionevole di quello che si faceva quell'altro vecchio che credeva d'essere appassito perché aveva lasciate le donne. Io ora scrivo perché devo mentre prima la penna in mano m'avrebbe fatto sbadigliare. Perciò io penso che l'operazione abbia pur avuto un effetto salutare.

                   I

E dovrei cominciare con la storia al punto a cui la lasciai: La guerra finita come tutti sanno, io aspettavo di associare al trionfo di tutti anche il mio particolare: Aspettavo di vedere il vecchio Olivi per fargli vedere quello ch'io avevo saputo fare senza di lui nei miei affari. Ma il vecchio che mai ne aveva voluto sapere di me, per non dovermisi inchinare morì a Pisa di grippe quando già m'aveva avvisato il suo arrivo ed io gli avevo scritto quali sarebbero state d'ora in avanti le sue mansioni. La direzione degli uffici, mentre sarebbe stata mia incombenza la direzione degli affari. Lo aspettavo con qualche ansietà: Se lui fosse arrivato in tempo, forse mi sarebbe stata risparmiata una grave perdita: L'acquisto di tutti quei vagoni di sapone a Milano ove si aspettava l'apertura delle frontiere per fare un affare colossale. Di fronte a tale affare io mi trovavo con la mia pratica degli affari di guerra, mentre l'Olivi aveva pur tuttavia anche un'altra pratica che ad armistizio concluso poteva aver valore. Io acquistai quella parte della partita che mi parve ingentissima e, secondo il costume di guerra, credetti di non aver urgenza della sua vendita. Se tutti avevano bisogno di lavarsi! Bastava andare in una tranvia a Trieste per sentire una puzza intensa che io fiutavo con delizia perché mi rassicurava sull'esito della mia operazione. Quando appresi della morte dell'Olivi mi arrabbiai un pochino: S'era sottratto alla sua disfatta! Più tardi ne ebbi piacere perché del mio sapone a Trieste non ne volevano sapere: Non si lavavano più? E sarebbe stato triste veder arrivare l'Olivi per constatare che gran parte degli utili di guerra erano andati a finire nell'operazione fatta durante l'armistizio. Rimasi sempre solo nella liquidazione di quell'affare. Non potevo rimproverarmi nulla. Il mondo s'era evoluto tanto rapidamente ch'io ne ero caduto fuori e navigavo in un paese ignoto. Il sapone comperato a Milano non aveva il contenuto di grasso prescritto a Trieste dalle leggi austriache che qui reggevano tuttavia il paese ad onta della presenza delle truppe italiane. Allora vendetti il sapone a fido a tre mesi ad un austriaco che partì per ritirarlo a Vienna. Colà non so se per bisogno urgente o perché la merce non corrispondeva il sapone fu subito confiscato. Passò per le mani di un ufficio che finì poi per pagarlo integralmente. Ma le corone arrivarono qui quando non si potevano più cambiare. Ritornarono in Austria riscattate per poche lire.

È l'ultimo affare ch'io m'abbia fatto e ne parlo ancora talvolta. Non si dimentica né il primo affare, fallito per troppa innocenza, né l'ultimo, la catastrofe della furberia troppo grande. E non lo dimentico neppure perché vi si associò un po' di rancore. Poco prima della liquidazione di quest'affare era ritornato dalla guerra il giovine Olivi. Il giovine occhialuto era tenente e aveva il petto fregiato da qualche medaglia. Accettò senz'altro di riassumere nel mio ufficio il suo posto antico, alle mie dirette dipendenze. Io subito m'abituai ad un posto molto comodo di regnante che non governa. E presto dei miei affari non seppi più niente. Leggi e decreti piovevano ogni giorno in Italia scritti con uno stile impossibile: Di ben preciso non c'era che il numero che designa il nostro re. Lasciai che di bolli (fu allora che la nazione si mise a leccare tanti bolli) e documenti si occupasse il solo Olivi. Poi quell'uomo mi divenne molto antipatico e perciò evitai quell'ufficio. Parlava molto dei suoi meriti e delle sue sofferenze di guerra e non trascurava alcun'opportunità per rimproverare a me di non aver collaborato alla vittoria.

Parlando sempre del sapone e delle corone rincasate troppo tardi, io dissi un giorno: «Ma ci sarà qualche cosa da fare contro quei viennesi? La guerra non l'abbiamo vinta noi?» Egli si mise a ridermi in faccia. Ed io sono convinto che per provarmi che la guerra io non l'avevo vinta egli non fece alcun passo per costringere gli Austriaci a indennizzarmi del mio sapone.

Del resto egli continua con tutta la sua onestà ad attendere ai miei affari. Ama anche mio figlio Alfio il quale quando aveva cessato di frequentare il ginnasio andò qualche volta nel mio ufficio a farvi la pratica. Poi cessò quando cominciò a dedicarsi alla pittura, ma era evidente che all'Olivi una sorveglianza non era dispiaciuta.

E non gli dispiacque neppure la sorveglianza di mio genero Valentino. Quello era un lavoratore! Attendeva tutto il giorno alla direzione dei suoi affari ed ogni sera dedicava più di un'ora alla revisione dei libri dell'Olivi. Poi, purtroppo, ammalò e morì, ma intanto, in conseguenza dell'opera sua, io devo avere per il figlio dell'Olivi la stessa fiducia che io e mio padre avevamo dedicata al padre suo. Anzi, si può dire, maggiore, perché in fondo il vecchio Olivi non fu sorvegliato in alcun'epoca della sua vita tanto esattamente. Mio padre, credo, non abbia saputo niente di computisteria, poi andavo di tempo in tempo in ufficio, ma piuttosto per attendere agli affari miei che per sorvegliare quelli degli altri. Eppoi, evidentemente, io non sono mai stato un revisore. So fare, immaginare cioè e anche condurre a termine degli affari, ma quando gli affari sono già fatti si sciolgono in tanta nebbia ed io non so registrarli. Credo sia questo ciò che avviene a tutti i veri uomini d'affari, che altrimenti, dopo fatto un affare non saprebbero immaginarne un altro. Intanto non andai più in ufficio. Sono qui pronto. Se capita un'altra guerra mi rimetterò al lavoro.

E giacché lo nominai parlerò di Alfio. Mi fa bene di raccogliermi perché io davvero non so come trattare con lui. Mi capitò a casa dopo la guerra, un ragazzone di 15 anni tutt'altra cosa di quel fanciullo ch'era partito, allampanato, lungo, trascurato nel vestire. Vidi subito una distrazione in lui, l'incapacità di continuar a far oggi quello che aveva iniziato il giorno prima, delle qualità insomma che io conoscevo e che in me erano state curate radicalmente dal grande uragano. Pensai che sarei stato attento di non cadere nei difetti di mio padre e che avrei saputo trattare altrimenti mio figlio. Ma Dio mio! Guai se a mio padre fosse toccato un figlio simile. Io ero tanto meglio preparato di lui dalla mia cultura e dalla mia vita attiva a sopportare delle novità eppure non sapevo come guardarlo, come sopportarlo. Io gli lasciavo fare tutto quello che voleva. Abbandonò il Ginnasio subito dopo la riforma Gentile che poco gli confaceva ed io non protestai con una sola parola. Gli dissi solamente che così egli perdeva la possibilità di acquistare un rango accademico con tono un po' commosso; perdevo anch'io una speranza. Gli parve un'intromissione inammissibile e disse che fra me e lui c'era non solo una differenza d'età ma molto di più. La guerra ci divideva. Ci trovavamo oramai in un mondo nuovo cui io non appartenevo perché nato prima della guerra. A me pareva di essere nel caso d'intendere tutto a questo mondo e al sentirmi dare dell'imbecille m'arrabbiai.

A dire il vero il nostro dissidio fu fomentato da altri. Scoppiò tale dissidio una domenica dopo pranzo. Eravamo riuniti insieme mia moglie, mia figlia Antonia, Valentino e Carlo, il figlio di Ada e Guido che studiava la medicina a Bologna e si trovava da noi per le vacanze. Cominciò Carlo che voleva dissuadere Alfio dall'abbandonare il Liceo asserendo con semplicità che il Ginnasio e Liceo erano alquanto grevi ma che poi l'Università era più gradevole. «Vi si studia» diceva Carlo, «ma non è il caso di accorgersene». Io ero alquanto di malumore. La dieta vegetariana impostami dal dottor Raulli, m'è più ostica di domenica quando vedo intorno a me divorare delle carni di pollame scelto. Ma sono sicuro di non aver messo nella discussione il tono amaro dell'uomo sacrificato. Fui il più mite di tutti. Solo non m'era possibile di respingere tanti alleati che volevano tenere Alfio nella direzione che avrei voluto anch'io e alla quale io solo non sapevo costringerlo. Subito Valentino, un burocrate che credeva a questo mondo sia facile di dare la prova di ogni cosa e che quando s'è fatto un conteggio preciso si è arrivati a capo di tutto, fu troppo aggressivo. Disse che ognuno a questo mondo doveva saper sacrificarsi, per il proprio futuro, per la propria dignità, per la propria famiglia. Era così, non v'era dubbio. Chi non sapeva acconciarsi ad una cosa simile, l'avrebbe poi rimpianto. Egli lo sapeva perché l'aveva visto spesso. Non era della propria esperienza che poteva parlare perché lui, da bel principio, aveva inteso tutto e aveva dalla sua prima giovinezza fatto tutto quello che occorreva per garantire il proprio futuro.

Carlo canzonò un po' Valentino: «Certo è possibile di trovare a questo mondo della gente che invece di pensare sempre al futuro preferisce il presente. Sono due tempi di cui l'uno vale l'altro in grammatica. Libero ognuno di preferire l'uno o l'altro».

Fu uno scherzo ma credo abbia avvelenato la discussione. Alfio non si associò a Carlo – da cui era tanto differente – ma volle allontanarsene di più, e perciò cadde più pesantemente addosso a Valentino: «Non tutti a questo mondo possono intendere tutto. Si capisce che un impiegato non possa intendere un artista... E neppure un medico lo può».

In quanto a Carlo che aveva ereditato da suo padre Guido tanti difetti ma non la mancanza di spirito che lo rovinò, capace come era stato di fare i bilanci più ridicoli senza saperne ridere, se la cavò con indifferenza nell'atto di portare il bicchiere alle labbra: «Certo, noi medici degli artisti non possiamo intendere che gli accidenti che li colpiscono di tempo in tempo. È vero che allora finalmente non sono più artisti e non rompono le tasche al prossimo».

Valentino tacque. Era un timido. Da qualche giorno s'era occupato dei miei bilanci e credeva proprio di essere stato delegato a sorvegliare il buon andamento di tutta la famiglia. S'era ingannato ed era dispostissimo a ricredersi dopo una timida protesta rivolta ad Alfio: «Io non posso dire altro che i consigli che mi sono suggeriti dalla mia esperienza».

Ma Emma fu terribile. Di solito essa era abbastanza materna per Alfio, ma ora vedeva attaccato il proprio marito. Le pareva un atto di disprezzo verso il proprio marito anche la leggerezza superficiale con cui Carlo parlava della cosa cui Valentino s'era dedicato con tanta gravità. Si fece violenta perché rimproverò me che lasciavo tanto libero di fare delle sciocchezze al mio figliolo (io alzai le braccia in alto come per invocare l'aiuto di Dio) e rimproverò Alfio di credersi superiore a qualcuno a questo mondo: Una presunzione di cui prima o poi si doveva pentire. Perché non voleva finire almeno i suoi studii medii? Sarebbe stato inferiore a tutti per tutta la vita. Eppoi quando trovava qualcuno disposto a dare dei buoni consigli non si poteva e doveva rispondere villanamente.

E da questa questione in cui io ci entravo come i cavoli a merenda risultò proprio un rancore di Alfio per me. È vero che io non seppi appoggiarlo, anzi è vero ch'io non seppi astenermi dall'associarmi agli altri. Dio mio! È una cosa grave vedere il proprio figlio rinunziare da bel principio alla via che percorrono quelli che lo possono. D'altronde non potevo correre il rischio di aggravare la posizione di Valentino già dolorosa per Emma. M'ero proposto da tanti anni di fare in modo che non si ripetessero fra me e mio figlio le relazioni che c'erano state fra me e mio padre, ed ecco che si accennava proprio a passare per di . A quello scopo avevo fatto in modo che non ci fossero fra di noi eccessive manifestazioni di affetto come quella dolorosa ansietà manifestata da mio padre al momento di morire per il mio avvenire, in quel momento, quando già tanto soffriva, equivalente ad un bacio appassionato che poi, certamente, aveva provocato quella mia dolorosa lunga malattia, una malattia che anche dopo guarita, m'aveva fatto vedere il sole meno chiaro e sentire l'aria pesante.

A questo scopo m'ero proposto di evitare fra me e mio figlio le grandi effusioni d'affetto, e, da parte mia, imposizioni da patriarca. Le effusioni furono evitate con grande facilità nella sua prima infanzia tanto più che io non seppi mai sopportare ì rumori incomposti dei bambini. In quanto alle imposizioni non si poté evitarle del tutto. Quando Augusta non ne poteva più invocava il mio aiuto ed io intervenivo con un grosso urlo che tagliava ogni questione. Ma era una cosa breve di solito rivolta a lui e alla sorella senza discriminazione come il rimprovero di un generale a un corpo d'esercito e che cancellavo subito con una parola di scherzo che dimostrava la mancanza di ogni rancore. M'astenni sempre, religiosamente, dal domandare loro degli atti di contrizione. Per Emma sono sicuro di aver raggiunto lo scopo: Essa potrà vedermi morire con piena serenità e continuare la sua vita accanto a suo marito e a suo figlio come se io non ci fossi mai stato. E verrà anche lieta a portare sulla mia tomba dei fiori ad ogni anniversario con la convinzione di darmi tutto il piacere cui ho diritto.

Ma per Alfio lo sono meno. Io so che non fa una grande stima di me. Per lui, artista, un buon commerciante è un bestione di cui non va tenuto conto. Sono proprio questi i giudizi che poi la morte rettifica. Eppoi mentre sarebbe stato tanto facile di aver dei rapporti chiari con mio padre col quale vivevo solo e le complicazioni non potevano essere molte perché derivavano solo da me e da lui, qui una folla di gente si frammette ad oscurare i nostri rapporti. Per citare un solo caso restiamo alla discussione di quella domenica. Una volta alzai le braccia con un atto che, come nessun altro, è del patriarca e lo feci per calmare Emma. Poi non seppi lasciare che mio figlio provvedesse alle cose sue perché intervenni con un ammonimento che scusai col mio affetto mentre era un riguardo per Valentino.

Insomma Alfio è un giovine ch'è per me molto più difficile di quanto non sia stato mai io per mio padre. Mio padre mi rimproverava di ridere di tutte le cose ed anche mio figlio mi rimprovera la stessa cosa. Lasciando stare l'amarezza che deve provocare in me tale accordo l'imposizione di mio figlio mi è molto più dura di quello che mai fu quella di mio padre, che in fondo mi faceva ridere, mentre quella di mio figlio è proprio efficace, dura. Io mi faccio serio e quando mi capita una bizzarria in testa faccio del mio meglio per eliminarla. Sparisce ed io le guardo dietro con rimpianto. Taciuta perde ogni efficacia e la vita trascorre più monotona e triste.

Io credo in verità che mio figlio ce l'abbia con me e anche con sua madre. Ad ogni lieve dissidio si sente stridere un risentimento nella sua voce un po' debole. Subito dopo la guerra ce l'aveva con noi in nome del comunismo. Egli non era affatto comunista ma trovava sinceramente che noi eravamo dei malfattori perché occupavamo tanto spazio a questo mondo (tante stanze nella nostra casa) e perché sequestravamo tanta parte di patrimonio che sarebbe stata utile a tutti. Augusta tremava all'idea che forse un giorno egli sarebbe arrivato a casa con degli inquilini nuovi. Ma egli non conosceva a questo mondo alcun operaio. Camminava per le vie solitario in quella volta occupato della giustizia sociale, poi subito dopo con lo stesso passo dell'arte, della personalità. E fu che io un poco risi di lui, ed ebbi torto. Si parlava solo di teorie perché egli ancora non dipingeva. Questa storia della personalità mi pareva un eccesso, una presunzione. Bisognava tendere alla personalità amabile, alla personalità seducente, per dire qualche cosa. Ma personalità sola! Si mettevano talora all'ergastolo ed erano vere personalità. «Che personalità» dicevo del nostro Giacomo, un guardiano notturno che recentemente avevamo preso per avere meglio sorvegliata la nostra villa in epoche tanto torbide. Giacomo era una personalità vera, in complesso. Quando era pieno di vino era bestia come un ubbriaco ma non sapeva costringersi ad eroiche finzioni: Appariva bestia ma non ubbriaco. Non traballava e il suo incedere era il solito, un po' rigido ma su una linea retta. Non volli mai mandarlo via. Faceva il suo dovere, sempre desto. Del resto non ebbe mai nulla da fare e ci lasciò sempre tranquilli perché mai avvenne nulla di speciale. Una vera personalità.

Ma Alfio s'arrabbiò e, come al solito, per spiegarsi più chiaramente m'insultò. Io mi feci un po' selvaggio anch'io e minacciai di diseredarlo. Il dissidio durò per molti giorni e Augusta corse più volte dall'uno all'altro per spiegare, attenuare, accordare. A me l'ira era già passata ma Alfio finì, per compiacere la madre, col domandarmi scusa, ma poi non me la perdonò più. A dire il vero io sono sempre molto occupato e non ci avrei pensato tanto, ma mi dispiaceva di vederlo turbarsi quando mi vedeva. La morte incombeva sempre più vicina su me e compiangevo Alfio al pensiero che gli sarebbe potuto toccare l'avventura che aveva offuscata la mia giovinezza. D'altronde compiangevo me, se l'unico mio figliuolo al vedermi morto avesse dovuto dare un suono di sollievo e detto: Uff! E Alfio era di una radicale sincerità di quelle che esigono la parola precisa. Mentre io avrei voluto morire compianto benché con la moderazione voluta.

Augusta mi raccontò che Alfio si dedicava solitariamente alla pittura. Usciva alla mattina di casa con la sua mappa sotto il braccio e i suoi colori a tempera. Si portava con sé qualche cosa da mangiare. Non aveva nessuno che gl'insegnasse per paura che un maestro riuscisse a falcidiare la sua personalità. Quando il sole era calato ritornava a casa stanco morto. Tuttavia usciva ancora una volta e andava a discutere di pittura coi suoi amici al caffè. Aveva ereditato da me solo questa parte della sua giornata. Il resto non era mio, ma non era neppure del nonno che gli avevo scelto e neppure della nonna. Dove era andato a fornirsi di quella sua pittura, e di quella sua solitudine? La personalità? Io che avevo invano tentato di somigliare agli altri non ci avevo mai pensato. La ribellione? Quando ne sentii il desiderio me ne pentii subito. E suo nonno Giovanni non seppe che cosa fosse, lui che tanto comodamente, grosso e grasso come era, sedeva sulla schiena degli altri. Sentire innata la ribellione, come avveniva ad Alfio, è un vero segno di debolezza.

E anche la sua figura egli la aveva inventata perché nessuno dei suoi antenati la aveva avuta. Lungo, allampanato, una linea curiosa dal tronco che tende a retrocedere, si pente più in su e per avanzare forma una rotondità che non è una gobba, mandando la testa in avanti che perciò non è mai bene eretta e costringe i suoi occhi a volgersi in alto per guardare in faccia l'interlocutore della sua stessa statura. Non è bello ed io lo so perché altri me lo dissero. Ma io ed Augusta ammiriamo la sua faccia bianca e dolce. Già è tutt'altra cosa conoscere intimamente un individuo che vederlo passare per una volta tanto con le sue imperfezioni evidenti. Noi sapevamo la forza e la debolezza di Alfio. Le sue gambe lunghe portavano non solo delle forme. E parlavamo spesso con Augusta della magnifica espressione degli occhi intensamente azzurri di Alfio di cui uno era un po' fuori di posto ma non tanto come quello di sua madre, degli occhi azzurri che domandavano aiuto e appoggio poverini, fuori di posto costretti a uno sforzo per vedere anche quando la sua bocca inventava delle brutte parole, tolte dai libri di Marx ch'egli non aveva letti e in cui non credeva.

Mi parve urgesse fare la pace con lui. Un giorno mi sentii peggio del solito: Mi minacciava un colpo, una di quelle avventure che tolgono la parola, l'udito, la vista, quando non si portano via l'intera vita. Il colpo s'annunciava per certi rumori negli orecchi. Se una volta m'era stata constatata una pressione di 230 mm.! E mi commossi all'immaginare il povero Alfio davanti al mio cadavere mormorare come feci io a suo tempo: «Ecco, oramai, la mia vita è finita».

Andai da lui di sera non appena seppi ch'era rincasato e si vestiva per andare al caffè. Aveva uno studiolo all'altro lato della casa, povero di luce, ma messo da Augusta civettuolmente.

«Si può?» domandai esitante dopo di aver aperto a metà la porta. Vidi subito Alfio dinanzi allo specchio che si annodava la cravatta e si guardava di sotto in su. Una grande espressione di sincerità è quella di guardare se stesso nel medesimo modo in cui si guardano gli altri.

Egli si volse a me con la cravatta pendente sulla camicia non fresca. Parve stupito ed ebbe un atto di riguardo: «Ti sei disturbato papà? Non potevi chiamarmi?».

Sollevato mi misi a ridere: «È per un affare ed è meglio lo trattiamo da soli. Io so da tua madre che tu ogni giorno arrivi a finire un intero quadro. Non potrei averne uno?»

Mi guardò dubbioso, diffidente col suo occhio pur sempre supplichevole: «Ma padre mio! È un'arte che non è per tutti. È un'arte nuova. Bisogna intenderla. Essendo nuova è rude, è la raccolta di segni quasi non sorvegliati di un'impressione».

«E che mi fa questo?» risi io. «Arte che sia vecchia o nuova si può comperare. Si fa per venderla. Vendi a me un tuo lavoro. Sarò il primo tuo cliente».

Parve fosse in procinto di protestare e invece, dopo una breve riflessione, annuì. Poi timidamente disse qualche cosa che doveva essere una cifra.

«Quanto?» domandai forzando un po' la voce.

Egli mi guardò esitante, rosso fino alle orecchie. Intesi ch'egli credeva io volessi discutere la sua cifra. Proprio mi spaventai. E se egli adesso avesse ridotto il suo prezzo per compiacermi e gliene fosse derivato il rancore che resta a tutti coloro che sono costretti a ridurre i prezzi? Dove si andava con la conciliazione?

Mi feci supplichevole: «Io sono vecchio e non sento bene. Dimmi quanto vuoi. Io pago tutto quanto desideri per avvicinarmi a te, alla tua arte. Appenderò il tuo lavoro sulla parete del mio studio e lo guarderò ogni giorno. Finirò coll'intenderlo anch'io. Io sono meno cretino di quanto mi credi. Sono vecchio, questo è certo. Ma perciò ho qualche esperienza. È vero che di pittura mai mi occupai. Ma di musica. Arrivai recentemente persino a sopportare Debussy. Non ad amarlo. Mi pare faccia delle cose che sono esplose poco prima per lo scoppio di una bomba. Fumano quei frammenti ancora ma fra di loro non c'è altra analogia».

Io credo ch'egli si sia deciso a compiacermi in seguito al mio sproloquio su Debussy.

Risoluto fece la sua cifra: Ottocento lire.

Io trassi di tasca una carta da mille e con l'aspetto dell'uomo d'affari accurato gli dissi: «Mi devi duecento lire». Poi simulando una certa impazienza: «E il lavoro?».

Mi diede le duecento lire. So, che coi denari egli ha un'accuratezza che non sta in relazione alle sue idee scomposte sulla ricchezza. In questo mi è superiore di molto ed io mi compiaccio di tale sua superiorità ch'è molto ammirata da sua madre. Non spende nulla ciò che potrebbe avvicinarlo ai suoi simili poveri, ma ha il portamonete sempre ben fornito ciò ch'evidentemente ne lo allontana.

In quanto al lavoro non ancora si decise di darmelo. Me l'avrebbe portato di a dieci minuti. Voleva scegliere il miglior lavoro che avesse. Evidentemente per pudore non voleva farmi vedere i suoi imparaticci.

Andai alla porta, ma poi ritornai a lui. «Vedi» incominciai «noi due siamo soli a questo mondo». Mi fermai spaventato di aver la stessa parola che con tanta maggior verità era stata detta da mio padre e mi corressi. «Voglio dire che siamo i soli uomini dello stesso sangue in questa casa. Perché non avremmo da intenderci? Io farò sempre ogni sforzo per avvicinarmi a te. Vuoi imitarmi? Non posso insegnarti più nulla e non voglio avere l'aria di un precettore. Io sono troppo vecchio per insegnarti e tu sei troppo vecchio per apprendere. Hai la tua personalità, tu, e devi fare del tuo meglio per asserirla».

Lo baciai sulla guancia ed egli, confuso, baciò l'aria. «Sì, babbo» disse commosso.

Gaiamente m'avvicinai alla porta: «Devi portare dei chiodini per affiggere subito il tuo lavoro alla parete. Sai che una cosa simile io non so farla per bene».

«Ma un dipinto ha bisogno di una cornice» disse egli. «La compererò io domani. Piccolina, modesta, per il piccolo modesto lavoro»,

«Sta bene» dissi, «ma intanto voglio cominciare subito a studiare il tuo lavoro. Tu saprai affiggerlo senza danneggiarlo».

Nei dieci minuti nei quali attesi Alfio fui agitato. Mi pareva di aver compiuta una grande cosa, importante per me, per lui, per la famiglia. E pensai anche che mio padre non avrebbe saputo fare altrettanto. Eppure fra me e lui non c'era stata la grande guerra! Macché guerra! Era questione solo d'intelligenza per saper raggiungere l'altra generazione. Ma della guerra mi ricordai quando vidi il dipinto un quadratino di carta. Lo guardai oltre le spalle di Alfio che era intento a inchiodarlo sulla parete. «Grazie, grazie tante» dissi. Egli stette a guardarlo per un istante, ammirando. Ed io imitai il suo atteggiamento. Poi egli se ne andò col suo passo molle.

Ritornato al dipinto, pensai: "M'ha truffato. Mi diede il peggiore dei suoi lavori". Non è mica un brutto sentimento quello di scoprire nel proprio figliolo un abile commerciante. Mi rassegnai.

Dapprima fu una cosa spiacevole avere dinanzi agli occhi quello sgorbio. Prima di averlo veduto avevo pregato Alfio di appenderlo in modo ch'io potessi scorgerlo quand'ero seduto al mio tavolo. In questo Alfio fu abilissimo. Non soltanto lo vedevo quando era seduto, ma anche quando mi sedevo per leggere con la lampada dietro alla schiena ed anche quando mi sdraiavo sul sofà per riposare se non m'adattavo a posare sul fianco sinistro – ciò che non sopporto come non lo sopportava mio padre – e mettere il naso contro il muro. Ma anche allora sentivo la presenza del mostricciatolo in camera.

Davanti a quel dipinto arrivai alla convinzione che nella nostra famiglia (composta da me, mio padre e mio figlio) io ero proprio un'eccezione per il mio equilibrio assennato.

Il quadro non si poteva rimuovere senza correre il pericolo di disgustare di nuovo Alfio. Venne la cornice e il quadro rimase al suo posto per quanto io avessi timidamente proposto di spostarlo per farlo fruire di una luce migliore. Alfio, con aria di competenza, dichiarò che apparteneva proprio a quel posto. Lo guardò ancora una volta con affetto ammirandolo nell'isolamento in cui lo metteva la cornice e uscì.

Certo, la cornice era come un commento. Io credo che qualunque cosa quando si circonda di cornice acquista un nuovo valore. Bisogna isolare una cosa perché diventi una cosa sola. Altrimenti viene offuscata dalla maggiore evidenza di quanto le giace accanto. Anche il quadro di Alfio divenne qualche cosa. Lo guardai dapprima con ira, poi con compatimento incominciando a intendere quello che Alfio aveva voluto fare e infine con ammirazione scoprendo tutt'ad un tratto ch'egli veramente aveva fatto qualche cosa.

Intanto era evidente che Alfio aveva voluto fare una collina. Non v'era dubbio. I colori non s'erano alterati né per la lontananza né per l'altezza ma quando compresi e amai quel dipinto arrivai veramente a conclusioni che mutavano tutto l'aspetto dell'aria di questo mondo. Sulla collina erano state costruite o si aveva avuto l'intenzione di costruire tre file di case parallele. E studiando ebbi il sentimento gradevole di collaborare attivamente con Alfio. Dipingevo anch'io. In basso la via era segnata da qualche pennellata di color viola. Non era il solito colore del suolo. Ma insomma era facile intendere che quello doveva essere il suolo. Al di sopra c'era la prima fila di costruzioni: Un lungo muricciolo giallo e in un canto una sola casa, con la sua parte più alta gialla anch'essa, di sotto lasciata nuda bianca, il colore della carta. Ma questa casa era la più abitabile di tutte. Le mura veramente perpendicolari, era esattamente quadra, col solo difetto di aver poche finestre, due al secondo piano ed una al primo, ma quelle munite di regolari persiane di un color grigio che più tardi veramente amai. Questa certamente era la casa domenicale. Al di di questa prima fila c'erano delle altre pennellate di quel color violaceo che – come risultava dalla chiave fornita dal quadro stesso – segnava di nuovo una strada. E c'erano poi altre due file di case divise dallo stesso color violaceo che per la distanza, cioè per esser visto meglio si rinforzava. Ma che case, mio Dio! C'era dentro tutta la compassione di un poeta per delle povere case derelitte, un pianto contenuto. Quasi tutte le mura erano perpendicolari ma le case mancavano di finestre e dove le avevano erano decisamente nere e informi proprio per denotare che quelle finestre mancavano di persiane e anche di lastre. Invece che riverberare la luce di fuori, ne usciva la tetra oscurità dell'interno.

Non si ha un'idea come ci si possa abituare a tutto a questo mondo. Io amai quel quadro e quando alzavo la mia faccia dal libro (riprendevo allora la mia coltura filosofica e studiavo Nietzsche) proprio mi faceva piacere di trovarmi dinanzi alla sintesi della vita come l'aveva sentita Alfio. Popolai quelle case. Nella casa domenicale misi dei padroni rozzi come la loro abitazione che sfruttavano gli abitanti delle case dalle finestre nere. Soltanto che in fondo, molto lontano, in alto, c'era un'altra casa ben piantata, quadra, benché dalle finestre nere che avrebbe potuto essere anch'essa una casa domenicale. Mi faceva pensare che essendoci due case domenicali la sorte delle altre case fosse peggiorata. Povere casine miti, pericolanti, in cui si soffriva! E c'erano anche dei tratti che segnavano che le case della poveraglia avrebbero potuto ancora moltiplicarsi. V'erano certe torricciuole sbandate che col tempo si sarebbero potuto adattare ad abitazioni.

Fu un periodo molto gradevole nelle mie relazioni con Alfio. Io, sinceramente lo ammiravo. Come facendo le sole persiane di una casa m'aveva indotto a costruire tutto un paesaggio! Era veramente un'arte la sua. Un'arte moderna, e intendendola io ringiovanivo.

Con una profonda soddisfazione ne parlai ad Alfio. Egli stette ad ascoltarmi. Però con la vigoria giovanile che lo distingueva interruppe le mie lodi che così andarono perdute: Il suolo visto da un dato posto e a quell'ora aveva proprio quel colore e non occorreva il coraggio ma l'occhio analizzatore del pittore per attribuirglielo. «Guarda, guarda meglio» mi disse.

Io volli riprendere la mia analisi e mi misi a parlare proprio di quelle case che non c'erano ancora, ma che si vedevano in formazione.

Egli protestò ridendo: «Ma quelle sono case, vere case e basta guardarle per indovinarle. Saperle guardare. Bisogna ricordare che la luce non sempre rivela ma talvolta nasconde, offusca. Guarda su quella casa che tu dici esserci ancora un lieve segno bruno che accenna all'esistenza di una finestra».

Mi parve più sopportabile il quadro che il commento. Continuai a guardarlo con piacere ma quando se ne parlava, usavo delle stesse parole che diceva Alfio e non mi curavo di dire esattamente quello che ne pensavo io. Ero però certo che finì che io su quel paesaggio avrei potuto mettermi a camminare con sufficiente sicurezza senz'aver da temere di smarrirmi. E il periodo aggradevole delle mie relazione con Alfio continuò per lungo tempo. Un po' turbato dal fatto che Alfio un giorno volle regalarmi un altro suo lavoro che io non volli appendere alla parete della mia stanza. Lo misi in un cassetto ed assicurai Alfio che ogni giorno lo guardavo. Non era vero: Io non potevo passare il mio tempo a popolare le casette sbilenche di mio figlio. Eppoi non c'era scopo di lavorarci intorno tanto, perché m'era poi interdetto di dire esattamente il mio parere e m'era anzi imposto di ripetere quello che ne diceva Alfio. Perciò era più facile di non guardare i suoi quadri.

Il periodo felice finì inaspettatamente. Proprio in un momento di grande gioia e proprio quando non me lo sarei aspettato. Avevo invitato a pranzo un mio vecchio amico, certo Cima che non avevo visto da quasi mezzo secolo. Nella vecchiaia tali incontri sono come in un libro stampato le parole messe in corsivo; hanno un rilievo tutto proprio. Per varie ragioni non avevo mai dimenticato Cima. Era un meridionale latifondista ch'era venuto giovinetto a Trieste a studiarvi il tedesco. Erano errori che si facevano allora nell'Italia Meridionale e il giovinetto apprese con facilità il triestino. Impiegò poi le sue giornate a fare la corte alle donne e andare a caccia e a pesca. Era più ricco allora di quanto lo fosse stato mai più nel corso della sua vita.

Non potevo averlo dimenticato perché aveva rappresentato nella mia vita varii insuccessi ma anche un successo. Ed io che nel giudizio sulla mia vita intendo di essere severamente oggettivo, non dimenticai né gli uni né l'altro.

Il successo fu d'osservazione. Io, allora, studiavo economia politica. Ossia era l'epoca in cui studiavo legge ma ero arrivato a forza di diligenza di studiare troppa economia politica che doveva restare uno studio accessorio.

Questo latifondista era evidentemente un assenteista di cui la figura è tanto ben precisata nei libri di testo. Ed un giorno Orazio in mia presenza ricevette una lettera dal suo fattore. «Dal fattore» mormorò. Ancora adesso da vecchio egli mormora le parole che pensa, certo per movere meglio il suo cervello preciso ma lento. Poi, dopo letta la lettera, mormorò: «No». Ed io gli dissi: «Scommetto che il tuo fattore ti propose delle migliorie che tu rifiutasti». Ed egli confermò con sorpresa: «Come lo sai?». Io seppi indicargli il testo da cui l'avevo appreso.

Gl'insuccessi sono tanti che tutti naturalmente non ricordo. Una volta lo indussi a cessar di fumare con me. Io naturalmente subito m'arresi. Egli invece nel corso di una settimana sopportò tutte le avventure di caccia possibili, le buone e le cattive, e non mollò. Un giorno camminò sul Carso per 10 ore senza prendere una sola bestia e il giorno appresso in poche ore ne prese tante che dovette scendere in città per non caricarsi di troppo e il suo proposito rimase il medesimo. Una cosa sorprendente per me che dicevo che non arrivavo a cessar di fumare, perché i miei propositi si rammollivano per notizie belle, per notizie brutte o per mancanza assoluta di notizie.

Aveva una forza di volere che somigliava ad un'inerzia, ad uno stato d'essere, alla volontà dell'acqua di scendere dalla montagna. Quando gli si manifestava un proprio desiderio, se non collimava col suo, si faceva sordo. Una volta – lo ricordo come se mi fosse avvenuto ieri perché le grandi rabbie non si dimenticano più – io ero atteso da una donna che s'era potuta far libera per me alle sei di sera per un'ora soltanto. Alle tre commisi la leggerezza di montare in un calesse guidato da lui ed egli mi condusse a Lipizza. So ch'era una magnifica, chiara giornata autunnale ma io la ricordo oscura, piena di rabbia.

A una data ora si sarebbe potuto arrivare con comodità in tempo a Trieste, ma ad onta delle mie esortazioni egli, senza dirmelo, mi condusse a passeggio per il Carso, di cui io so tanto poco che credevo d'essere avviato verso Trieste. Quando arrivammo a Trieste io mi trovai in mezzo alla piazza ove egli mi sbarcò rammaricato dal desiderio e dal rimorso. E pieno d'innocenza Orazio mi disse: «Avresti potuto avvisarmelo al momento di partire». Io gliel'avevo detto ma era una di quelle cose per cui egli era sordo. Il tutto era avvenuto – come lo seppi poi – perché il veterinario gli aveva detto che il suo cavallo aveva bisogno di fare un dato numero di chilometri al giorno.

Ora ch'era ritornato a Trieste mi assicurò abbattuto che dopo tanta vita e tanti dolori mancava assolutamente di volere. Io l'assicurai dal canto mio ch'io non ero più l'uomo debole ch'egli aveva conosciuto. Io non seppi credergli perché quel giorno stesso mi parve d'essere tornato con lui a Lipizza ma trottando io stesso invece che facendomi portare dal cavallo. Volle l'accompagnassi di qui e di . «Ti accompagno poi a casa» mi diceva e intanto andammo da una Società d'Assicurazione ove egli doveva fare la dichiarazione che aveva cambiato domicilio, da uno speditore che aveva ancora in deposito qualche suo mobile e infine m'inflisse il vecchio Ducci. Il vecchio Ducci era rimasto sempre a Trieste come me, ma dalla nostra uscita da scuola a 18 anni non avevamo scambiato una parola. Io mi ricordavo che l'ultima volta che ci eravamo visti egli m'aveva detto che voleva andar a cercar fortuna al Giappone. Poi nella nostra piccola città ci eravamo visti quasi ogni settimana e ci eravamo salutati senza mai scambiare una parola. Inoltrandosi negli anni il nostro saluto si fece sempre più gentile. Creava fra di noi una certa intimità il fatto ch'eravamo soli in città a conoscerci da tanti anni. Ed io trovai naturale avesse rinunziato al Giappone avendo trovato la fortuna a Trieste. Ecco che ora eravamo in tre su quel marciapiedi su cui gravavano circa due secoli d'età. Ci guardavamo con simpatia negli occhi fattisi un po' vitrei ed io dimenticai per un momento la mia impazienza. Si rifece viva solo quando appresi che Ducci non si ricordava di aver mai avuto il proposito di recarsi al Giappone. Dio mio! Tutto si ribaltava a questo mondo per me che per tanti anni quando m'ero imbattuto in quell'uomo avevo pensato: Ecco l'uomo che quasi andò al Giappone. Che ci fosse stato un errore da parte mia e che qualcun altro, cinquant'anni or sono, m'abbia detto di voler emigrare? Ma poi avendo rivisto più volte il Ducci finché il Cima rimase a Trieste scopersi ch'egli faceva dei grandi progetti. Anelava di fare un viaggio in Norvegia. Certo era possibile che facendo tanti progetti di qui a 50 anni egli potesse aver dimenticato anche quello della Norvegia, mentre io che evito i progetti perché m'inquietano, avrei potuto – campandoricordarmi del suo tanto strabiliante.

Ma la prima volta che Cima fu a pranzo da me raccontò una storia antica della nostra giovinezza ch'egli non sapeva tutta, ch'io completai e che ci ubbriacò addirittura dal ridere e che m'indusse nell'abbandono della gaiezza ad offendere il mio povero Alfio in modo addirittura irreparabile.

Bisogna ricordare che quando il giovinetto Cima arrivò a Trieste io stavo guardandomi attorno per trovare degli esempi di forza e di risoluzione che mi guarissero della debolezza di cui cominciavo a soffrire tanto. Dove trovare un esempio migliore del Cima? Lui che aveva sempre quell'aspetto di padrone dove andava e, sebbene tanto meno intelligente di me, non conosceva imbarazzi e dubbi, poteva pur giovarmi. Certo aveva anche l'aspetto della giovinezza e della forza con quel suo barbino alla spagnuola, con quegli occhi neri e quei suoi capelli abbondanti e ricciuti. La bellezza e la forza non potevo imitare, ma non credevo che da quelle dipendesse l'ascendente ch'esercitava e che gli dava tanta tranquillità, tanta sicurezza, tanta felicità. Era il padrone perché si sentiva tale.

Intanto mi pareva che la pratica di ammazzare delle bestie dovesse aver contribuito a creare la forza del Cima. Era veramente la mia debolezza – la più forte – quella di non saper ammazzare delle bestie. Arrivava questo mio ribrezzo al punto – lo ricordo facilmente visto che qualche cosa di simile, attenuata, la sento tuttora – che una volta, di sera, prima di coricarmi, arrivai a dare un lieve colpo ad una mosca che mi tormentava. La bestiola, ferita, arrivò a sfuggirmi ed io invano la cercai volendo finirla per compassione. Non la trovai e durante la notte più volte pensai al povero animale che doveva agonizzare in qualche canto recondito della stanza pieno di dolore e di rancore. Allora, guidato dal Cima, risolsi di abituarmi a tali rimorsi. Pagai la forte tassa per il diritto di cacciare e tutto un bel costumino come si usava allora, da cacciatore con un cappellino piumato. Lo schioppo mi fu prestato dal Cima.

Si cominciò con una caccia in palude. Si andò a certe paludi presso Cervignano. Durante il viaggio io avevo tentato di riempire il mio cuore di odio per le bestie. In fondo quegli uccelli che io andavo ad uccidere erano predatori essi stessi. Vivevano di animali più piccoli di loro. Dicevasi anche che quando avevano da fare con una bestia pericolosa erano capaci di sollevarla in alto e lasciarla ricadere per ucciderla. Avevo poi scoperto che se io ammazzavo della selvaggina restavo tuttavia migliore del Cima il quale come un vero cane da caccia non gustava la selvaggina. Io almeno potevo poi soffocare i miei rimorsi con un buon boccone. Tuttavia ero molto agitato e mi pareva tanto importante la prima mia azione violenta contro gli animali che fumai una quantità di sigarette dicendomi che poi conquistato il forte volere – quello dell'assassino – non ne avrei fumate altre.

Volevo raccontare avventure di poche settimane fa e mi ritrovai tanto lontano. Grande importanza hanno le cose lontane in confronto a quelle di poche settimane prima. Un odore di vino antico dagli elementi equilibrati che si ricordano tutti non appena avvicinano il naso. E c'è mia moglie che pretende che non ricordo nulla. Certo se mi si domanda ove ho lasciato la penna d'oro e gli occhiali, resto sorpreso che si domandi uno sforzo simile, ma le cose antiche vengono a me da sole, in quantità, adorne da tutti i particolari.

Ed eccoci in palude nascosti ciascuno in una botte immersa nel fango a certa distanza uno dall'altro. Orazio m'aveva raccomandato di tenermi tranquillo e di non dar segno di vita perché ci sacrificavamo a tante ore di soggiorno nell'umidità di quella botte per truffare gli uccelli sospettosi che molto prima di muoversi esaminano la strada che devono percorrere coi loro occhi piccoli ma potenti. Un'altra ragione per odiarli, tanta prudenza. Al di sopra delle lontane montagne mi parve che il cielo cominciasse a sbiancarsi. Era l'alba? Ed io mi facevo inquieto. I processi lenti mi spazientano. Come potevo accelerare quello durante il quale dovevo restare in piedi in un posto tanto incomodo? Quel Cima! Avrebbe potuto procurarmi una botte più grande e metterci dentro almeno una sedia. Tentai di guardare il mio orologio. Era quello un modo di far camminare più presto il tempo. Ma tutto il chiarore di quelle stelle immote che mi guardavano, esempio enorme di pazienza, non bastava ad illuminare il piccolo quadrante. E mi venne un'idea: Potevo cessar di fumare ad un'ora che non conoscevo. Era un proposito del tutto nuovo ch'era più difficile di rompere. Non più calcoli, non più termini. Si partiva da un punto ignoto per arrivare ad un altro punto ignoto lontanissimo.

Studiai da quale parte venisse il vento e m'appoggiai su quella parte della botte. Accesi con sicurezza lo zolfanello.

E allora avvenne una cosa enorme. Il Cima mi tirò addosso. Sentii il fischio dei pallini intorno alle mie orecchie. Mi colse un'indignazione enorme. In quell'epoca tale indignazione colpiva tutti coloro che cercavano d'impedirmi l'ultima sigaretta. Si può figurarsi come mi sentii dinanzi ad un intervento simile. Non ci pensai due volte. Invece che rispondere alle insolenze che ora il Cima mi lanciava, gli gridai: «Io t'ammazzo». Puntai lo schioppo su lui e sparai.

«Imbecille» urlò il Cima «che fai?».

«E tu che facesti?» risposi io.

«Ma io so tirare».

«Se non chinavo a tempo il capo avrei avuto un pallino nell'occhio».

«Io ho il cappello forato» e saltò dalla botte per portarmelo a far vedere.

Mi dispiacque. Avrei potuto dire che avevo mirato al cappello e non alla testa, ma lui non m'avrebbe creduto.

«Mi dispiace» dissi «ma m'hai fatto arrabbiare».

Egli diede un'occhiata di rimpianto alla vasta palude e si avviò.

«Ma tu puoi restare» dissi io immusonato e fumando con rabbia. «Me ne vado io».

«Per far che cosa?» disse lui accendendo una sigaretta. «A quest'ora tutti gli uccelli dei dintorni sanno che qui ci sono dei fucili. Eppoi tu non sapresti uscire dalla palude da solo. Non vedi che sei nel fango fino ai ginocchi?». Mi volse il dorso e s'avviò.

Era un modo per costringermi a seguirlo ed io tentai di non obbedirgli. Ma veramente correvo il rischio di annegare. Con uno sforzo saltai dal fango e arrivai al viottolo ch'egli seguiva. Non c'era altro da fare che rassegnarmi per l'ultima volta alla sottomissione. E feci un voto: quando in futuro egli andasse al Boschetto io m'avvierei a Servola. si tratta di suolo duro.

Camminammo per un dieci minuti, poi, tutt'ad un tratto, egli s'arrestò e scoppiò a ridere. «Sei un bel tipo tu!». Il riso, poi, quasi lo ribaltò. Arrivava a smozzicare qualche parola: «Io tiro... tu tiri... come se fosse la stessa cosa». E dopo aver acceso un cerino. «E adesso sei tu ad averla con me». S'appiccò al mio braccio accarezzandolo. Ed anch'io finii col ridere con lui. Sarebbe stato sciocco di cessar di fumare ad un'ora ignota.

Una risata, quella sì, non è mai perduta. Tanto più che ora la ritrovammo intera, aumentata. Nel vecchietto magro, dalla piccola figurina sempre bene eretta ma non per vigoria che vi fosse insita ma perché non c'era bisogno di alcuno sforzo di tenerla così, debole e lieve com'era, finché qualcuno per svista non l'avrebbe abbattuta con un urto, la testa ancora parzialmente coperta di capelli bianchi, molto meglio della mia, ma non abbastanza per celare il rossore della pelle di sotto io trovavo il mio amico addolcito, meno pericoloso. Certo non aveva l'attenzione che aveva avuta in gioventù di maestro ad esempio ma piuttosto proprio quella di un maestro che non ha più da insegnare nulla e che può dirsi contento di essere trattato da pari a pari. E si rideva della mia bestialità di aver voluto andare a caccia e della sua di avermici condotto. Poi si rise solo della mia bestialità perché Augusta cominciò a parlare dei miei lunghi sforzi per svezzarmi dal fumo. Si concluse, a mia lode, col convenire che la malattia era guarita visto che mai ne parlavo benché sempre fumassi. Stimo io! Avevo pur dovuto costringere la malattia a non manifestarsi altro che in un soliloquio ch'era subito dimenticato, propositi non scritti e non detti, non inseriti con alcun segno né nel calendario né nel quadrante dell'orologio, che mi lasciavano in uno stato abbastanza aggradevole di libertà. Diamine! Vivendo tanto si guarisce di tutte le malattie.

Ora io a quel pranzo non avevo bevuto e m'ero persino astenuto dalla buona carne che tutti avevano mangiato. Niente che lo riscaldasse era stato gettato nel mio povero sangue. Bolliva dal ridere. Ridevo di me ch'ero partito per ammazzare delle bestie e che tiravo tanto bene da non aver colpito con un solo pallino il povero Cima. Poi per offendere Cima mi corressi: Ero partito per tirare sulle bestie e le bestie avevano finito col tirare su di me. E Cima trovò anche lui qualche cosa che non ricordo, della quale tutti risero meno che me perché era una povera cosa per ridere della quale avrei avuto bisogno di farmi il solletico. Ma non ci fu risentimento alcuno fra di noi. Soltanto com'era naturale non si rise altro mentre io avrei avuto il desiderio che continuasse ancora. Era un esercizio sano, e fra gli esercizi violenti l'unico che fosse permesso ai vecchi.

E per prolungarlo mi misi a parlare dei quadri di Alfio, una cosa di cui avevo riso in passato benché amaramente, di cui poi sorrisi per il mio sforzo di mettere io su quella carta tutto quello che non c'era e che avevo finito con l'amare pur sempre ridendone. Si parlava tanto di terremoti in quei giorni ed io, scoppiando dal ridere, raccontavo ch'ero corso a quella carta per vedere se tutte quelle casette fossero crollate: «No, non lo erano. Parevano crollate ma erano esattamente come prima».

Non mi trattenne neppure il pallore che subito scolorì la già bianca faccia di Alfio. L'attacco era stato così inaspettato ch'egli aveva lievemente alzata la testa dal piatto per figgermi in faccia i suoi dolci occhi che mi studiavano per intendere se sotto l'apparente derisione non ci fosse stata tutt'altra intenzione. Io non intesi nulla. Mi sentivo innocente: Avevo voglia di ridere e a questo scopo qualunque soggetto era buono.

Ma Alfio scoppiò: «Senti, se lo vuoi io ti restituisco il denaro che mi desti e riprendo il mio lavoro».

Ma io protestai: «E chi mi pagherà il lavoro che ci misi io?». E visto che il Cima con la sua mente lenta non arrivava ad intendere quello ch'io volessi dire spiegai che io, con uno sforzo grande e continuato, avevo completate e popolate le case di mio figlio e che ora ch'erano messe in ordine non volevo più restituirle. Adesso, completato da me, il quadro mi piaceva. E non appena mi fossi trovato nel pieno possesso della mia salute (già da un mese prendevo a questo scopo un tonico) mi sarei dedicato all'altro quadro che ancora tenevo celato per non essere indotto a tanto sforzo.

Alfio tentò di attaccarmi: «Sai, quello che tu devi conquistare con uno sforzo, altri, meglio preparati di te all'arte lo fanno senza sforzo alcuno, guardando, come si guarda la natura stessa».

Io m'arrabbiai e negai che lo sforzo fosse reso necessario dalla mia debolezza. M'arrabbiai tanto che dimenticai ogni mio buon proposito e diedi a mio figlio dell'imbecille. Me ne pento e me ne vergogno. Com'è strano il rapporto tra padri e figli! Non vale a migliorarlo nessuno sforzo. Io che sempre avevo confessato di non intendere nulla di pittura m'arrabbiavo perché mio figlio gridava d'essere del mio stesso parere.

E gli altri fecero peggio. Valentino con quella sua lentezza di buon amministratore disse: «È certo che un artista non va la vera via se non piace a molti».

Alfio disprezzava tanto l'opinione di Valentino che non rispose. Ma Antonia spiacente del secondo intervento del marito dopo che il primo era finito tanto male tentò di avvisarlo del pericolo tirandogli la manica. Valentino, poco accorto, si drizzò la giubba esaminando con curiosità perché si tendesse. E Alfio dopo una piccola esitazione disse alla sorella: «Ma lascialo parlare. Che vuoi mi faccia?».

Una nuova offesa cui s'aggiunse presto un'altra gravissima. Orazio, dopo pranzato, volle vedere il dipinto. Alfio dichiarò che non voleva assistere a tale esame e s'avviò alla sua stanza. Ma poi non seppe sottrarsi allo strazio e quando Orazio dinanzi a quelle cose si mise a ridere tenendosi la pancia che non aveva, Alfio apparve alla porta del mio studio, s'appoggiò allo stipite della porta e stette a guardare intento, ben lontano dal riso, ma domatosi tanto che non parve soffrisse. «Delle case a cavallo» disse Orazio e infatti scoperse sotto ad una di quelle case qualche cosa che somigliava al ceffo di un cavallo.

Ma io sentii che da quel giorno le mie relazioni con Alfio furono peggiorate. Io feci di tutto per migliorarle, soltanto non seppi dirgli che la sua pittura mi piacesse. M'aveva dato della bestia, sia pure solo in pittura. Non potevo mica dirgli: «Sì, io sono una bestia sia pure solo in pittura». Gli feci la corte, gli diedi del denaro, lo accarezzai, innumerevoli volte lo baciai sulla guancia mentre egli baciava l'aria. Non servì a nulla perché mai più osai di parlargli della pittura. «Hai dipinto bene?» un giorno gli domandai avendolo incontrato con la sua cassetta e la sua mappa che ritornava a casa. «Faccio quello che posso» e corse via. Aveva proprio paura gli domandassi di vedere qualche cosa dei suoi lavori.

Mi parve duro a sopportare il suo contegno. Tutte le teorie ch'io avevo tratte dai miei rapporti con mio padre qui non servivano più perché io, con mio padre, m'ero comportato tutt'altrimenti. Tuttavia continuai ad essere dolce, cortese. A tavola quando c'era una discussione io ero sempre dalla parte di Alfio. Quando mi domandava del denaro gliene davo senza batter ciglio. Gli dicevo solo delle parole dolci. Certo dovevo avere un aspetto strano poco affettuoso. Intanto che l'accarezzavo urlavo dentro di me: "Come son buono, come son buono!". Il sentimento di essere tanto buono minaccia di portarci ad essere meno buoni.

Io credo anche che non si sia ritornati a migliori rapporti con lui perché egli veramente dava poco peso ai suoi rapporti con me. Tante volte l'avevo pregato di tenermi compagnia. Scappava non appena poteva.

Si accendeva di amicizie appassionate ora per uno ora per l'altro dei suoi colleghi. Per un certo tempo dedicò tutto il suo affetto ad un pittore che faceva sul serio dei ritratti bellissimi. Ed io gli dissi con rabbia: «Ah! Si può anche dipingere le cose come esistono?». Egli impallidì come sa impallidire lui e mi rispose: «Ognuno ha la sua personalità». A lui, cioè a noi era toccata quella personalità sbilenca dei colori disordinati. Non c'era da far altro che sopportarla. Egli si vendicò in tutte le occasioni.

Ma così dovetti arrivare alla conclusione che se la mia agonia e la mia morte avessero dovuto essere una grossa punizione per Alfio, egli la punizione l'aveva veramente meritata. Potevo avviarmi alla morte con grande tranquillità. La morte era l'avventura di tutti e bisognava ch'io mi rassegnassi anche alla mia. Avevo ora delle buone ragioni per credere che anche le sue conseguenze non sarebbero state troppo gravi: Augusta m'avrebbe pianto in pieno equilibrio, Antonia non avrebbe pianto affatto e Alfio avrebbe potuto fare come avevo fatto io o tutt'altrimenti che sarebbe stato lo stesso per me.

                   II

Mia figlia è stimabile come lo fu sua madre e anche di più, è troppo stimabile. Somiglia fisicamente ad Ada, nella figurina eretta, nell'eleganza della testina e di tutto il corpo. Io so che piace molto agli uomini da quanto ne appresi da Augusta, ma essa fece già da giovinetta un proposito forte di virtù cui restò fedele con ogni suo atto ma anche con ogni sua parola e persino con ogni suo sguardo. E allora la virtù è eccessiva. Ciò può esser dovuto al fatto che una parte della sua educazione fu fatta da monache, ma io credo che ci sieno nel suo stesso organismo per eredità delle cellule che crearono tanta esagerazione. Amo di figurarmi ch'essa abbia ereditato dalla madre la grande virtù e da me l'esagerazione. Son qui solo su questa carta che forse nessuno vedrà: Perciò non se ne potrà riderepensare ch'io sia un presuntuoso. Da me la virtù non fu grande, ma il desiderio ne fu eccessivo. Mi pare di aver fatta una grande scoperta sulla legge di eredità che si potrebbe verificare studiare e verificarne l'esattezza con facilità. Da Antonia la cosa si verifica evidente: Dalla madre essa ebbe una qualità e dall'eredità del padre fu stabilito in quale misura quella qualità si manifestasse. In fondo sono di una modestia eccessiva. È stata una disgrazia che le buone qualità di Augusta sieno state dosate per Antonia da me.

Già da giovinetta la sua vita divenne una serie di doveri. È vero che gli studii non furono il suo forte. Non apprese alcuna lingua straniera, né alcuna scienza. Ma era una santa. Le monache l'amavano e le facevano la vita più comoda che fosse possibile. Ci fu un periodo in cui Antonia manifestò il desiderio di dedicarsi alla vita monastica. Passammo, Augusta ed io, delle brutte ore, perché sospettavamo che ciò fosse anche il desiderio delle monache e che esse fossero invincibili. Se si parla sempre del grande interesse che hanno gli ordini monastici di attirare a sé degli adepti! Invece quelle buone monache non ne vollero sapere e ci aiutarono efficacemente a dissuadere Antonia da un passo simile. Adesso che scrivo scopro che forse esse avevano indovinato Antonia e avevano scoperto ch'essa sarebbe stata nel convento la stessa seccatura ch'è proprio in casa nostra.

In fondo da giovinetta era la nostra gioia, una gioia aumentata da ammirazione per tanta purezza e, da parte mia, un sorriso di sorpresa al vedere il prodotto strano che dal mio sangue aveva saputo evolversi.

Antonia reagì con tutta decisione ai costumi liberi concessi alle nostre signorine nel dopo guerra. Non solo non volle il ballo, ma non uscì di casa sola. Doveva essere sempre accompagnata dalla madre o da una fantesca, ciò che costituiva in casa tutto un problema per la distribuzione di tanto lavoro di sorveglianza cui ella volle condannarci. Talvolta dovetti anch'io uscire di casa tardi per andarla ad accompagnare o a prendere. Insomma essa era come una piccola balla di merci che aveva bisogno dello speditore per moversi.

E sapeva difendere questa sua schiavitù elettiva come Alfio la sua pittura. Quando parlava delle altre fanciulle era maligna come una vecchia disillusa e, sentendola, si arrivava a dimenticare il suo musettino fresco e i suoi occhi brillanti di giovinezza.

Ma questo desiderio di sentirsi posta in uno scrigno sigillato, dimostrava ch'essa si considerava qualche cosa di prezioso, un gioiello. Infatti dedicava delle grandi cure all'adornamento della propria personcina e i suoi vestiti costituirono una spesa abbastanza importante nel nostro bilancio familiare. Sospetto che Augusta sapesse celare una parte di tale spesa e le è facile perchè io di questioni di denaro non mi occupo che quando sono molto di malumore ed ho bisogno di sfogo. Certo Augusta era anch'essa come me e cambiava d'umore a seconda del giro del vento. Se credeva di aver bisogno del mio appoggio per educare e dirigere Antonia, era capace di essere la prima a lagnarsi delle sue spese. Se invece m'accadeva di parlarne io per primo, mi trovavo di fronte alla sicura asserzione che Antonia era molto modesta e non spendeva più di altre fanciulle della sua condizione. Era una cosa che m'indisponeva contro Antonia e contro Augusta perché pareva fatta apposta per mettermi sempre dalla parte del torto. Dacché sono tanto vecchio m'è duro trovarmi dalla parte del torto per mio errore o svista, ma mi rende furente di trovarmici senz'alcuna mia colpa per artifizio altrui che mi sembra nemico.

Ma tutte queste cose sono da molto tempo dimenticate e ne parlo solo per intendere meglio quello che ci sta succedendo ora.

A 15 anni Antonia aveva una sola amica, una ragazza alquanto brutta, tozza e mal costruita con una sola bellezza, degli occhi neri di uno splendore strano messi in quell'organismo per guardare, ammirare e invidiare la bellezza altrui, certa Marta Crassi che doveva divenire in tutti i casi sua cognata. Dico in tutti i casi perché Antonia s'era messa in una posizione tanto strana nella nostra società che non c'era per lei altra probabilità che di sposare uno o l'altro dei due fratelli di Marta: Innamoramento di tutta una casa che, a dire il vero, nella nostra famiglia non era nuovo. Non molto ma qualche pallido tratto della mia fisionomia sopravvive nella mia famiglia.

Io credo ne sopravvivesse qualche tratto anche più importante e quando da Firenze ricevetti la notizia che Eugenio uno dei fratelli di Marta quando si trovava in licenza andava a trovare Antonia e le dimostrava sempre un maggior affetto pensai che il povero giovine andasse incontro ad una brutta avventura. Si vedrà poi come io non conoscessi affatto il mio proprio sangue.

Quel povero Eugenio l'avevo amato anch'io. Generoso incurante del proprio interesse, acceso per le idee di umanità e di patria allo scoppio della guerra era scappato da Trieste e s'era arruolato nell'esercito italiano. Finché era stato a Trieste la sua simpatia per Antonia non s'era rivelata a nessuno. Io mi figuro che poi, quando poteva liberarsi dalla vita della trincea e correre a trovare la sorella presso la quale trovava Antonia, facilmente se ne innamorò, perché certamente il salotto di Antonia era tuttavia preferibile alla trincea. Non so se fra i due giovini si sia parlato d'amore. Augusta che conosce la propria figlia lo esclude. Essa pensa che per parlare di amore, Antonia avrebbe prima preteso si parlasse di matrimonio e ciò è quasi sicuro.

Ma l'amore c'era stato sicuramente. Io lo so per il fatto che alla morte di Eugenio, Antonia subito accettò di fidanzarsi col fratello Valentino che ne era tanto meno amabile. Tale rapida decisione era un'evidente dichiarazione d'amore per il defunto. Povera Antonia! Di quale surrogato dovette accontentarsi!

Eugenio era corso in Italia, aveva cessato di pensare a se stesso per dedicarsi alla patria. Aveva deposto i suoi titoli austriaci da poco ereditati dal padre presso una Banca e non ci aveva pensato più. Così che quando le trincee nemiche anche per opera sua cedettero senz'accorgersene aveva distrutto anche la propria sostanza. Magnifico esempio di eroismo e di distrazione. Però pochi giorni prima dell'armistizio inciampò su una bomba che lo dilaniò orrendamente e lo uccise.

Il povero Valentino (poverissimo perché a quest'ora è morto anche lui) si presentò anche lui volontario ma pare che la trincea non gli piacesse e trovò il modo di retrocedere fino a Milano ove trovò un buon impiego presso una Società d'Assicurazioni. Dio sa che non voglio dirne male, ma è certo che non era il marito adatto per la mia povera figliuola. Grasso e non d'aspetto perfettamente sano io ebbi una tale impressione di lui quando lo vidi dopo la guerra, cioè prima del matrimonio, che dissi ad Augusta: «Ma è questo il marito per la nostra bella Antonietta?».

Augusta fece un gesto di rassegnazione per significare che non era stata lei a sceglierlo. Ma poi mossa dal desiderio di essere d'accordo con tutti e viver quieta aggiunse: «Promise però d'imprendere una cura dimagrante. E, se lo guardi bene, non brutto».

Io feci del mio meglio per abituarmi a lui. Era cattedratico sicuro del proprio giudizio. In bocca sua la più bella notizia diveniva noiosa non so se per il suono nasale della sua voce o per l'aria d'importanza che assumeva quando imprendeva a raccontarla. E la sapeva quella notizia! Se la sapeva! La sapeva da tutti i lati, con tutta precisione. Così che finiva, per ogni notizia, col dare delle lezioni. Io, poi, m'abituai a stare ben attento alla sua voce alla quale dapprima sfuggivo. Per non dover sopportarla troppo a lungo bisognava accoglierla volonteroso da bel principio, studiarla, ricordarne ogni suono. Egli non mi mollava che quando avevo capito tutto.

Ma non vorrei dirne troppo male. Prima di tutto è il padre del mio Umbertino eppoi lasciò ad Antonia una bella sostanza.

Volevo soltanto dire che non intendevo bene perché Antonia si fosse innamorata di lui. Eppoi non intesi perché Antonia restasse tanto attaccata a lui, e non pensasse a tradirlo benché la cura di dimagramento ch'egli aveva intrapresa non fosse riuscita. Insomma l'evoluzione della carne è un grande mistero. Quando mi dicono che la storia umana si ripete m'è facile di crederlo. Si ripete ma non si sa dove. è la sorpresa. In casa mia potrebbe oggi nascere un secondo Napoleone ed io non me ne sorprenderei affatto. E tutti gli altri direbbero che la storia si ripete quando invece non c'è stato niente che la preparasse.

Tutt'ad un tratto un anno fa il grosso corpo di Valentino si raggrinzò senza dimagrire, la sua faccia si fece più livida e cominciò a respirare come un pesce fuori d'acqua, ma in certi momenti tumultuosamente quasi urlando. Il dottor Raulli subito s'accorse della gravità della cosa e diede un grido d'allarme. Antonia s'accoccolò presso il letto del marito e di non si mosse fino alla sua morte.

Carlo, mio nipote, ci spiegò di quale malattia si trattasse: Un invecchiamento precoce. «Improvvisamente, in poche settimane, il suo organismo si fece come è ora il tuo, caro zio. Ma quello che tu puoi sopportare, caro zio, a 70 anni suonati, lui a 40 non poté. Tu, caro zio, hai bisogno di meno aria, di meno circolazione, tutto in te, caro zio, è meno vivo. Perciò puoi vivere... tuttavia».

A me tutto questo non parve molto logico. Ma non fiatai, anzi mi ritirai in me stesso, nel mio vecchio organismo, per proteggerlo da tanti scongiuri e vivere... tuttavia. Che cosa ne sanno costoro della vita? Il mio pensiero è ora più vivo di quanto mai fosse stato quello del povero Valentino. Non a me arriva d'ingarbugliarmi in un avvenimento d'importanza minima e analizzarlo più di quanto lo meriti per abbandonarlo solo quando tutti intorno a me sono mezzo morti dalla noia. Ciò dovrebbe pur provare che la mia respirazione è più abbondante di quanto fosse stata mai la sua. Ora mi rimproverano la mia distrazione, la mia incapacità di ricordare nomi e persone. Ma più o meno marcati tali difetti li ebbi sempre e se sono difetti da vecchio allora è provato ch'io seppi sopportare la vecchiaia non appena nato mentre Valentino ne fu ucciso a 40 anni.

Valentino morto, restammo a bocca aperta dinanzi alle manifestazioni di dolore di Antonia. Dapprima l'ammirammo tutti. Ci commoveva fino alle lacrime, e l'opera sua fu tale ch'io posso dire che mai piansi sì a lungo un morto come mi avvenne per il povero Valentino. Persino Carlo e Alfio i due giovini che più avevano deriso la pesantezza e la lentezza del defunto, dimenticarono la loro antipatia per amarlo nel dolore di Antonietta. Chi ricordava più di chi fosse vedova? Il destino l'aveva abbattuta orrendamente. Ognuno era pronto ad assisterla e compiangerla.

Ma dopo una settimana Carlo protestò per primo vedendo che il dolore di Antonietta invece di mitigarsi andava sviluppandosi nelle forme e nelle parole, cioè faceva sì che il lutto copriva tutti, oltre ad Antonietta ed Umbertino sul quale il color nero si faceva gaio gaio per accompagnarsi alle sue capriuole anche me Augusta ed Alfio e la mia automobile, e che Antonietta scopriva ogni giorno nuove ragioni per piangere più dirottamente e costringerci a torturarci per spremere delle lacrime da vasi oramai asciutti. Carlo era stato tanto buono nella prima settimana, tanto dolce che ad Antonietta poi mancò e non vedendolo più gli serbò un rancore cui dapprima anche Alfio s'associò. Ma subito dopo anche Alfio non seppe più accompagnarsi a tanto dolore e restammo soli a piangere il povero Valentino io, Augusta e Antonietta. Per sostituire i due assenti Antonietta urlò di più. Inventò parole nuove per descrivere con maggior efficacia la grave inaudita sventura toccatale ma con una di tali invenzioni mi ferì profondamente. Ogni giorno, come mi vedeva, esclamava: «Il destino, prima di ucciderlo, lo disonorò invecchiandolo». Io mi ritirai anch'io, offeso. La vecchiaia un disonore! Doveva esserci stata la guerra mondiale per inventare una cosa simile. Dovetti poi spiegare ad Augusta la ragione della mia assenza e Augusta la riferì ad Antonietta la quale, poi, invece di attendere ch'io andassi a piangere con lei, trovò il buon pretesto per raggiungermi e ricoprirmi del suo lutto. Fu una tragedia che a lei, certo, servì di sfogo utilissimo ma lasciò me come uno straccio sconvolto in modo che non sapevo più dove avessi la testa e dove i piedi. Si gettò alle mie ginocchia, tutta nera e coperta di veli e piangendo e urlando mi spiegò che la vecchiaia nella quale io prosperavo aveva subito ucciso Valentino. Evidentemente per questa ragione si poteva anche dire che la vecchiaia mia non fosse disonorevole e fosse un'onta quella di Valentino.

Io fui ancora una volta commosso come se Valentino fosse morto in quel momento. La sollevai, l'abbracciai e stetti poi con lei per varii giorni desideroso di aiutare quella povera bambina, tanto innocente e disgraziata. Ebbi anzi proprio una rinascita di viva paternità e scrutavo ansiosamente nel mio animo per nettarmi dal rimorso di averla ferita, il dolore e la compassione. Mai amai tanto come in quei giorni il povero Valentino tanto disgraziato che dopo di esser vissuto morto a mezzo, ora era morto proprio del tutto, ma tanto prima che dopo aveva saputo destare un tale vivo affetto.

La scena che non dimenticai più si svolse una sera, dopo cena, tardi. Eravamo nei primi giorni del settembre. Faceva tuttavia un grande caldo ed Augusta, Antonia ed io eravamo sotto la pergola dinanzi alla mia villa, donde una volta si vedeva la città e il porto ed ora solo qualche barlume del mare lontano, del resto coperto dalle squallide grandi caserme. Dopo di aver data la sua originale teoria della vecchiaia onorata e di quella disonorevole, Antonia continuava a singhiozzare, il capo abbandonato sulla mia spalla. Il suo pianto era un'arma molto migliore della sua parola. Anche Augusta piangeva ma io sapevo ch'essa si trovava molto lontana da noi. Essa non piangeva Valentino come noi due. Poco prima le avevo ancora una volta spiegato come Antonia ci offendesse ambedue e turbasse i miei ultimi anni di vita. Essa non poteva ancora accorgersi ch'io m'ero ora riavvicinato ad Antonia e non trovavo il modo di avvisarnela. Essa non piangeva nient'altro che il dissidio in sé. Così aveva pianto non per la pittura di Alfio ma per il dissidio fra me e lui ch'essa aveva provocato. Odiava il dissidio, il dissidio che fra gli umani e specie fra padri e figli era inevitabile e che lei aveva saputo eliminare dalla numerosa compagnia dei suoi cani, gatti e uccelli, bestie cui dedicava la miglior parte della sua vita.

Un ubbriacone passava cantando solitario per il viottolo adiacente alla mia villa, che conduce alla montagna. Io conoscevo quell'ubbriacone. Lo avevo spiato tante volte. Il vino vivificava in lui l'istinto musicale ed egli vi si abbandonava intero procedendo senza malizia e senza fretta. Cantava solo due vecchie canzoncine, un repertorio molto ristretto, introducendovi delle lievi variazioni, tanto lievi che la sua ispirazione non poteva dirsi disordinata. Neppure la sua voce era disordinata, ma mite, debole, molto stanca. Com'era buono, contento del vino tracannato. E modesto! Cantare tanto senza pubblico.

E intanto che Antonietta piangeva io pensavo a quell'ubbriacone che aveva sciolto con tanta facilità il problema della vita. Di giorno il lavoro e la sera – non la nottemusica! Le lievi note s'allontanarono e sparvero.

«Poverinosinghiozzò Antonietta.

«Chi?» domandai io temendo assai parlasse ancora di Valentino.

«Quel poverino che canta con tanta tristezza sul viottolo» mormorò lei. «Deve aver perduto qualcuno e si consola col vino».

A me sembrò esagerato di credere che tutti quelli che si ubbriacano lo facciano perché hanno perduto qualcuno, per quanto non sarebbe impossibile di crederlo con le tavole statistiche alla mano. Ma le fui molto grato di aver parlato del povero musicante solitario e non del defunto Valentino. Mi poggiai anch'io più dolcemente su lei e con uno slancio generoso le proposi di abbandonare la sua casa derelitta e venir a stare da noi con Umbertino. Dapprima Antonia rifiutò con tanta violenza ch'io non osai d'insistere. Ma Augusta aveva levato la testa e mostrava la sua faccia netta d'abbattimento: Vedeva enunciarsi un accordo e ciò era per lei lo scopo principale della vita. Soffriva che tutti abbandonassero Antonia mentre avrebbe desiderato che tutti si fossero seduti al medesimo tavolo per piangere eternamente con lei. Qualche mese dopo anche lei si ribellò ma non mica perché le mancassero le lacrime con cui associarsi alla figliuola ma perché questa non voleva saperne di tutte le bestie cui Augusta si dedicava e intendeva di allontanarle dalla casa. Le odiava quelle bestie perché una delle cose che ad esse manca del tutto è il lutto. Come un cane annusa con curiosità la carogna di un compagno. Pare un momento stupito eppoi salta via giocondo che una simile cosa non gli sia capitata.

Per quella sera non si arrivò che a far piangere e protestare Antonia: Mai essa avrebbe abbandonata la casa dove egli era morto. Poi dove essa avrebbe potuto porre nella nostra villa i mobili ch'egli aveva acquistati con tanto amore e dai quali non si sarebbe staccata giammai?

Ma Augusta non disarmò. Essa dapprima mi convinse che il pianoterra che in passato avevamo usato per ricevimenti a noi non serviva più e che potevamo, dopo di averlo debitamente riattato, regalarlo ad Antonia. Io non avevo niente in contrario tanto più che m'ero già compromesso con la mia profferta fatta nella commozione di quel canto commovente di quel caro ubbriaco. Augusta fece delle misurazioni per vedere se tutti i mobili di Valentino, grossi, mastodontici, potevano capire nella nuova abitazione. Ci stavano ma restava meno spazio alla gente per muovercisi.

Antonia rifiutò con testardaggine inaudita qualunque proposta ed ogni offerta fu nuova occasione a pianti e grida che riempivano la casa.

Poi esattamente il 19 di un dato mese il terzo o quarto mese dalla morte di Valentino essa cambiò di parere. Alla mattina eravamo stati avvisati ch'essa voleva andare con noi al cimitero. Andammo a prenderla con l'automobile. Fu stupita di non vedere Alfio con noi. Le spiegai che Alfio non si sentiva molto bene. Augusta aggiunse che oltre a stare poco bene Alfio era anche obbligato di rimanere in casa per attendervi un amico. Una doppia ragione per non accompagnarci che riempì Antonia di tale amarezza da diminuire per quel giorno le manifestazioni del suo dolore. Si diede da fare intorno alla tomba recente e a spargervi fiori. Aspettavamo Carlo che aveva promesso di venire se avesse potuto farsi libero dall'ospedale ma aspettammo invano. Quando ogni speranza di vederlo sparì, Antonia cessò di occuparsi dei fiori e si dedicò tutta al suo dolore fra le nostre braccia.

Era una giornata un po' nebbiosa autunnale di quelle giornate a mezzodì molto chiare ma veramente color di calce perché non apertamente luminose. Mi pare che in tali giornate si veda tutto meglio, i cipressi, le tombe, con le loro scritte e le loro immagini, il muro di cinta, la cappella oscura. Mi colpì tale evidenza e prima di scrivere qui ne parlai ad Alfio che in quella stessa giornata dipinse: «Luce tutta indiretta» egli disse brevemente, «che bellezza!». Ed io non dimenticai più la mia bambina che si dibatteva fra le braccia di mia moglie solo perché io dopo un poco per stare più comodo m'ero allontanato da loro. Sotto ai suoi veli la sua bella faccina pur pallida brillava ancora fresca di forza e di gioventù. Piangeva tanto e noi dovevamo sostenerla ma non v'è dubbio che stava meglio di noi. S'avanzava dall'ingresso qualcuno che a me parve fosse Carlo. Proprio il suo modo di moversi tenendosi diritto e dimostrandosi tuttavia negligente col suo passo lento e il suo naso per aria, gli occhiali lucidi. «Carlo» gridai. Per un istante Antonia cessò di piangere e guardò anche lei. «No, non è Carlo» disse. Infatti il giovinotto passò oltre guardandoci con qualche curiosità.

Antonia si quietò e poco dopo abbandonammo il cimitero. Nella vettura essa lungamente stette silenziosa, gli occhi arrossati rivolti alla via ch'essa certamente non vedeva. Poi improvvisamente si volse ad Augusta e le domandò dove sarebbe stata posta in casa nostra, quando ella vi si fosse trasferita, la stanza da letto della sua servitù. Augusta glielo disse. Di nuovo Antonia rivolse per qualche istante i suoi begli occhi sulla via fuggente e quando ritornò a noi mormorò: «Io vorrei provare. Già se avessi da trovarmi male o m'accorgessi d'incomodarvi, ritornerei a casa mia».

Ed è così che decise a venire a stare con noi. E quando io la ricordo in quella luce di calce con quel suo musino che l'infanzia non del tutto abbandonò, con quella fossetta al mento, io penso: "Cara, bella, piccola megera che vuol piangere tanto, ma non vuol piangere sola".

Ma è anche così che Umbertino mi si avvicinò di più e si fece sempre più importante nella mia vita.

              

               UMBERTINO

Io sono un uomo che nacque proprio a sproposito. Nella mia giovinezza non si onoravano che i vecchi e posso dire che i vecchi di allora addirittura non ammettevano che i giovani parlassero di se stessi. Li facevano tacere persino quando si parlava di cose che pur sarebbero state di loro spettanza, dell'amore per esempio. Io mi ricordo che un giorno si parlava dinanzi a mio padre, da suoi coetanei, di una grande passione ch'era toccata ad un ricco signore di Trieste e per la quale si rovinava. Era una compagnia di gente dai cinquanta anni in su, che per rispetto a mio padre mi ammettevano fra di loro qualificandomi della carezzevole designazione di puledro.

Io, naturalmente, portavo ai vecchi il rispetto che l'epoca imponeva e ansioso aspettavo d'imparare persino l'amore da loro. Ma avevo bisogno di un chiarimento, e per averlo, gettai nella conversazione le seguenti due parole: «Io, in un simile caso...». Mio padre subito m'interruppe: «Ecco che ora anche le pulci vogliono grattarsi».

Ora che sono vecchio non si rispettano che i giovani, così che io sono passato per la vita senza essere stato rispettato mai. Da ciò dev'essermi derivata una certa antipatia per i giovani che vengono rispettati ora e per i vecchi che si rispettavano allora. Sto solo a questo mondo io, visto che persino la mia età fu per me sempre un'inferiorità.

E davvero io credo che amo tanto Umbertino perché è tuttavia fuori dell'età. Adesso ha sette anni e mezzo e non ha ancora nessuno dei nostri vizii. Non ama e non odia. La morte del padre fu per lui piuttosto un'esperienza curiosa che un dolore. Lo sentii io, alla sera del giorno stesso della morte di suo padre domandare alla sua bambinaia, pieno di sorpresa e di curiosità: «Ad un uomo morto si può dunque dare persino un calcio senza che s'arrabbi?». Non aveva alcuna intenzione, lui, di dare dei calci al padre per vendicarsi delle lunghe lezioni ch'egli gli aveva propinate. S'informava. Tutta la vita per lui non era altro che un panorama ben staccato da lui, da cui non poteva provenirglimalebene, se non gli si buttava addosso proprio a lui, ma solo delle informazioni.

Certo, io cominciai ad amarlo quando mi limitavo a guardarlo di tempo in tempo. Andavo una volta al giorno da mia figlia e mio genero e vedevo crescere il piccolo eroe, bello e biondo, che aveva due qualità negative simpatiche: In presenza d'altri non voleva dire certi versetti che gli avevano insegnato a memoria, né voleva lasciarsi baciare da stranieri. Io non lo baciavo né m'importava di sentire le sue poesie. Gli portavo ogni giorno la stessa piccola scatolina di dolci. Non gli volevo ancora abbastanza bene per cercare di sorprenderlo con doni nuovi e andando da lui macchinalmente mi fermavo per un istante nella stessa vicinissima bottega. Vidi che aspettava abbastanza ansiosamente il dono. Un giorno sorprese Antonia facendole vedere che si potevano mettere insieme quelle scatoline in modo da fare una casa, la casa del nonno che vi potrebbe capire se gli si tagliasse via una parte del corpo, anzi tutto il corpo meno la testa. E il piccolo omino guardava la mia testa eppoi la casa per stabilirne il rapporto. Antonia obiettò: «Vuoi davvero il nonno morto? Con la testa non potrebbe respirare».

Il piccino mi guardò studiandomi: «Non vedi che respira con la sola testa?».

La grande fantasia del piccolo uomo m'inquinò. Ebbi una notte dell'affanno e tale affanno ricreò in un sogno orrendo l'idea di Umbertino. M'avevano portato via tutto il corpo e non restava di me che la sola testa poggiata su una tavola. Parlavo anche, e sopportavo tutto come se volessi eseguire il volere di Umbertino. Ma la respirazione era necessariamente breve e mi lasciava l'affannosa sete dell'aria ed io pensavo: "Quanto tempo dovrò respirare così fin che il corpo mi ricresca?".

Soffersi tanto che tutta una giornata non seppi dimenticare l'incubo. Tanto che pensai: "Non si dovrebbe vivere una vita in cui si possa immaginare una cosa mostruosa simile".

Eppure era stata pensata da quella testina bionda.

Non saprei ridare uno solo dei suoni di Umbertino per dare un'idea della loro proprietà e grazia, s'intendono ma non si ricordano. Si ricorda solo il proprio sorriso. Quello che so è una mia scoperta: La faccia di Umbertino si fa molto espressiva quando gli manca la parola. I suoi occhioni di un azzurro intenso si aprono allora a dismisura per veder meglio, si rinchiudono per un intenso raccoglimento e poi guardano obliqui dando al suo roseo faccino un aspetto da traditore per cercare la parola in qualche cantuccio, e in alto per cercarla nel cielo. Sì! La mancanza di parola inventa il gesto espressivo. Ed io amo molto tutto quello che io scopro. Io a poco, a poco, scopersi Umbertino che non tutti sanno vedere, e perciò lo amo tanto. Intorno a me – io me ne accorgo perché vedo tutto – brontolano ch'io veda, ch'io senta e intenda meno. Può essere ma quello che vedo e sento m'adduce sempre a scoperte interessanti.

Dacché sta con me, Umbertino mi diede qualche noia. Nella vasta casa non aveva trovato nessun soggiorno più gradevole del mio studio e me lo trovavo sempre fra i piedi. I miei libri finalmente venivano usati e gli servivano per fabbricare delle piramidi. Un disordine enorme. Vuole in movimento il grammofono ma contrariamente al gusto di tutti gli amatori il disco gli sembra troppo lungo. E se riesce a mettervi su le manine lo arresta e, se ci arrivasse, lo fracasserebbe. Quando io glielo impedii la prima volta mi domandò con piena ingenuità: «Ma nonno, perché non vai di ?». Tanto gli pare ingiusta una diminuzione della sua libertà che crede la mia presenza accanto a lui casuale, illegittima. Ma quel bambino è una vera protesta contro il padre suo. Io credo sinceramente che anche l'eredità talvolta non sia altro che un gesto d'impazienza per cui la razza vecchia viene dimenticata e ne viene inventata una del tutto nuova. In casa io non amo di restare solo con Umbertino. Quando il bambino è solo e disoccupato si fa molto aggressivo. Io non so raccontargli delle storie. Il povero Valentino (con quella fantasia!) sapeva parlargli per delle ore. Io assistetti talvolta a tali racconti. Il bambino era tra le braccia del padre e guardava immoto la bocca da cui colavano le invenzioni che lo beavano. E Antonia che, rapita anch'essa, stava ad ascoltare, mi disse: «È già la quinta volta che sente la stessa storia». La voleva lui quella storia, quella della fata che va da tutti i bambini per scegliere il migliore, e scopre che tale era uno di essi che si credeva il peggiore. Noi adulti, quando ci viene detta per la seconda volta la stessa storia, la interrompiamo impazienti. Ma il mio bambino domandava la ripetizione dell'avvenimento. Come la fata attraversava il bosco le piante s'inchinavano a salutarla. E il bambino salutava divertito una pianta anche lui. Era notte o era un giorno dal sole vivo, e il bambino di notte apriva grandi gli occhi per saper evitare gli ostacoli o li socchiudeva per non lasciarli ferire dalla grande luce. Era poi lui il bambino che tutti credevano cattivo ed era invece pieno di una bontà di cui nessuno s'accorgeva e per scoprire la quale occorreva una fata. Ma la povera parola di Valentino era necessaria. Privato di essa i nervi di Umbertino non agivano. Tutta la sua efficacia aveva quella povera parola. Come la grossa bocca di Valentino s'apriva ne uscivano le parole tanto importanti che subito si materiavano in cose e persone.

Quando Umbertino capitò da me egli aveva scoperto un modo di supplire alla mancanza del padre. Le storie le raccontava lui. Ne sapevacredo – due soltanto che io non saprei ridire perché non stetti mai a sentirle. Quando ne avevo sopportata una guardando i gesti interessanti del bambino in lotta con la parola, egli mi guardava per vedere come avessi goduto del suo racconto e mi domandava: «T'è piaciuta? Vuoi che te la racconti di nuovo?». Io proponevo ch'egli la raccontasse di nuovo intanto ch'io avrei letto, scritto o suonato il violino. No, dovevo starlo a sentire altrimenti egli non sentiva la realtà del racconto. Io mi provavo di star a sentire ma subito nel mio petto sorgeva il temporale solito: "Come sono buono, come sono buono" e per poter attendere ai fatti miei consegnavo il bambino a Renata.

Renata è una cara ragazzina bruna, friulana. È orfana. Si trova in casa nostra da quattro anni e non ha che 18 anni. È di quelle bambine che, arrivate alla maturità durante la guerra non ebbero bisogno di allungare le gonne corte che altre volte non appartenevano che alle fanciulle. Non era una dotta e non faceva come me delle scoperte, ma forse perché si trovava più vicina al bambino essa sopportava meglio le sue chiacchiere. E dalla mia stanza da cui l'ostinato bambino non voleva allontanarsi di troppo, sentivo che la vocina infantile che raccontava, era interrotta di tempo in tempo dallo scoppio di riso fresco, sincero, irrefrenabile della giovinetta.

Ma poi fra me e Umbertino si arrivò ad un accordo. Ci vedevamo in casa solo a pranzo ma egli usciva con me ogni giorno per un'ora prima di colazione. Ciò corrispondeva anche ad una prescrizione che m'era stata fatta dal dottor Raulli di muovermi ogni giorno per un'oretta. Quando aveva da camminare Umbertino non raccontava delle storie ma procedeva mettendo la sua cara soffice manina nella mia grossa e ruvida. E dovevo io stare attento di tener bene afferrata quella manina perché Umbertino frequentemente incespicava perché egli vedeva molte cose, un muro lontano e mezzo distrutto, e i carrozzoni del tranvai col loro bravo numero ch'egli sapeva leggere e il treno o vicino o lontano con la macchina sbuffante, ma non gl'impedimenti, non gli acquitrinii in cui egli avrebbe sprofondati i piedini se io non fossi stato attento.

Ma quante cose vedeva quel bambino! Sempre le stesse perché per la debolezza dei miei polmoni le gite in questa città nella quale quando si va in campagna si va subito in montagna non potevano essere molto lunghe. Io credo che ogni notte di sonno rinnova in tale modo Umbertino che alla mattina tutte le cose per lui sono nuove. Tanto nuove che le vedo nuove anch'io. Un binario! Perché lo guardava tanto, perché voleva seguirlo? Finché non implicava uno sforzo, per compiacerlo, lo seguivo anch'io. Ma quando bisognava camminare sulla ghiaia fra le due rotaie e le traversine erano troppo distanziate per poter saltare dall'una all'altra, io mi spazientivo e trascinavo via il bambino. Ma egli continuava a guardarle. Erano la base del grande treno che su di esse scivolava in modo tanto misterioso. Ed era importante scoprire dove cominciavano perché ogni principio è tanto importante ed era tanto doloroso che non si potesse vedere quell'altra parte importante, la fine del binario. Io risi e proposi ch'egli vedesse in quell'estremo binario invece che il principio dello stesso la sua fine. Fu una rivoluzione cui il fanciullo dovette sottoporsi e lo lasciò esitante. Poi vide, vide! Sì questa era la fine del binario.

Arrampicati su di un muro assistemmo un giorno ad una scenetta. In un cortiletto c'era un cavallo libero imbizzarrito inseguito da un ragazzone che tentava di condurlo alla stalla. Il cavallo s'impennava e dava all'aria dei calci. Umbertino dal suo posto sicuro si divertiva un mondo e urlava dal piacere. La sua gioia rumorosa mi piace molto ma pur mi pare un segno dell'isterismo che imperversò sui suoi antenati. La sua gioia questa volta non poteva ferire nessuno perché il povero diavolo ch'era laggiù alle prese col cavallo non poteva né vedercisentirci. Ebbe una risoluzione. Disparve da una porta del cortile e ne riuscì con un mucchio di fieno in mano. Il cavallo annusò e quando l'uomo si ritirò verso quella stessa porta, lo seguì docile allungato dalla fame e scomparve dietro l'uomo. Umbertino urlava: «Non seguirlo! Sei uno stupido! Ti prenderà». Ed ogni volta che poi passammo per quel posto egli guardò quel cortile: «Il cortile del cavallo stupido». Ma non rivedemmo mai più né il cavallo né l'uomo. E Umbertino pensava: "Forse se la cosa si ripeté, il cavallo non si lasciò più prendere e arrivò a dare qualche calcio e a quest'ora va libero, lontano lontano su qualche pascolo".

Chissà perché mi tanta gioia assistere alle fanciullaggini di Umbertino? Adesso che sto raccogliendomi su questa carta, causa Umbertino che vedo camminarmi accanto col suo piccolo passo malsicuro, analizzo come la gioia irragionevole sempre, venga irragionevolmente distribuita fra gli umani.

Arriva abbondante e quella unicaabbastanza ragionevole ai bimbi che nulla intendono. Poi quando nell'infanzia si comincia a studiare la macchina colossale che ci è consegnata, la vita, i binari che finiscono dove cominciano, non vediamo ancora la relazione che c'è fra noi e lei e la studiamo con oggettività e gioia interrotta da lampi di grande spavento. Terribile è l'adolescenza perché si comincia allora a scoprire che la macchina è fatta per addentarci e non si vede dove in mezzo a tanti ordigni si possa mettere sicuri il piede. Nella mia vita la serenità arrivò tardi forse perché – causa la mia malattia – la mia adolescenza si prolungò oltre il limite normale, mentre intorno a me i miei coetanei ci vivevano già senza vederla come il mugnaio che dorme sereno accanto al suo mulino che gira stridendo. Ma la serenità – fatta di rassegnazione e curiosità sempre vivaarriva a tutti ed io cammino accanto ad Umbertino molto simile a lui. Procediamo benissimo insieme. Il suo debole piede gl'impedisce di trovar troppo lento il mio passo ed io resto associato a lui dalla debolezza dei miei polmoni. Lui è sereno perché la macchina lo diverte, io poi, non perché pensi ch'essa non possa più farmi male perché la morte prossima me ne libererà – in verità la morte finora non è che fuori di me, ravvicinata talvolta da un ragionamento, – ma perché io alla macchina sono oramai tanto abituato che mi spavento quando talvolta penso che la gente possa essere migliore di quanto io abbia sempre pensato o la vita più seria di quanto mi sia sempre apparsa. Il sangue mi sale alla testa come se stessi per ribaltarmi.

Povero Umbertino! Gl'improvvisi spaventi interrompono la sua gioia e la sua curiosità. È celebre in famiglia una manifestazione sua di tale spavento, di anni fa. Tarda sempre ad addormentarsi nell'oscurità e sua madre un giorno volle convincerlo che non c'era ragione di spaventarsi perché i leoni non vivono nel nostro clima eppoi perché in casa le porte e le finestre sono chiuse ermeticamente. Ma lui dichiarò che aveva paura degli uomini che passano per le fussure (fessure). Era una grande scoperta quella che le porte e le finestre non sono mai chiuse abbastanza per impedire l'ingresso al pericolo.

Talvolta esagera persino i mali di questo mondo. Una volta gli furono regalate delle scarpine nuove, molto lucide, adornate da una fibbia. Per quietarsi a letto volle avere le scarpine nei piedi ed io non dimenticherò mai il piccolo omino accaldato nel sonno, supino, con le scarpine sui piedi nudi frontati sul letto. Neppure il sonno arrivava a diminuire la sua sorveglianza. È evidente che la vita è migliore di quanto egli allora se la figurasse tant'è vero che tutti serenamente depongono gli stivali quando si coricano.

Così un fanciullino di tre anni è una macchinetta con cui tutti amano di giuocare. Si tocca un bottoncino ad un'estremità e c'è subito la reazione all'altra. Ho il rimorso di aver turbato anch'io una volta col mio intervento il regolare procedere di quella macchinetta.

Invitato a cena da Valentino arrivai da lui tanto di buon'ora che trovai Umbertino che mangiava, dopo la sua cena una mela. Subito ne presi dal canestro della frutta un'altra, finsi d'averla tratta dal suo collo e gli feci credere che fosse quella ch'egli già aveva mangiata. Stupito spaventato il piccolino si mise a mangiare anche quella visto ch'era la sua ed io glielo permisi come fosse cosa sottintesa. E quando gli trassi dal collo anche la seconda mela avrei permesso ch'egli si mangiasse anche quella. Ma il bimbo non ne volle sapere visto che il suo piccolo stomaco non sentiva il sollievo che sarebbe dovuto derivargli dalla mia operazione.

Io non ci pensai più fino quando con Augusta m'accinsi a rincasare. Antonia volle che vedessimo dormire il piccino. Dormiva in un lettino in cui era chiuso da una rete. Fu girato senza riguardo il commutatore della luce perché si sapeva che quando Umbertino aveva preso sonno sul serio, non c'era il pericolo di destarlo. Lo scorgemmo gettato contro la rete sulla quale, anziché sul guanciale poggiava la testa. Aveva le guancie in fuoco, e – o mi parve – la respirazione più celere del solito. Antonia s'accinse a drizzarlo e il bambino si lasciò fare mormorando però: «La mangio... ecco... è di nuovo intera». Antonia rise: «Un delirio che gli proviene dal nonno». Ma io ebbi il cuore un po' pesante.

Sì! È un po' ansioso Umbertino. Nella sua breve esistenza fu già minacciato ed anche punito. Ma poi è certo che la paura è una qualità della carne. È come una protezione che la involge già quando arriva all'aria. La travia ma certamente la protegge. E nel piccolo Umbertino c'è la paura dei leoni che non ci sono e anche dei carabinieri che di lui mai si curano e speriamo non abbiano a curarsi mai. Quando li vede procede più silenzioso. Sa che sono incaricati di una sorveglianza e sa ch'è una sorveglianza più dura di quella cui fu sottoposto lui, assidua, un po' noiosa ma accompagnata di carezze e di dolci. Non è mica sicuro che i leoni non arrivino una volta o l'altra anche a Trieste e che i carabinieri s'avvedano di questo bambino che talvolta provocò l'ira del padre e del nonno e anche le lacrime della madre.

Le ire del nonno furono sempre brevi e subito dopo accompagnate da dolci spiegazioni, rimproveri indirizzati tanto a lui che a me stesso ma questi in un soliloquio che mi dava bontà ma non vergogna. Si camminava tanto bene insieme per tutte le vie della città, io molto meno distratto di lui perché richiamato alla realtà da una minaccia d'automobile o dall'ammirazione per quel bambino dalla testa ingombra da sciocchezze. Perciò gli somigliavo meno, solo perciò, solo perché non ero libero essendo incatenato ad una sorveglianza. Altrimenti saremmo proceduti insieme, molto simili, spesso silenziosi perché Umbertino è già abituato a non dire tutto. L'ultima volta che fummo insieme si ficcava all'ombra di un albero per ammirare come egli allora restava privo di ombra. Si restringeva per essere tutto coperto dall'albero, ritirava un braccio che ne sporgeva. Gli riusciva e procedeva silenzioso. Forse trovava troppo infantile il suo pensiero per rivelarlo ad altri.

Con Antonia e Umbertino capitò spesso in casa un'altra noia ma una speranza: Il signor Bigioni. Non Baglioni e non Grigioni come si chiamavano due altri amici ch'ebbimo familiari anni addietro ma Bigioni. Quando mi rivolgo a lui egli deve suggerirmi il suo nome perché io sono sempre esitante fra i tre nomi, ciò che rende più difficili le nostre relazioni. Non mi è simpatico perché ha qualche qualità di Valentino. Quando ha un'opinione è molto sicura; la dichiara, la commenta, la illustra con le immagini più materiali, talvolta offensive. Quando si confidò a me dovette scusarsi che egli subito alla morte di Valentino, per piangerlo, non aveva trovato di meglio che di voler sposarne subito la moglie, egli mi spiegò che veramente egli riconosceva che così si dimostrava meno amico di Valentino, ma ciò era compensato dall'enorme generosità che Valentino aveva dimostrata per lui, proprio come quel marinaio che trovandosi per varie settimane solo con un amico su una zattera alla deriva dell'Oceano, morì a tempo per divenire pasto e salvezza dell'altro. Aveva trovato l'immagine atroce e come la disse a me l'avrebbe detta ad Antonia stessa. Spiegava tutto tale immagine ed egli aveva la massima che a questo mondo era importante d'intendere tutto.

Io sono stato il primo ad accorgermi di tanta speranza. Ne parlai subito a Carlo ch'è più spesso con me. Carlo col suo fare sicuro mi disse che i miracoli a questo mondo non potevano ripetersi.

«Quali miracolidomandai io stupito.

«Il miracolo di Valentino che sposò Antonia».

Io fui offeso. Che miracolo occorre per sposare una delle più belle donne di Trieste? Era stata la gioia della nostra famiglia quella bella bambina, il gioiello nostro, l'ammirazione di tutti i nostri amici, e ancora adesso quando si parla di lei, la si qualifica di bella, bella come la zia Ada, mentre la figlia di Ada che è a Buenos Aires è brutta com'era brutta la mia cara Augusta. Ogni essere è composto di bruttezza e bellezza; bisogna lasciargli il tempo per manifestarsi tutto.

E per ritorcere l'offesa raccontai a Carlo della proposta del Bigioni al quale avevo promesso di non parlarne che con Antonia. E Carlo rimase tanto stupito che lasciò cadere la sigaretta a terra. Si mise a ridere: I miracoli si ripetono. Da allora, compreso Carlo, tutti noi sopportammo meglio la compagnia del Bigioni. Tutti lo circondammo della nostra protezione, tutti lo sopportammo ed amammo, meno Antonia ed Umbertino.

Il Bigioni (che buona idea di annotare più volte tale nome) agì da quella persona ch'è, cieco per tutte le cose meno che per il proprio desiderio.

Si era ritornati dal cimitero dopo aver sepolto il povero Valentino, io, Carlo, Alfio e il Bigioni. In vettura il Bigioni si comportò benissimo. Parlò solo della sua lunga amicizia con Valentino e compianse vivamente la sua fine immatura. Aggiunse anche l'osservazione: «Che farò io ora senza di lui?». Qui però io sono sicuro ch'egli sorrise. Ne sono sicuro. Allora mi parve una contrazione nervosa della bocca perché non supponevo che fosse quello il momento di sorridere. Pioveva dirottamente ed eravamo tutti bagnati. Valentino era appena sotto terra. Anch'io aveva un po' sorriso figurandomi Valentino il quale arrivato nella cripta assaltato subito dai morti che lo avevano preceduto, col gesto che gli era abituale avrebbe detto: «Adagio, ve ne prego». Ma in me tali sorrisi fuori di posto non possono essere messi in alcuna relazione con un malanimo. Mentre il Bigioni dopo di aver sorriso si lisciò con grande voluttà la grossa barba bionda e si passò la mano sulla testa calva. Gesti molto simili a quelli delle fiere dopo la soddisfazione di un buon pasto e che io non seppi interpretare finché il Bigioni non scelse proprio me a confidente. Egli voleva sposare la moglie del morto e perciò aveva cominciato col mettersi nella carrozza della famiglia.

E da una parte fu una cosa ridicola di raccomandarmi tanta discrezione al momento di confidarsi in me visto che prima di mettermi a parte dei suoi propositi li aveva comunicati per svista nientemeno che ad Umbertino subito quel giorno stesso, ancora tutto bagnato dall'acqua presa al funerale del padre. Veramente quella vasta casa pareva vuota. Era stata invasa poco prima del funerale da una folla di parenti ed amici che ci avevano abbandonati al cimitero e ci avevano lasciati rincasare soli. E il Bigioni guardava serenamente intorno a sé. Quanto spazio v'era per lui, anche troppo. Si sentiva tanto sicuro che forse meditava di subaffittare una parte di quel quartiere non appena fosse stato suo.

E vedendo piangere Umbertino che Antonia era riuscita a rattristare proibendogli di giuocare il giorno dei funerali del padre, lo trasse a sé e lo baciò ad onta che il fanciullo facesse del suo meglio per sottrarsi a quel barbone a dire il vero ben pettinato e non ispido, e gli disse ch'egli doveva essere contento perché pioveva.

Era un segno che il Cielo s'apriva largo a ricevere il povero padre suo.

Io conosco un altro detto triestino secondo il quale è segno di buon'accoglienza in Cielo per il morto anche il bel tempo. Piena di buona gente la mia città. In quanto dipende da loro tutti i morti trovano una buona accoglienza in Cielo.

Il fanciullo si fece molto serio. Intravvedeva una nuova macchina da studiare, quella del Cielo come gli veniva presentata dal Bigioni. E vedendolo tanto serio il Bigioni volle consolarlo anche meglio e gli disse tutto: «Eccoti senza padre. Come ti piacerebbe di avere un altro padre, me per esempio

Anche questa era una parola che Umbertino non poteva dimenticare. S'allontanò da quel barbone intanto. Ma poté, in presenza di sua madre e senza ch'essa se ne accorgesse, giuocare proprio anche il giorno del funerale del padre. Giuocò con quel Cielo. Rimaneva chiuso per giorni e giorni e i morti aspettavano di fuori finché non pioveva. Alle prime goccie ecco s'apriva e tutti entravano in folla.

Ma ebbe un dubbio e domandò alla madre: «E se non piove quando uno muore, resta perciò escluso per sempre dall'entrata nel paradiso o aspetta solo all'ingresso?». La madre si destò dal torpore in cui l'aveva gettata la disperazione e domandò delle spiegazioni. Le ebbe e poté anche apprendere chi avesse sconvolto le idee a quel modo al povero bambino. Si rivolse allora con bontà al Bigioni e lo pregò di non dire cose simili al fanciullo. Con grande bontà perché fino ad allora il Bigioni non le era apparso quale aspirante all'eredità di Valentino ma quale il suo più intimo amico e perciò era trattato meglio di tutti, meglio del padre, della madre, del fratello e del cugino.

Umbertino eliminò quella storia del Cielo e della pioggia. È la grande facoltà dei fanciulli quella di saper eliminare. Ah! così! Non c'è relazione fra le porte del Cielo e la pioggia? Quel signor Bigioni s'era sbagliato e non occorreva parlarne altro.

Ma gli restava un altro giocattolo: Quello del secondo padre. Al momento di coricarsi s'informò dalla sua bambinaia: «Quanti padri poteva avere ciascuno a questo mondo?». La vecchia bambinaia disse che se ne poteva avere uno solo a meno che non si volesse rinascere. Questo di nascere una seconda volta era anche un pensiero grazioso col quale si poteva giuocare. Umbertino ci dormì su ma non dimenticò. E alla mattina Antonia ebbe un bel da fare per levare da quella testina tante originali trovate. Ma così, con facilità apprese quella frase incauta del Bigioni.

E non gliela perdonò. Il Bigioni non fu più considerato l'amico di Valentino ma il suo nemico epperciò anche il nemico di lei, della superstite moglie. Essa me lo disse la mattina appresso. Interruppe il suo lungo pianto fra le mie braccia urlando: «E questa mia sventura enorme, la maggiore che sia mai toccata ad una donna viene aumentata da offese d'ogni genere». E mi raccontò quanto le era stato riferito abbastanza esattamente da Umbertino.

La sua frase condensava molte esagerazioni. Offese d'ogni genere? Non c'era stata da parte del povero Bigioni che una offesa sola: Quella di proporle così subito il matrimonio. Lasciamo andare quell'altra esagerazione di qualificare la sua sventura quale la massima che sia mai toccata ad una donna. Bisogna permettere a qualunque dolorante la soddisfazione, diciamo pure la gioia, di esaltare il proprio dolore. Anche quando lessi una frase simile di Giobbe io ammirai quel grido quale un grido di superba gioia.

Adesso io m'aspettava che il povero Bigioni sarebbe stato gettato fuori di casa a furia di calci. Non avvenne nulla di simile. Era il nemico ma era stato anche l'amico del povero Valentino, perciò bisognava rispettarlo. Tutto quello che aveva avuto una qualunque relazione con lui restò immoto in casa e perciò anche Bigioni che fumava con me, assisteva Alfio nella pittura, Carlo nella medicina, Augusta nella cura delle bestie. Gli era anche concesso di parlare di Valentino con Antonietta ma di nient'altro e non gli era concesso di occuparsi troppo di Umbertino. Del resto io stesso lo sopportavo mal volentieri quale compagno nelle mie escursioni. Con noi il vecchio e il giovane sognatore si fondeva difficilmente per quanto lo tentasse. Arrivammo un giorno con lui al disopra della galleria che s'apriva nella montagna in cui un giorno Umbertino vide sparire un treno. Eravamo poco prima passati vicinissimi a quel buco e Umbertino l'aveva appena guardato. Ora dall'alto egli s'era arrampicato sul muricciuolo e guardava immoto quella bocca aperta che vedeva per la prima volta da quel posto. Bigioni non capiva e sbadigliava. L'aveva visto poco prima da vicino e non lo aveva interessato. Che scopo c'era di restare ora in posizione tanto incomoda e persino pericolosa che obbligava me ad una sorveglianza tanto intensa per vederlo da lontano? Ma Umbertino ebbe fortuna. Una locomotiva col suo tender uscì fischiando da quel buco. Umbertino si mise ad urlare dal piacere e Bigioni spaventato lo afferrò anche lui per la giubba dicendo: «Ecco che ora s'adombra». Praticava i cavalli il povero Bigioni prima di dedicarsi ad Antonietta.

Insomma egli non fu gettato fuori di casa. Antonietta piangeva: «Non posso maltrattare l'amico – per quanto traditore – di Valentino». E lo sopportava. Il curioso era che come ci si allontanava dal giorno della morte del povero Valentino il suo contegno con l'amico dello stesso si faceva più duro. Rispondeva oramai appena appena al suo saluto. Talvolta fingeva persino di non accorgersi della sua presenza. Pareva facesse delle esperienze per scoprire con esattezza il punto a cui poteva giungere senza buttarlo fuori. Io non vorrei dire troppo male della mia unica figliuola, ma qui devo essere sincero se queste annotazioni possono conservare un qualche valore e dichiarare che, secondo me, la presenza del Bigioni era comoda ad Antonietta per poter allargare e prolungare le sue manifestazioni di dolore per la morte del povero Valentino. Si facevano facilmente più violente quando egli con la sua presenza la turbava.

E debbo dire che tutti noi seguimmo il suo esempio, cercando cioè il punto a cui potevamo arrivare con lui senza buttarlo fuori di casa. Prima di tutti io. Pochi giorni dopo la morte di Valentino egli venne a confidarsi in me e a domandarmi il mio consiglio. Stetti a sentirlo con curiosità e interesse e finsi di non aver già appreso tutto da Antonia che l'aveva saputo da Umbertino. Ero stato istruito di comportarmi così da Antonia la quale pensava che quando egli si fosse dichiarato non avrebbe potuto sottrarsi all'obbligo di gettarlo fuori di casa.

Non mi dispiaceva di star a sentire la storia di un uomo che voleva sposare a questo mondo una sola donna, quella e nessun'altra. Antonia aveva dissipato in me il dubbio che il Bigioni avesse potuto attaccarsi a lei per interesse. No, egli era ricchissimo, molto più ricco di Valentino stesso che aveva avuto affari seguiti con lui e conosceva perciò esattamente le sue circostanze. Il Bigioni col fiato corto incominciò a raccontare ch'egli in sua vita non aveva amato mai. Io subito finsi di credergli perché è una cosa che talvolta dissi di me stesso trovando ch'erano molto cortesi coloro che m'avevano creduto. Ma poco dopo, avendolo conosciuto meglio, gli credetti sul serio. Egli addirittura non s'accorgeva che a questo mondo vi fossero altre donne fuori di Antonia. Bastava camminare con lui per le vie per accorgersene. Non vedeva le tante gambe nude che vi erano esibite abbellite dalla seta.

E mi raccontò: Lui e Valentino (di poco più giovane di lui) avevano stretto un'intima amicizia che durava dalla loro infanzia. Erano uniti dallo sforzo egoistico di arricchire e pareva che dalla loro vita la donna compromettente e costosa fosse esclusa. Mai la esclusero formalmente ma non ci pensarono neppure. Ridevano di coloro che s'abbandonavano all'amore senza alcun riguardo a se stessi e al proprio avvenire. Come si poteva fare una cosa simile? Ambedue vivevano da orsi e rifiutavano di frequentare società. Evidentemente ci voleva la morte prematura del fratello perché Valentino arrivasse ad una sposa ed ora la morte sua perché al Bigioni toccasse un'avventura simile. E costui mi raccontò con piena ingenuità l'effetto che gli fece il matrimonio di Valentino. Intanto la legge, quella che aveva retto la vita di loro due, era stata spezzata. Egli si sentiva libero come colui che s'associò ad un altro per non fumare e costui ruppe il patto. Ma come usare di tale libertà? Il Bigioni non sapeva risolversi a frugare nel vasto mondo per trovarvi la moglie continuando a muoversi fra ufficio e casa propria e quella di Valentino, pur avendo deciso di sposarsi stette ad aspettare. Naturalmente presso Antonia non trovò alcuna compagna sua. E fu aspettando ch'egli s'innamorò di Antonia.

Giurava ch'egli mai aveva pensato che Valentino potesse morire né mai aveva augurato che morisse. Egli era perfettamente innocente di quella morte, ma quando avvenne, amò il suo amico molto meglio che da vivo. Era vissuto fino ad allora nell'ammirazione della felicità dell'amico. Ed ora diceva ch'egli voleva sposare Antonietta perché essa aveva dato prova di essere la vera moglie di un uomo laborioso modesto. Viceversa poi mi fu facile di scoprire che in lui c'era tutto l'amore ed anche un desiderio reso frenetico dall'ostacolo. Ricordo che qualche cosa di simile avvenne anche a me. Naturalmente oggidì, data la mia lunga pratica, m'è difficile d'intendere una pazzia simile. Magari averne di donne delle più varie qualità, grandi, piccole, bionde o brune. Parlo per quelli cui spettano, i giovani, i forti, i belli che da esse possono essere amati.

Ma causa il Bigioni io lungamente pensai a quella donna unica che poteva soddisfare il desiderio di un uomo, fatta in quelle date dimensioni, munita di quel sorriso, di quel suono di voce, di quel modo di vestire che l'accompagna anche quando essa è nuda. E si vede che non sono tanto vecchio se seppi intenderlo.

Perciò la mia prima intervista col Bigioni fu abbastanza simpatica. Lui mi studiava come se da una mia parola potesse dipendere la sua vita. Ed io studiavo lui intendendolo tutto, scoprendo in lui anche una certa umiliazione di dover tanto dipendere dal volere altrui, umiliazione cui si sottoponeva con rassegnazione senza neppur sognare una ribellione, come ad un destino triste. E nello stesso tempo studiavo me stesso con una certa ansietà. Davo prova di cecità non capendo nulla? Credetti d'intendere tutto. Era più difficile per me perché non potevo pensare – per associarmi a lui – alla stessa sua donna ch'era mia figlia, ma dovevo scoprire per fare l'esperimento un'altra donna. E pensai ad una donna bella e grande – come diceva l'Aretino che se ne intendeva – che incontro talvolta e per la quale m'assoggetto persino ad inforcare gli occhiali per vedere meglio da lontano. Tutta un'armonia, una forza, un'abbondanza di forme senz'eccesso, il piede non piccolo però ben calzato e la caviglia piccola in proporzione. Insomma una donna che può apparire unica per più o meno lungo tempo.

Intendevo tutto e le confidenze del Bigioni perciò mi fecero piacere. Dovetti moderare la sua impazienza, spiegargli che in una famiglia come la nostra, i lutti si tenevano per lungo tempo. Poi sarebbe stato l'affare di Antonietta di decidere. In quanto a me io volentieri e amichevolmente gli stringevo la mano e gli promettevo il mio soccorso.

Ma poi le sue confidenze si ripeterono troppo di frequente. Egli veniva a cercarmi ogni qualvolta Antonietta lo trattava troppo freddamente. Io anche per qualche tempo mi prestai: Mi pareva ch'egli definitivamente volesse abbandonare la nostra casa ed io avevo le mie buone ragioni per trattenerlo. Fermavo il grammofono se giusto lo avevo fatto andare e mi rassegnavo. A dire il vero seguivo il pensiero musicale che avevo dovuto interrompere e lasciavo che l'altro continuasse a parlare. Io sono capacissimo di stare ad ascoltare una persona che mi parla senza sentire una sola parola di quanto mi dice. Andò benone. Certo le cose ch'egli m'aveva raccontato io le sapevo già. Per risposta gli diedi quello cui s'attendeva cioè una buona stretta di mano e una parola di commiserazione. Ma poi le sue visite nel mio studio si fecero troppo frequenti. Ogni atto d'indifferenza da parte di Antonietta me lo gettava fra le braccia. Entrava e s'aspettava ch'io subito cessassi di suonare o di leggere. Un giorno entrò proprio nel momento in cui con grandi sforzi ero riuscito ad allontanare Umbertino che s'era pensato di voler scoprire perché il grammofono gridasse. Spazientito proposi ch'egli parlasse senza ch'io dovessi interrompere la musica. Stavo eseguendo la nona sinfonia che mi concedevo una volta per settimana e non era permesso d'interrompere una musica simile. Lo invitai a parlare a bassa voce e promisi che sarei stato ad ascoltarlo sentendo ogni sua parola. Egli stette zitto aspettando che terminasse il disco e quando io m'apprestavo di cambiarlo egli incominciò a parlare. Non ne poteva più. Ecco che Antonietta spariva dalla casa quando lui ci arrivava. Perché? Se oramai egli non domandava altro che di aver il permesso di piangere con lei il suo defunto marito?

Nel breve spazio di tempo che m'occorse per mutare il disco arrivai a dirgli che aveva commessa una grave imprudenza confidandosi in Umbertino e cessai di parlare quando la musica riprese. Avevo l'intenzione di starlo a sentire ma assolutamente non di parlare come la musica procedeva. Ed egli presto se ne andò. Era il degno amico di Valentino in fatto di musica. Solo che Valentino era sordo come una campana e poteva ascoltare musica per delle ore senza dar segno di alcuna impazienza. Fumava il suo lungo sigaro con fumate che s'accordavano al ritmo della musica. Il Bigioni invece era come un cane dall'orecchio delicato. Si faceva subito nervoso e finiva con lo scappare. Accarezzai con gratitudine il mio grammofono.

E il Bigioni non se ne andò ad onta che anche tutti gli altri facessero con lui gli stessi esperimenti. Augusta lo trattò sempre con dolcezza, ma abusò di lui. Mandò con lui a spasso la sua cagnetta Musetta e una volta l'obbligò persino di ungere la bestiolina che aveva preso la rogna. Con ciò Augusta credeva di accordare come un privilegio. E neppure questo privilegio arrivò a scacciare il Bigioni. E fu buono con Musetta che lo considerò come uno di famiglia.

Alfio com'è fatto lui non fece degli esperimenti ma si lasciò andare a manifestazioni che sarebbero bastate ad allontanare di casa qualunque oggetto anche di quelli attaccati alle pareti ma non una persona viva a modo di Bernardo Bigioni. Un giorno in uno slancio di dolore Antonietta in presenza del suo corteggiatore parlò anche di Alfio che procurava a tutti tanto dolore con le sue stranezze e la sua pittura incomprensibile. Ecco finalmente l'opportunità di dimostrarsi utile in famiglia e il Bigioni intraprese la conversione di Alfio con lo slancio che metteva in tutte le intraprese destinate ad avvicinarlo ad Antonietta. Io non so quello ch'egli abbia detto ad Alfio ma, per caso, lo trovai, nel piccolo corridoio dinanzi allo studio di Alfio, subito dopo la loro intervista, che s'asciugava il sudore della fronte. Quella sua testa, nuda al vertice, ma munita di tanto pelo alla base sino al collo, aveva una grande inclinazione al sudore.

Alfio non ci pensò di cambiare la sua pittura, ma il Bigioni s'affrettò a cambiare di gusto. Voleva comperare a tutti i costi un dipinto di Alfio. Sempre più si convinceva della bellezza di quei lavori. Ma Alfio teneva duro. Egli voleva essere sicuro che chi comperava un suo dipinto (che io qualificavo di pittura a sguazzo) sapesse anche apprezzarlo. E un giorno il Bigioni venne da me a pregarmi non più di procurargli l'amore di Antonietta ma solo l'amicizia di Alfio e pregare questi di vendergli un quadro. Non si poteva più dire che il Bigioni fosse monotono. Ed io non m'annoiai a starlo a sentire. Tutt'altro. La sua proposta mi cacciò il sangue alla testa all'accorgermi come io ero privo di ogni influenza in casa mia. Non potevo procurargli l'amore di Antonietta e a questo dovevo adattarmi perché evidentemente non era l'ufficio mio, ma non potevo neppure indurre Alfio a trattare meglio il povero Bigioni. Nulla potevo io e, sentendomi tuttavia gravato da una certa responsabilità, per rabbonire il Bigioni gli proposi qualche cosa che con ingenuità incredibile a me per un momento parve potesse compensarlo del rifiuto di Alfio: Gli proposi cioè di vendergli io il quadro di Alfio, quello che tenevo nascosto nel mio cassetto, allo stesso prezzo a cui era stato venduto a me. Ma il Bigioni neppure volle vedere il quadro e scappò come se io avessi intonata la nona sinfonia guardandomi con l'aria di chi cessa una discussione per paura di essere truffato. Questa volta fu lui ad apparirmi scortese e gli guardai dietro pieno di risentimento. Poi mi ravvisai. Il Bigioni voleva comperare Alfio stesso e non il suo quadro. Se comperava da me il quadro correva il rischio che Alfio s'arrabbiasse anche di più con lui.

Ma io credo che il Bigioni sarebbe scappato da quella nostra casa ch'era per lui una vera casa di pena se non ci fosse stata Clara, la sorella di Valentino. Dopo la morte del fratello essa, ch'era di qualche anno più vecchia di Antonia, veniva ogni giorno a tener compagnia ad Antonia per due ore nel pomeriggio. Dapprima io non sapevo amarla. Prima di tutto non mi piaceva, così grassa e quadra, con quelle gambe carnose sulle quali sarebbe stata tanto bene una gonna pulitamente lunga come si usava ai miei tempi. Aveva degli occhi belli, vivi, talvolta nel sorriso maliziosamente velati, ma non erano degli occhi che a quel corpo appartenessero e perciò vieppiù lo abbruttivano dandogli un rilievo maggiore. Poi, avendola conosciuta tanto buona e dolce, l'amai anch'io. Augusta poi le portò un affetto fatto soprattutto di riconoscenza. Per lei quella figlia sempre piangente era un vero ingombro e quando veniva Clara, essa ne era liberata per intere due ore. Io non lo so per averlo constatato io ma Augusta m'assicurò che Antonia, quand'era in compagnia di Clara, piangeva molto meno. Capisco: Si propongono di spargere quella data quantità di lacrime e in due la raggiungono più presto.

Io l'amai specialmente per il suo contegno col Bigioni. Io m'aspettavo che come sorella di Valentino avrebbe aiutato a gettarlo fuori di casa. Invece essa fu con lui ferma ma cortese. Si confidò ad Augusta e le raccontò che sinceramente essa pensava che prima o poi una giovane donna come Antonietta avrebbe finito con lo sposarsi. E allora era meglio lo facesse col Bigioni ch'era stato un sicuro amico di Valentino che con un altro. Ma il Bigioni sbagliava di certo volendo avere tanto presto quello che non gli aspettava. Ora il compito suo e di tutti noi era di tenerlo a bada e riservarlo per epoche migliori.

Ne fui incantato. Come era più pratica di quella povera Antonietta che del mondo non intendeva nulla. Così bisognava agire. Anch'essa soffriva certamente della morte del fratello ma coi suoi begli occhi chiari e troppo forti restava prudente e accorta. Già, bisogna abituarsi a quegli occhi, perché gli occhi non sono mai troppo forti. Questi qui poi vedevano chiaro anche attraverso alle lacrime.

Da allora fu la nostra compagnia prediletta. Quando Antonietta dava in escandescenze di mattina prima dell'arrivo di Clara la noia era meno forte perché si sapeva che presto sarebbe arrivato il conforto. Ed arrivava immancabile. Allora, avvisati del suo arrivo, in pieno sollievo, Augusta ed io andavamo ad incontrarla e l'accompagnavamo come in processione fino alla stanza di Antonietta. Essa ci precedeva stando ad ascoltarci ed interrompeva le nostre lagnanze ricordandoci la gravità della perdita subita da Antonietta. Era molto attenta nel concedere ad ognuno la giustizia che gli aspettava. Ed ogni giorno avevamo da ricorrere a lei per mettere a posto Antonietta che s'era arrabbiata perché all'epoca del lutto avevamo dato un pranzo a vecchi nostri amici, oppure a subire i suoi ammonimenti perché avremmo voluto che pian pianino Antonietta cominciasse a liberarsi dei tanti veli che le sarebbero stati tanto pesanti nell'estate che s'avanzava. Un giorno la ragione era tutta nostra, un altro la bilancia era piuttosto favorevole ad Antonietta. E tutti noi ci sottomettevamo volonterosi al suo giudizio.

Ci pensavo spesso a quella fanciulla brutta che mi chiariva come in nessun caso i nostri istinti possono essere aboliti ma tutt'al più deviati a mete per le quali non erano fatti. In fondo per quanto attaccata alla memoria del fratelloattaccamento dimostrato con tanta assiduità col pianto ch'essa ogni giorno gli dedicava in compagnia di Antonietta – essa non poteva fare a meno di oltraggiarla favorendo l'amore del Bigioni. È semplice: Quando a qualcuno è tolta la possibilità di fare all'amore per proprio conto è costretto dall'istinto imperioso a farlo per conto altrui.

Raramente i nostri dissapori con Antonietta riscoppiavano subito nel pomeriggio. Pareva che l'influenza benefica di Clara arrivasse ad estendersi sicuramente fino al mattino appresso. Solo bisognava stare attenti alle parole ciò che nella mia vecchiaia m'è un po' difficile. La gaffe proprio mi perseguita nei miei vecchi anni.

Eravamo seduti nella veranda dopo cena nell'ora in cui di solito echeggiava il canto del mio ubbriacone. Avevamo un po' chiacchierato e, causa il paragone con le altre sere, oso dire allegramente, per quanto quell'allegria fosse stata impiegata a lagnarmi con qualche amarezza, di mio nipote Carlo, il figlio di Guido, che mi pareva, quella sera, pieno di difetti, poco affettuoso e poco serio. Antonietta m'aveva appoggiato e ciò contribuiva a rendere la mia loquela più facile ed abbondante. Era un conforto grande quello di sentirmi appoggiato dalla mia figliuola. Sono tanto solo sempre! Mi pareva di procedere appoggiato al suo braccio, o il suo lieve peso sostenuto dal mio.

La mia distrazione provenne da una mia passeggiata alla cinta della villa sul viottolo per vedere se, per rendermi più lieto ancora, non fosse passato il mio ubbriaco. Quella sera non venne. Risi pensando che forse potesse avere bevuto più della sua solita misura e cantasse ora la sua dolce canzone sdraiato su qualche banco in un giardino. Certo anche se non poteva cantare senza musica non sarebbe stato capace di addormentarsi.

Era tardi e volevo coricarmi. Ma prima volli ringraziare Antonietta di avermi procurata una bella ora. Baciandola in fronte mormorai: «Grazie, figliuola mia. Abbiamo passato insieme una bella serata».

La sua faccina subito si oscurò. Restò un momento silenziosa eppoi disse lentamente come se avesse studiato se stessa: «Sì, la stessa serata come se Valentino non fosse morto». Rimase ancora per un istante esitante. Poi scoppiò in singhiozzi e corse via verso la sua stanza. Augusta subito la seguì ma Antonietta vedendola entrò e vi si chiuse dentro, Augusta restò dinanzi alla porta pregandola a bassa voce di aprire. Antonietta non rispose e allora io indignato volsi le spalle a quella porta e m'avviai a letto. Ero oltreché indignato anche molto offeso. Dio mio! È difficile a settant'anni non risentirsi di una mancanza di rispetto.

E durò lungo tempo la mia ira. Io m'ero coricato ma non trovavo il sonno. Tardi trovai qualche cosa d'altro: Il sospetto di aver sbagliato io. Perché avevo sentito il bisogno di constatare ch'essa s'era lasciata svagare dalle mie chiacchiere sul carattere di Carlo? Essa provava un rimorso quando abbandonava anche solo qualche ora il suo dolore e il pensiero al defunto ed io lo sapevo ed avevo sentito io il bisogno di farla subito avvisata che deviava così? E intravvidi la possibilità che un discendente mio fosse stato così incline a dedizioni totali e a voti. Mi rivedevo in Annetta benché contorto e ancora meno amabile. Fu un piccolo incubo. E allora anche la pittura di Alfio poteva essere mia? Ora che col grammofono io avevo corretto la mia musica ricordavo come, finché avevo suonato il violino, essa era stata composta di suoni approssimativi e di ritmi sbagliati, qualche cosa di analogo alla pittura di Alfio. Mi ribaltai nel letto pieno di rimorsi.

Quando Augusta venne a raggiungermi a letto tentai di riavermi e di ribellarmi a quel giudizio sul mio contegno e anche a quella visione d'essere io – benché innocente – la fonte di tutte le bestialità che inquinavano la mia casa. Domandai ad Augusta: «Che ti dissefingendo di destarmi allora per dar prova dell'innocenza assoluta, quella che è tanto vicina al sonno.

Ma quando essa mi raccontò che Antonietta le aveva raccontato che sentendomi vantare la gioia di quella serata, le era parso che addirittura le fosse pervenuto un rimprovero dalla bocca stessa di Valentino, io ricaddi sul guanciale vinto. Lottai! Io avevo solo voluto dire che quell'ora era stata tanto gradevole che subito m'ero sentito meglio disposto al sonno. Non si trattava mica di una gioia che potesse oltraggiare il lutto.

Con un sospiro Augusta s'adagiò nel suo letto dopo di aver avvicinata la poltrona su cui dormiva ben coperta la sua cagnetta. Mormorò: «Sai bene come è fatta».

Mi parve volesse rimproverarmi di averla fatta io così. E stetti zitto. Per quella sera non seppi protestare. E vidi della mia vita tutta la parte ch'era stata dedicata ai rimorsi e ai rimpianti mentre a dire il vero non sapevo scorgerci dei delitti. Forse c'erano stati ma io non li ricordavo come non li ricordava Antonietta cui era spettata la parte meno gradevole dell'eredità. Tanti ereditano dal padre il naso lungo mal disegnato e lasciano ai fratelli la sua bella statura o gli occhi espressivi. A lei toccava i miei rimorsi da lei tanto più insopportabili perché del tutto irragionevoli.

Presto la respirazione di Augustafattasi più rumorosa con gli anni – m'annunziò ch'essa già dormiva. Nell'oscurità le tirai la lingua come un ragazzo male educato. Tanta innocenza mi parve poi eccessiva. Restavo proprio solo a soffrire coi miei rimorsi. Abbastanza giusto quello che mi derivava dall'aver parlato fuori di posto. Grave, insopportabile, quello di veder rinascere nei miei figliuoli i miei più gravi difetti.

Carlo è veramente una persona tanto divertente che si può svagarsi già mettendosi a parlare di lui. Anche lui apparentemente non avrebbe nulla del padre suo. Forse la sicurezza, la sicurezza di Guido nel suonare il violino. Io vado a cercare l'analogia più lontana. Soltanto che Carlo non suona alcun istrumento e la sua sicurezza la dimostra nel saper vivere e godere. Vivere accortamente non facendo alcun errore che lo danneggi, e godere abbondantemente della vita. Talvolta appare stanco ma fuori che la sua salute (di cui non si cura molto benché sia studente in medicina ciò che farebbe dubitare della bontà dei suoi studii) non compromette nient'altro. Riceve da casa sua un mensile non eccessivo che però gli basta perfettamente. È contrario alla rivalutazione della lira che non gli converrebbe perché riceve il suo mensile in valuta estera ma del resto di politica non si occupa. Forse è allontanato dalla nostra patria dalla sua nuova, di cui però credo poco si occupi. Adesso che parla perfettamente l'italiano mi pare la sua parola abbia una maggiore vivacità di quella dei suoi coetanei. La parola nella bocca del maggior numero di noi è un po' vizza per il lungo uso. Chi di noi si sforza d'inventare? Lui, invece, traduce allegramente modi di dire dal suo spagnuolo argentino e tutto in bocca sua si rinfresca senza sforzo. Studia tutto quello che gli occorre. Sa anche a memoria degli squarci di greco e di latino, che cita con grande ira al ricordo della fatica che gli costarono per ricordarli. So per sua propria confessione che il suo corpo s'è fatto tanto sottile a forza di passare al ginnasio e al liceo di classe in classe per il buco della chiave.

Ama le donne deciso e convinto. Anzi per quanto si diverta a qualunque specie di giuochi (di carte specialmente), proclama ad alta voce che c'è un solo godimento a questo mondo. E non sa astenersi dal fare delle continue allusioni a quel godimento, tali, che se non fossero sempre molto spiritose, ci offenderebbero. Se la prende talvolta con Augusta che non sa mai indovinare i suoi sensi reconditi. Noi due, maliziosi, ridiamo molto ma mai quanto lei quando ha finito con l'intendere. Quando finisce con l'intenderli, minaccia di crollare dalla sedia dal ridere. Una lieta serenità si estende a tutt'una adunanza quando egli vi interviene, naturalmente se nell'adunanza non vi sono degli ostacoli troppo grandi come, in casa nostra, un Alfio offeso nella sua pittura o un'Antonietta in lutto profondo.

Ma la sua serenità non è diminuita da alcuna preoccupazione. Ci raccontò d'essere stato perseguitato per varii giorni dall'avversità a giuoco: «La disgrazia non è grande» disse con l'aria di scoprire una cosa straordinaria «quando le carte son cattive. A poker la perdita grossa è prodotta dalle carte buone. Sono stato fortunato in questa settimana, disgraziatamente». Perdeva raramente perché sapeva sempre giuocare un po' meglio di tutti i suoi avversarii. E sapeva giuocare tutti i giuochi. Da pochi anni io so ch'esiste un giuoco difficilissimo che si chiama bridge. Ma ne appresi l'esistenza simultaneamente alla comunicazione che in città il miglior giuocatore di tale giuoco appena arrivato dall'Inghilterra era Carlo. "Figlio di un cane" pensai io, ma senza ricordare ch'egli era il figliuolo di Guido "sa tutti i giuochi costui. Ed è persino superiore a me nell'unico giuoco a carte ch'io tuttavia pratico, quello di un solitario non troppo complicato". Tutti gli altri giuochi io da molti anni lasciai. Quando negli ultimi anni mi sedevo ad un tavolo da giuoco, mi sentivo subito condannato, ciò ch'era un sentimento tanto penoso che dovetti smettere. Curioso! Mi sento tanto giovine e sono tanto differente da quello ch'ero nella mia giovinezza. Che fosse la vera, la grande vecchiaia cotesta?

Con un colpo d'occhio egli m'avvisava di un errore. M'abbandonava poi per dedicarsi al suo giornale e ripiombava nel mio giuoco con un accenno opportunissimo che mi serviva moltissimo e che a me che fissavo continuamente le carte perveniva come un aiuto necessario. Però benché non lo facessi vedere il suo intervento mi seccava e turbava perché io amo il solitario perché è solitario. Poi mi rassegnavo: Già è noto che chi è fuori del giuoco lo intende meglio del giuocatore ch'è distratto dallo stesso sforzo cui si costringe.

La sua compagnia m'era graditissima. Io ero sempre in cura del dottor Raulli ma a quest'ora il purgante che giornalmente prendevo era prescritto da Carlo, da un mese a questa parte è suo anche l'espettorante (che a dire il vero dapprima mi parve una cosa miracolosa e adesso meno). Infine la mia dieta, sempre per suo consiglio, si fece sempre più esagerata. Dimagrai e mi sento, a dire il vero, meglio ora che anni addietro. Se continuassi così chissà che salti farò a ottant'anni. Basta lasciare il tempo necessario alla dieta per agire perché è d'effetto lento.

Ma perciò sono attaccatissimo a lui. Quando mi sento abbattuto invece che incoraggiarmi con parole, mi tocca il polso eppoi mi deride. La sua bella faccia bianca ha una derisione ch'è abbastanza affettuosa. Del resto non c'è da arrabbiarsi perché in quella faccia c'è stampata sempre una lieve derisione nel labbro superiore, rasato accuratamente, che un po' pende, un leggero rigonfiamento che si scorge subito in mezzo a quei tratti dal disegno preciso, nitido.

Eppoi c'è anche qualche cosa d'altro che m'attacca a lui. È la prima persona con cui, dacché vivo, dunque nel corso di interi settant'anni, ho saputo essere sincero. Ed è un grande riposo la sincerità, un enorme riposo dopo tanta mia fatica. Dio sa quello che mi portò a tanto. Forse anche la necessità di non ingannare il mio medico. Fui sincero con Carlo benché non interamente. Non è indiscreto ma intelligente per cui gli fu possibile di un mio lieve cenno per intendere tutto. Non fu nominataCarla, né le altre ed anzi le donne del sobborgo non le sospettò neppure. Si divertì enormemente ed io con lui. Lui menava vanto dei suoi trascorsi ed è una cosa tanto lieta quel vanto ch'io non seppi non goderne anch'io. Perciò fui un po' meno sincero perché finii con l'esagerare un poco. Non molto però e non spesso. Solo nel numero delle donne. Più spesso esagerai le loro qualità. Però mai le dichiarai principesse del sangue. Una designai come duchessa per non dire che si trattava della moglie di un commendatore. Avrei potuto dirla moglie di un cavaliere e non ci sarebbe stata indiscrezione, ma che farci? Amavo di apparire importante a Carlo. Eppoi mi sentivo tanto bene nella sincerità che mi pareva ch'eccedendo fossi ancora più sincero. Così forse scoprivo quello che avrei fatto se gli altri me lo avessero permesso. La confessione diventava più sincera ancora.

E Carlo fu molto discreto.

Ogni domenica egli era a cena da noi. Per me era quella la cena migliore della settimana. Egli era tanto tetragono alla bestialità altrui che non sentiva il malumore di nessuno finché non era proprio gridato e perciò era capace di ridere molto anche se seduto accanto al lutto di Antonietta. Non lo offendeva perché assolutamente non lo vedeva. Ed io lo seguivo finché potevo. Certo non c'era nessun momento in cui io sapessi dimenticare il lutto di Antonietta e il rancore di Alfio come faceva lui. M'era più facile se poi c'era il Cima. Eravamo più forti in tre contro la musoneria di due e la tristezza imbarazzata della povera Augusta capace di lagnarsi più tardi a quattr'occhi con me ma incapacissima di ribellarsi alla propria figliuola.

Ora una sera si parlò della fedeltà dei mariti. Naturalmente capitò subito fuori quella di Valentino e non capisco con quale senso perché oramai era assoluta. Augusta ebbe il cattivo gusto di menzionare la mia fedeltà e se ne parlò abbastanza a lungo perché allora Antonietta s'avvide che il suo fedele era morto e pianse quella fedeltà morta mentre Augusta era stata tanto fortunata che il suo marito docile, buono e fedele era tuttavia vivo.

Improvvisamente Carlo scoppiò a ridere ed io passai un momento veramente atroce. Non poteva parlare dal ridere e perciò il mio imbarazzo si prolungò tanto ch'io stavo preparandomi alla difesa. Avrei continuato a difendere con le mani e coi piedi la felicità del mio matrimonio come avevo saputo farlo nel corso di tanti anni. Trovai! Ero pronto a dichiarare ch'io avevo ingannato Carlo per ridere con lui. Lui era l'ingannato, ingannato da me, e nessun altro. Per Augusta bastava questo. Ma come sarebbe stato per Alfio e per Antonietta più giovini e più maliziosi?

Quando Carlo poté parlare mi domandò: «Da quanti anni non sei più fedele?».

Io balbettai: «Non capisco». Non protestai la mia innocenza perché intanto capivo che Carlo non poteva voler parlare dei miei recenti tradimenti che forse non c'erano e di cui, certo, lui non poteva saper nulla. Se avesse domandato invece da quanti anni io fossi fedele, allora avrei subito protestato: «Sempre lo fui e ho deriso e ingannato solo te, birbante».

«Perché» spiegò Carlo «lo stato attuale dello zio non può più esser qualificato di fedeltà. Volevo perciò sapere da quanti anni non fosse più fedele».

Egli toccava un tasto alquanto delicato, ma meno delicato di quello che prima aveva minacciato. Io ficcai il naso nel piatto per celarvi il viso che poteva essere segnato dalla confusione. Poi volli ridere: «Toccherà anche a te di arrivare alla fedeltà per forza».

Ma Carlo, e qui si dimostrò la sua discrezione, rispose: «In me si chiamerà altrimenti perché non sarà stata preceduta dalla fedeltà voluta».

Io respirai ma avevo passato un quarto d'ora tanto brutto che mi proposi che quando Carlo sarebbe finalmente ritornato a Buenos Aires, io avrei per sempre rinunziato alla sincerità per quanto potesse dolermi. Perché abbandonarmi ora per amore di una stupida chiacchiera, ora che non correvo altri pericoli?

Già allora si parlava di una sua relazione con una donna sposata e doveva essere questa che lo tratteneva a Trieste perché già son sicuro che neppure a Buenos Aires mancano gli ammalati che abbisognano di cure. Sua madre aveva scritto per richiamarlo a sé ma egli aveva fatto le orecchie di mercante. Aveva dei riguardi per quella madre che viveva proprio per lui, rimasto il solo figliuolo per la morte dell'altro gemello, e le scriveva una breve cartolina postale ogni giorno. Ma non le stava accanto volentieri. Pare ch'essa lo tormentasse con troppe manifestazioni d'affetto e lo trattasse sempre come un bambino che abbisognasse di carezze e raccomandazioni. Io ridevo di quelle cartoline postali che dovevano arrivare in cumulo a Buenos Aires. Carlo, rassegnato, mi spiegava ch'essa era fatta così. Avrebbe ordinato quelle cartoline postali, rivisto se ce ne fosse una per giorno e si sarebbe anche lagnata se non avessero combaciato coi giorni del calendario. «Capisco» soggiungeva con un sospiro «che dovrò finire col raggiungerla». Eppoi: «Già, anche a Buenos Aires ci sono delle donne».

L'esagerazione di Ada m'interessava anzi, un po', mi sollevava. Purtroppo io non ci entravo affatto. Dunque alle esagerazioni nella mia famiglia aveva collaborato anche la famiglia Malfenti.

E un bel giorno volli provarlo ad Augusta. Scoprii per la prima volta come essa pensava a me. Sorridendo mitemente e affettuosamente me lo confessò. Io somigliavo ad Alfio. Fisicamente e anche moralmente. Le donne sono sempre povere di parole precise. Essa non sapeva dare la prova di quanto sentiva. Ma vedeva, sentiva e soprattutto voleva bene a lui e anche a me, nella stessa maniera. Poi anche Antonietta mi somigliava. E non sapeva darne la prova. «Ma c'è qualche cosa fra di voi di simile. Qualche cosa che a me non piace, allo stesso modo non piace, ma che in te destò una mia compassione, un dispiacere, per te, per te, sai, e in lei invece un po' d'ira».

Si correva in automobile verso Miramare. Il sole era tramontato da poco ed era una beatitudine posare gli occhi sull'immensa distesa di acqua su cui si baloccavano miti colori riposanti che non sembravano trasformati da quelli abbacinanti che li avevano preceduti. Io m'abbandonai a tale riposo e cercai di dimenticare la mite donna che mi stava accanto e che m'aveva indovinato meglio di quanto io e, come spero, lei stessa lo sapessimo.

E vidi per un momento i caratteri umani ereditarsi l'uno dall'altro, perfettamente deformi ma sempre trasparentemente identici in modo che persino Augusta se ne potesse accorgere con un'ispirazione non basata sulla ragione. Ma poi mi ribellai: A che cosa serviva la legge dell'eredità se tutto poteva risultare da tutto? Tanto fa non saperne niente se si doveva ricercare come Carlo sia disceso da quella bestia di Guido e quei bestioni di Antonietta e Alfio da me.

Ma Carlo aveva già allora in città la posizione in un giovine dottore di qualche nome. Sapeva trattare con tutti, lui, risparmiando la dignità di coloro di cui gl'importava, niente affatto quella delle persone da cui non dipendeva, ma anche sempre la propria. Anche il Raulli lo stimava ma credo, un poco, lo temesse. Pare che nei primi giorni della sua ammissione all'ospedale Carlo abbia osato fra colleghi una diagnosi un po' azzardata. Il Raulli lo tacciò davanti ad altri dottori d'ignoranza. E Carlo si difese con una frase che prima girò fra' medici e poi trapelò fra il pubblico creandogli una fama come se avesse salvato la vita ad un moribondo. Ancora adesso quando si nomina il dott. Speyer la gente si mette a ridere: «Ah, quello dell'ignoranza e dell'errore!». Infatti era lui. Carlo aveva dichiarato al Raulli che certo i giovani dottori si trovavano nell'ignoranza, ma che, com'era provato dalla stessa storia della medicina, i vecchi si trovavano tutti nell'errore. Il Raulli restò senza parole e rispose, a bassa voce sapendo di aver torto: «Questo si poteva dire fino a mezzo secolo fa ma non ora, eh, giovinotto».

E adesso qualcuno mi vada a scoprire somiglianze con Guido in Carlo. Guido ch'era petulante finché poteva aggredire, ma che perdeva la parola non appena sentiva sul proprio corpo la pressione dell'aggressore.

Certo tutto questo istinto di buon affarista di quel magnifico medico, ed era quella la qualità che in lui più mi seduceva, poteva venire dal nonno Giovanni Malfenti. Ma prima di tutto io so che in mio suocero l'istinto degli affari si sviluppò tardi, anzi insieme alla sua grossa pancia. Ma poi come sarebbero pervenute al fine Carlo delle qualità di quel grosso e grezzo uomo ignorante, qualità ch'io m'ero abituato a considerare proprio connaturate a quel suo adipe, alla meditazione che naturalmente in lui si faceva sedata e tranquilla?

Carlo era vivo e un po' nervoso ciò che aumentava la sua vivacità. Si sentiva se ti era seduto accanto, una vera, una grande compagnia. Non stava mai fermo e batteva spesso e rapidamente col tacco il pavimento: «Trillo del tacco» egli diceva sorridendo rassegnato. Fuma molto ma molto volentieri e sempre delle sigarette squisite. Alfio fuma anche lui ma rabbiosamente il suo puzzolente sigaro toscano. Neppure nel fumo non ha ereditato nulla da me.

Tale mia affezione a Carlo si spiega un po' con la solitudine in cui ero lasciato dai miei figliuoli. Lo prova il fatto che Augusta tanto più bisognosa di affetti di me cercò dapprima il suo Carlo fra le bestie e, non bastandole, si associò a Renata che oramai è la sua compagna inseparabile.

Renata entrò in casa di Antonietta quattr'anni or sono per sostituire la vecchia nutrice di Umbertino ritiratasi nel suo villaggio. Venne da noi quando Antonietta da noi si trasferì e passò al servizio di Augusta quando Umbertino di lei non ebbe più bisogno perché cominciò ad andare a scuola. Renata continuò solo a tenergli compagnia di sera perché egli non sapeva addormentarsi nella solitudine popolata per lui di tanti animali aggressivi e Antonietta dopo cena restava con noi.

Così Renata ebbe una vita facilissima ma abbastanza complicata. Non aveva molto da fare (attualmente non fa altro che pulire la stanza da pranzo, il salotto di ricevimento e il mio studio) ma il suo ozio la lega per tutto il giorno. Prepara il pane che viene offerto giornalmente sulla terrazza ai passeri, tiene in ordine due gabbie di canarini ed è adibita anche al servizio di Musetta. Pare che tutto ciò la diverta enormemente perché è sempre di buon umore ed è tanto bello d'essere serviti da gente sorridente. Se ne ha tutta la comodità e nessun rimorso! Per andare al mio studio debbo passare davanti alla cucina e immancabilmente sento echeggiare da il suono un po' roco del riso abbondante e sincero di Renata.

Come seppi associarmi all'amore per le bestie di Augusta, così mi fu facilissimo di accompagnarla anche nell'amore a Renata. Certo in me non si muove altro che un amore paterno, vecchio come sono. Ma mi piace di vederla così giovine, ben messa, la piccola figurina su quelle gambe un po' lunghe, svelta e nervosa. Ha una testina che non è una perfezione, ma graziosissima con quei capelli bruni ricciuti, gli occhi vivi, i denti bellissimi. È una friulana e andava a passare ogni anno 15 giorni di permesso presso la madre sua, ma ne ritornava sempre un po' dimagrita.

Augusta volle vedere come la sua Renata vi fosse trattata e andammo con l'automobile al suo villaggio presso Gorizia. Fu avvisata della nostra venuta e ci aspettava sulla via principale del paese, abbastanza linda e pulita. Disse arrossendo che ci era venuta incontro perché la sua casa giaceva su una viuzza nella quale non c'era accesso per l'automobile.

Augusta avrebbe voluto insistere: «Ma io avrei voluto conoscere tua madre».

«Eccola » disse Renata, rossa, rossa, col suo solito riso un po' spezzato.

Ad un cenno di Renata una vecchietta che stava seduta solitaria su un banco sotto a un grande ippocastano, si levò e s'avvicinò a noi. Era evidentemente messa di festa, molto all'antica, le gonne lunghe, il fazzoletto di colore annodato elegantemente sulla testa. Ma tutto, lei compresa grigia e sdentata, molto sbiadito. Volle baciare la mano ad Augusta. Parlava quasi perfetto il friulano e né io né Augusta comprendemmo niente di quei suoni che uscivano scomposti ora a destra ora a sinistra di quella bocca mancante degli organi che regolano il suono.

L'intervento di Fortunato, il nostro chauffeur rese l'intervista più lieta. Egli era di quei paesi e disse alla vecchia, in friulano, delle cose che la fecero sganasciare dal ridere. Il riso la costringeva a piegarsi in due. Eccessivo, forse per celare l'imbarazzo che in lei tuttavia persisteva. Augusta le consegnò i doni che aveva portati e Renata la indusse a lasciarci e andare a casa ove c'era un uomo, il fratello, che presto sarebbe ritornato dal lavoro a domandare il suo pasto. La vecchia protestò: Il pasto era già pronto dalla mattina, pur già avviandosi per obbedire alla figliuola.

«Stimo io» rise Fortunato, «la polenta sa aspettare. È il cibo più paziente del mondo».

Insomma si capiva che Renata non desiderava noi vedessimo la sua casa e dovemmo rassegnarci e partire senz'averla vista.

Domandai a Fortunato come egli avesse fatta la conoscenza della madre di Renata. Il falsone mi rispose che loro di quei villaggi si conoscevano l'un l'altro come se avessero abitato la stessa città. E invece, poco dopo, fu noto a tutti che lui e Renata facevano all'amore.

Dapprima la cosa ci dispiacque. Ci pareva che implicasse una diminuzione di dignità per Renata. Fortunato era diventato chaffeur da poco tempo, dopo la morte del povero Hydran un magnifico cavallo fattosi bolso due anni dopo ch'era stato comperato e che, per una falsa bontà, avevamo lasciato esaurirsi fino all'ultimo. Poi, per la grande impressione che ci aveva lasciato la sua morte, non volemmo più saperne di cavalli e per il nostro grande affetto per un cavallo rifiutammo ogni contatto con la razza ch'ebbe tanta pazienza con l'uomo finché l'uomo frettoloso non ne ebbe più con essa.

Così Fortunato da cocchiere dopo una lunga istruzione che mi lasciò per varii mesi senza carrozza e senz'automobile, assurse alla dignità di chauffeur. Era lento nell'intendere le cose ma quando le aveva intese non le dimenticava più. Dapprima non si arrivava mai alla mèta, mentre ora si va prestino talvolta anche troppo perché dopo ogni gita un po' lunga, mi vengono imposte da tutte le parti delle multe. Fortunato asserisce che non c'è modo di accontentare le guardie per le quali pare che la multa sia un cespite di rendita. E questo può essere vero. Di Fortunato come chauffeur si può anche dire che certe panne lo sorprendono e lo indignano e non sa vincerle. Da vecchio cocchiere vorrebbe applicare la frusta. Una volta dovemmo abbandonarlo in mezzo alla campagna per fortuna non lontano dalla città e ritornare a piedi. Egli arrivò a casa a notte tarda e, a quanto mi dicono, bestemmiando. Aveva dimenticato di guardare l'indicatore della benzina e tardi, molto tardi, s'era accorto che il serbatoio era asciutto. Vero è che da allora quando la macchina s'arrestava, automaticamente il suo occhio correva all'indicatore della benzina. Tutto a forza di panne ed io ne avevo le ossa rotte. «Ma noi vecchi» diceva Augusta rassegnata «non amiamo di vedere delle facce nuove».

E così Fortunato restò sempre a casa. Funge anche da giardiniere, senza un grande gusto, ma con un certo amore. E non ha troppo da fare. Tant'è vero che trovò il tempo di sedurre la nostra piccola amica.

La quale lo trattava già come un marito, cioè con poco amore. Amava chiamarlo quello delle panne ciò che mi faceva ridere maliziosamente dopo che Carlo m'aveva spiegato come si potesse farlo. C'era anche fra di loro qualche differenza per i lavori. Essa avrebbe voluto ch'egli fosse incaricato anche dell'ordine nel salotto perché c'erano delle piante, e quand'egli protestava essa rideva: «Non è tuo tutto quello che è mio?».

Era tanto più lento di lei ch'era rapida e intendeva prima che si fosse finito di parlare. È vero che Renata poi spesso dimenticava mentre Fortunato non sbagliava più dopo di aver fatto sprecare una quantità di fiato prima di afferrare esattamente quello che gli si diceva.

Era curioso poi come prima d'intendere studiasse anche dei dettagli privi d'importanza per lui. Veniva per esempio incaricato di dire qualche cosa ad Augusta quando sarebbe andato a prenderla con l'automobile da una sua amica. «Io dunque» riepilogava Fortunato «ho da essere alle 6 alla porta di casa Guggenheim e quando la signora Augusta scenderà...». Faceva un'analisi approfondita del movimento di tutti. Ed io, spazientito, urlavo: «Ma lascia che la signora scenda da sola». Egli si scoteva tutto come se stesse per perdere l'equilibrio e allora capivo che bisognava lasciarlo parlare, dire tutte le parole che occorrevano per ordinare il suo pensiero.

E alla sera, coricandomi, dicevo ad Augusta: «Come saprà vivere quella bambina con quell'uomo tanto poco intelligente?».

E Augusta rispondeva: «Ma io non credo che l'intelligenza occorra per la felicità».

Ma il povero Fortunato correva un bel rischio. Noi si aveva deciso di tenere più vicina a noi che fosse possibile la piccola inserviente. Io proposi una camera di più che sarebbe stata utile in avvenire per i bambini che potrebbero venire. Ma Augusta mi raccontò una sera ch'essi avevano deciso di non aver dei bambini. Accettavano però una camera di più... per il grammofono, una cosa che gridava solo quand'era caricata.

E poche sere dopo mi raccontò che quella sfacciatella di Renata aveva dichiarato che se avessero sentito il bisogno di avere dei bambini se li sarebbe fatti fare da qualcuno un po' più svelto di Fortunato.

Ridemmo molto io e Augusta. Lei perché riteneva fosse una parola scherzosa priva d'importanza, io perché realmente mi piacque e non m'importava di sapere se fosse detta sul serio o meno. Anche Renata pensava alla legge dell'eredità?

Carlo cui raccontai come al solito tutto per sottoporre al commento della generazione presente quello che io sapevo intendere meno, mi disse: «Ma tu sbagli, zio. Essa non pensa affatto all'eredità. Pensa ai bisogni dell'ora presente».

Io non subito intesi. Finsi però di ridere e quando intesi risi sul serio molto. Poi ci pensai ancora: Forse Carlo aveva ragione ma, nello stesso tempo, potevo aver ragione anch'io. Che cosa sono i bisogni dell'ora presente? Non sono dettati da un'imposizione imperiosa che vuol preparare il futuro?

              

               IL MIO OZIO

Già il presente non si può andar a cercare né sul calendario né sull'orologio che si guardano solo per stabilire la propria relazione al passato o per avviarci con una parvenza di coscienza al futuro. Io le cose e le persone che mi circondano siamo il vero presente.

Il mio presente si compone di varii tempi anch'esso: Ecco un primo lunghissimo presente: l'abbandono degli affari. Dura da otto anni. Un'inerzia commovente. Poi ci sono avvenimenti importantissimi che lo frazionano. Il matrimonio di mia figlia per esempio, un avvenimento ben passato che s'inserisce nell'altro lungo presente, interrotto – o forse rinnovato o, meglio, corretto – dalla morte del marito. La nascita del mio nipotino Umberto anch'essa lontana perché il presente vero in rapporto a Umberto è l'affetto che oramai gli porto, una sua conquista di cui egli non sa neppure e che crede spettargli per nascita. O crede qualche cosa in genere quel minuscolo animo? Il suo, il mio presente in rapporto a lui, è proprio il suo piccolo passo sicuro interrotto da paure dolorose che sono però curate dalla compagnia di pupattoli quando non sa conquistarsi l'assistenza della mamma o la mia, del nonno. Il mio presente è anche Augusta com'è orapoverina! – con le sue bestie cani, gatti e uccelli, e la sua indisposizione eterna di cui non vuole curarsi con l'energia voluta. Fa quel poco che le prescrive il dottor Raulli e non vuole ascoltare né me – che con forza sovrumana seppi vincere la stessa tendenza, la decompensazione del cuore – né Carlo, nostro nipote (il figlio di Guido) ritornato da poco dall'Università e che perciò conosce i medicinali più moderni.

Certo, gran parte del mio presente, proviene dalla farmacia. Incominciò tale presente in un'epoca che non saprei precisare ma fu ad ogni momento tagliato da medicinali e concetti nuovi. Dov'è andato il tempo in cui credevo di aver provvisto a tutti i bisogni del mio organismo ingerendo ogni sera una buona dose di polvere di liquerizia composita o di quei semplici bromuri in polvere o in brodo? Adesso con l'aiuto di Carlo ho a disposizione ben altri mezzi di lotta contro la malattia. Carlo mi dice tutto quello che sa, io, invece, non tutto quello che immagino perché ho paura ch'egli non sia d'accordo con me e mi rovini con obbiezioni il castello ch'io cercai con tanto sforzo e che mi concede una tranquillità, una sicurezza che le persone della mia età di solito non hanno. Un vero castello! Carlo crede ch'io accettiprontamente ogni suo suggerimento per fiducia in lui. Macché! Io so ch'egli sa molte cose e cerco di apprenderle e praticarle tutte ma con discrezione. Le mie arterie sono in disordine e di questo non c'è dubbio. L'estate scorsa arrivai a una pressione del sangue di 240 mm. Non so se per quella causa od altra, fu quello un periodo di abbattimento grande. Finì che il joduro in grandi dosi eppoi un altro specifico di cui mai ricordo il nome, portarono la pressione a 160 ove finora rimase... Interruppi un momento di scrivere per andar a provarla sulla macchinetta che ho sempre pronta sul mio tavolo. È proprio 160! Prima m'ero sempre sentito minacciato dal colpo apoplettico che proprio sentivo arrivare. La vicinanza della morte non mi rendeva veramente buono perché poco amavo tutti coloro che dal colpo non erano minacciati ed avevano l'aspetto odioso di gente sicura che compiange, commisera e si diverte.

Ma, guidato da Carlo, io curai anche degli organi che in nessun modo avevano domandato aiuto. Ma si capisce che ogni mio organo può sentirsi stanco dopo tanti anni di lavoro e gli giovi d'essere aiutato. Io invio loro il soccorso non domandato. Tante volte, quando capita la malattia, il medico sospira: Sono stato chiamato troppo tardi! È meglio perciò prevedere. Non posso imprendere delle cure per il fegato quando non diede segno di essere ammalato ma non posso mica espormi a finire come il figliuolo di un mio amico che a 32 anni in piena salute, un bel giorno si fece giallo come un cocomero per un assalto violento d'itterizia eppoi in quarant'otto ore morì. «Non era stato mai ammalato» mi diceva il povero padre «era un colosso e dovette morire». Molti colossi finiscono male. Io l'ho osservato e sono ben contento di non essere un colosso. Ma la prudenza è una bella cosa ed io ogni lunedì mando in regalo al mio fegato una pillola che lo protegga da improvvise acute malattie almeno fino al lunedì seguente. Le reni sono sorvegliate da me con analisi periodiche e finora non diedero mai segno di essere ammalate. Ma io so che possono aver bisogno di un soccorso. La dieta esclusivamente lattea al martedì mi una certa sicurezza per il resto della settimana. Sarebbe bella che gli altri che alle reni mai pensano abbiano un loro funzionamento sicuro mentre io che ad esse ogni settimana porto un sacrificio possa essere rimeritato improvvisamente con la sorpresa che toccò al povero Copler.

Cinque anni or sono, circa, io fui disturbato da una bronchite cronica che m'impediva il sonno e m'obbligava talvolta di saltare dal letto e passare ogni notte varie ore seduto in poltrona. Il dottore non volle dirmelo ma si trattava certo anche di debolezza cardiaca. Raulli mi prescrisse allora di cessar di fumare, di dimagrare e di mangiare poca carne. Visto che cessar di fumare era difficile cercai di completare la prescrizione rinunciando del tutto alla carne. Il dimagrare neppure era facile. Pesavo allora novantaquattro chilogrammi netti. In tre anni riuscii a diminuire di due chilogrammi e perciò per arrivare al peso desiderato dal Raulli avrei abbisognato di altri diciott'anni. Ma era un po' difficile mangiare poco quando si deve astenersi dalla carne.

Devo qui confessare che il mio dimagrimento lo devo proprio a Carlo. Fu uno dei suoi primi successi curativi. Egli mi propose di saltare uno dei tre miei pasti quotidiani ed io risolsi di sacrificare la cena che noi a Trieste prendiamo alle otto di sera a differenza degli altri italiani che fanno colazione a mezzo e prendono il pranzo alle sette. In ogni giorno digiuno ininterrottamente per diciott'ore.

Intanto dormii meglio. Sentii subito che il cuore non occupato più dal travaglio della digestione poteva dedicare ogni suo battito ad irrorare le vene, ad allontanare i detriti dall'organismo, a nutrire soprattutto i polmoni. Io che avevo già provato l'orrenda insonnia, l'agitazione enorme di chi anela alla pace e proprio perciò la smarrisce, giacevo inerte ad attendere pacifico il calore e il sonno che arrivava lungo, una vera parentesi nella vita affaticante. Il sonno dopo la lauta colazione è tutt'altra cosa: Allora il cuore provvede alla sola digestione ed è esonerato da qualunque altra cura.

Si provò così prima di tutto ch'io ero meglio adatto ad astenermi che a moderarmi. Era più facile non cenare affatto che limitare il cibo a colazione e di mattina. Qui non c'erano oramai altre limitazioni. Due volte al giorno potevo mangiare quanto volevo. Ciò non nuoceva perché poi seguivano 18 ore di autofagia. In un primo tempo la colazione di pasta asciutta e legumi era completata da alcune uova. Poi abolii anche queste non per volere del Raulli o di Carlo ma in seguito ai consigli assennati di un filosofo, Erberto Spencer, il quale scoperse una certa legge per cui gli organi che – per sovranutrizione – si sviluppano troppo rapidamente, sono meno forti di quelli che impiegano maggior tempo a crescere. Si trattava di bambini, naturalmente, ma io sono convinto che il ricambio sia anch'esso uno sviluppo e che anche un bambino di settant'anni fa bene ad amare i suoi organi piuttosto che sovranutrirli. Poi Carlo fu molto d'accordo col mio teorema anzi talvolta vorrebbe far credere di averlo inventato lui.

In questo sforzo di rinunziare alla cena mi fu di grande utilità il fumo col quale, per la prima volta in mia vita, mi riconciliai anche in teoria. Il fumatore sa digiunare meglio degli altri. Una buona fumata addormenta qualsiasi appetito. È proprio al fumo che io credo di dovere di aver saputo ridurre il peso del mio corpo a ottanta chilogrammi netti. Una grande tranquillità quella di fumare ora per misura igienica. Si fuma un poco di più a coscienza perfettamente tranquilla. In fondo la salute è uno stato veramente miracoloso. Raggiunto da una collaborazione di varii organi le cui funzioni conosciamo ma mai interamente (come lo ammette persino Carlo che ha tutta la scienza, persino quella della nostra ignoranza) è da credersi che la salute perfetta non esiste mai. Altrimenti sarebbe anche più miracoloso che cessi.

Le cose che si muovono potrebbero moversi eternamente. Perché no? Non è questa la legge in cielo dove è certo vige la stessa legge che in terra? Ma io so che dalla nascita in poi anche la malattia è prevista e preparata. Da bel principio qualche organo è più debole e lavora con qualche sforzo e costringe a qualche sforzo qualche organo fraterno e dove c'è lo sforzo s'ingenera la fatica e perciò, infine, la morte.

Perciò, solo perciò, la malattia seguita dalla morte non rivela alcun disordine nella nostra natura. Io sono troppo ignorante per sapere se lassù in cielo, com'è quaggiù in terra, ci sia infine anche la possibilità della morte e della riproduzione. Io so soltanto che qualche stella e anche qualche pianeta ha dei movimenti meno completi. È certo che un pianeta che non rotea su se stesso è zoppo o cieco o gobbo.

Ma fra i nostri organi c'è uno ch'è il centro, quasi il sole in un sistema planetario. Fino a pochi anni or sono si credeva fosse il cuore. A quest'ora tutti sanno che la nostra vita dipende dall'organo sessuale. Carlo torce il naso dinanzi alle operazioni di ringiovanimento ma anche lui quando si parla di organi sessuali si leva il cappello. Dice: Se si arrivasse a ringiovanire gli organi sessuali certo si ringiovanirebbe tutto l'organismo. Ciò non mi fu appreso. Lo avrei saputo da me solo. Ma non ci si riuscirà. È impossibile. Dio sa quale sia l'effetto della glandola della scimmia. Forse l'operato al vedere una bella donna si sente indotto ad arrampicarsi sull'albero più vicino. È anche questo un atto abbastanza giovanile.

Si capisce: Madre natura è maniaca, ha cioè la mania della riproduzione. Tiene in vita un organismo finché può sperare che si riproduca. Poi lo ammazza e lo fa nei modi più diversi per quell'altra sua mania di restare misteriosa. Non amerebbe di rivelare il suo pensiero ricorrendo sempre alla stessa malattia per sopprimere i vecchi. Una malattia che renda chiara la ragione della nostra morte, un piccolo cancro sempre allo stesso posto.

Io sono stato sempre molto intraprendente. Esclusa l'operazione volli truffare madre natura e farle credere ch'io sempre ancora fossi atto alla riproduzione e mi presi un'amante. Fu questa la relazione più calma ch'io m'abbia avuta in vita mia: Prima di tutto io non la sentii quale un trascorso, o quale un tradimento ad Augusta. Sarebbe stato un bizzarro sentimento questo: A me pareva che quella di prendermi un'amante fosse una decisione equivalente a quella di entrare in una farmacia.

Poi naturalmente le cose si complicarono un poco. Si finisce coll'accorgersi che una intera persona non si può usare quale un medicinale: È un medicinale complesso contenente anche una proporzione forte di veleno. Io non ero ancora ben vecchio. È una storia di tre anni fa e contavo dunque 67 anni: Non ero ancora un vegliardo. Perciò anche il mio cuore che quale organo di secondaria importanza nell'avventura non sarebbe dovuto entrare, finì col parteciparvi. E così avvenne che qualche giorno anche Augusta ebbe un vantaggio dalla mia avventura e fu accarezzata, amata, compensata come all'epoca di Carla. Il curioso è ch'essa non ne fu sorpresa, non s'avvide neppure della novità. Essa vive nella sua grande calma e trova naturale ch'io m'occupi di lei meno che in passato, ma questa nostra attuale inerzia non diminuisce il nostro legame ch'è stato annodato con carezze e parole affettuose. Queste carezze e parole affettuose non hanno bisogno di essere ripetute per continuare, per esistere in qualche posto, un legame fra noi sempre vivo e sempre ugualmente intimo. Quando un giorno, per calmare la mia coscienza, le misi due dita sotto al mento e la guardai lungamente negli occhi fedeli, essa con abbandono s'accostò a me e mi porse le labbra: «Sei rimasto sempre affettuoso tu». Ciò mi sorprese un poco al momento. Poi guardando con attenzione nel passato, m'avvidi infatti che io di affetto non avevo mai mancato in modo da negare l'amore antico che le avevo portato. L'avevo anche abbracciata un po' distrattamente ogni sera prima di chiudere gli occhi al sonno.

Fu alquanto difficile trovare la donna che cercavo. In casa non c'era alcuna che s'adattasse a tale ufficio tanto più ch'io ero alieno dall'insudiciare la mia casa. L'avrei fatto data la necessità in cui mi trovavo di truffare madre natura in modo che non credesse ancora giunto il momento di mandarmi la malattia finale, e la grande, enorme difficoltà di trovare fuori di casa quello che faceva al caso mio, per un vecchio occupato con l'economia politica, ma proprio non c'era il verso. La più bella donna in casa mia era proprio Augusta. C'era una fanciullina di quattordici anni che Augusta impiegava per certi servizii. Compresi che se mi fossi accostato a quella, madre natura non m'avrebbe creduto e m'avrebbe eliminato rapidamente con quel fulmine che sta anch'esso sempre a sua disposizione.

È inutile raccontare come io abbia trovata Felicita. Io, per amore all'igiene, andavo ogni giorno a rifornirmi di sigarette molto al di di piazza Unità ciò che implicava l'obbligo di una passeggiata di oltre mezz'ora. La venditrice era una vecchia donna ma la proprietaria dell'appalto e che vi passava varie ore al giorno per sorvegliare era propria Felicita, una ragazza di circa ventiquattr'anni. Dapprima credetti che l'appalto ella lo avesse ereditato; molto più tardi seppi che l'aveva proprio comperato coi proprii denari. la conobbi. Fummo presto d'accordo. Mi piaceva. Era una biondina che si vestiva di molti colori, stoffe che non mi parvero di gran prezzo, ma sempre nuove e molto vistose. Era superba della propria bellezza fatta di una testina piccola gonfiata da capelli tagliati corti ma ricciuti intensamente e una figurina graziosa molto eretta come se contenesse un piuolo e si tenesse un po' pendente per indietro. Intravvidi subito il suo gusto per i colori varii. A casa questo gusto si rivelava intero. La casa talvolta non era ben riscaldata ed una volta registrai i suoi colori: Un fazzoletto rosso in testa legato col gusto delle nostre contadine, un fazzoletto di broccato giallo sulle spalle, un grembiule trapunto in rosso giallo e verde sulla gonna azzurra e un paio di pantofole trapunte di lana di varii colori. Una vera figurina orientale, mentre la faccina pallida era proprio dei nostri paesi con quegli occhi che guardavano cose e persone attentamente per poterne trarre tutto il vantaggio. Un mensile fu subito stabilito e per dire il vero tanto vistoso ch'io con tristezza lo confrontai con quelli tanto più tenui prebellici. E la cara Felicita già al 20 del mese cominciava a parlare dello stipendio che andava a scadere, ciò che turbava una buona parte del mese. Lei fu sincera, trasparente. Io lo fui meno ed essa mai seppe ch'io ero venuto a lei dopo di aver studiato dei testi di medicina.

Lo dimenticai presto anch'io. Devo dire che a quest'ora rimpiango quella casa tutta rustica meno una stanza messa con buon gusto proprio col lusso corrispondente a quello ch'io pagavo, dai colori molto serii e povera di luce in cui Felicita appariva come un fiore variopinto. C'era un fratello di Felicita che abitava nella stessa casa: Un uomo molto serio buon operaio elettrotecnico che si guadagnava una giornata abbastanza lauta. Aveva l'apparenza macilenta ma non era perciò che non s'era sposato, ma per economia come fu facile intendere. Io parlai con lui ogni qualvolta Felicita lo chiamava a rivedere le sicurezze della luce della nostra camera. Scopersi che fratello e sorella erano consociati a farsi al più presto possibile una certa sostanza. Felicita conduceva una vita molto seria fra l'appalto e la casa e Gastone fra l'officina e la casa. Felicita doveva guadagnare molto di più di Gastone ma ciò non importava visto che per lei – come lo seppi più tardi – l'ausilio di quel fratello le sembrava necessario. Era stato lui che aveva organizzato quell'affare dell'appalto che si dimostrò quale un buon impiego di denaro. Egli era tanto convinto di condurre la vita dell'uomo giusto che aveva degli accenti di disprezzo per tutti quegli operai che spendevano tutto quello che guadagnavano senza pensare al domani.

Insomma si stava abbastanza bene insieme. La stanza, così seria, tenuta tanto accuratamente, ricordava un po' l'ambulanza del medico. Soltanto che Felicita era una medicina un po' aspretta che bisognava ingoiare senza dar tempo agli organi del palato di gustarla troppo a lungo. Subito da bel principio, anzi prima di fare quel contratto e per incorarmi a farlo, aderendo a me, essa mi disse: «Ti assicuro che non mi fai schifo». Era abbastanza dolce perché detto con grande dolcezza, ma mi stupì. Io veramente non ci avevo mai pensato di non far schifo. Anzi avevo creduto d'esser ritornato all'amore, dal quale da lungo tempo m'ero astenuto per una falsa interpretazione delle leggi dell'igiene, per concedermi, donarmi a chi m'avesse desiderato. Questa sarebbe stata la vera pratica igienica cui tendevo e che altrimenti sarebbe stata incompleta e poco efficace. Ma, ad onta dei denari che pagavo per la cura, non osai di spiegare a Felicita come io la volessi. Ed essa molto spesso abbandonandosi a me la guastava con piena ingenuità: «Curioso! Non mi fai schifo». Un giorno con la brutalità di cui io sono capace in certe circostanze, le mormorai dolcemente all'orecchio: «Curioso! Neppure tu non fai schifo a me». Ciò la fece ridere tanto che la cura fu interrotta.

Eppure io talvolta oso vantarmi con me stesso, per rilevarmi, sentirmi più sicuro, più degno, più alto, dimenticare di aver dedicato una parte della mia vita allo sforzo di non fare schifo, che Felicita, in qualche breve istante della nostra lunga relazione, pur m'abbia amato. E quando cerco una sua sincera espressione di affetto, non la trovo né nella dolcezza sempre immutabile con cui essa m'accoglieva ogni volta, né nella sua cura materna con cui mi proteggeva dai giri d'aria, né, una volta, la sua sollecitudine, di coprirmi con un soprabito del fratello, e prestarmi un ombrello perché mentre stavamo insieme, fuori era scoppiato un temporale, ma ricordo un balbettio sincero: «Come mi fai schifo! Come mi fai schifo!».

Un giorno in cui come al solito parlavo di medicina con Carlo, egli mi disse: «A te occorrerebbe una fanciulla affetta di gerontomania». Chissà? Non lo confessai a Carlo ma forse io la fanciulla l'avevo già trovata una volta eppoi perduta. Solamente non credo che Felicita sia stata una sincera gerontomane. Mi prendeva troppi denari perché si possa credere che proprio m'amasse come sono.

Fu certo la donna più costosa ch'io avessi conosciuta in tutta la mia vita. Studiava con serenità, con quei suoi begli occhi sereni, spesso socchiusi per scrutare meglio, fino a che punto io mi sarei lasciato saccheggiare. Dapprima e per lungo tempo s'accontentò esattamente del mensile perché io, non ancora reso suo dal bisogno dell'abitudine, accennavo a rifiutarmi a spese maggiori. Tentò più volte di mettermi la mano in tasca e la ritrasse per non esporsi al rischio di perdermi. Ma poi, una volta le riuscì. Ebbe da me il prezzo di una pelliccia abbastanza costosa che poi mai vidi. Un'altra volta si fece pagare tutto un vestito, un modello di Parigi e me lo fece poi vedere. Ma, per cieco ch'io fossi, i suoi vestiti variopinti non si dimenticavano, e scopersi di averle già veduto indosso quel vestito. Era una donna economa e simulava il capriccio solo perché pensava che un uomo intende più facilmente il capriccio che l'avarizia di una donna. Ed ecco come contro il mio volere la relazione ebbe fine.

Io avevo la facoltà di andare da lei due volte alla settimana ad ore precise. Ora avvenne che un martedì dopo di essermi avviato alla sua casa a mezza strada scopersi che sarei stato meglio solo. Ritornai nel mio studio e serenamente mi dedicai sul grammofono alla IX sinfonia di Beethoven.

Poi il mercoledì non avrei sentito tanto forte il bisogno di Felicita ma fu proprio la mia avarizia che a lei mi spinse. Pagavo un forte mensile e in certo modo non approfittando dei miei diritti finivo col pagare troppo. Bisogna poi ricordare che quando io mi prendo una cura sono molto coscienzioso nell'applicarla con tutta l'esattezza più scientifica. Solo così alla fine si può giudicare se la cura è buona o cattiva.

Con la rapidità che le mie gambe mi concedono fui in quella ch'io credevo la nostra stanza. Per il momento apparteneva ad altri. Il grosso Misceli, un uomo di circa la mia età sedeva su un seggiolone in un cantuccio, mentre Felicita era comodamente abbandonata sul sofà e intenta a gustare una grossa sigaretta finissima, di quelle che nel suo appalto non si trovavano. In fondo era esattamente la posizione in cui ci trovavamo Felicita ed io quando eravamo lasciati soli, con la differenza che mentre il Misceli non fumava io m'associavo a Felicita già fumando.

«Ella desidera» domandò Felicita in tono gelido e guardandosi attentamente le unghie della mano in cui teneva la sigaretta.

Io non trovavo alcuna parola da dirle. Mi fu resa più facile la parola dal fatto che, a dire la verità, io non sentii alcun risentimento per il Misceli. Il grosso uomo, vecchio come me, in apparenza molto più vecchio perché imbarazzato dal suo grande peso, mi guardava esitante oltre gli occhiali lucenti appoggiati alla punta del naso. Io sento sempre gli altri vecchi come più vecchi di me.

«Oh, Misceli» dissi deciso ben risoluto di non fare delle scene, «tanto tempo che non ci vediamo». E gli porsi la mano in cui egli mise la grossa sua che lasciò molto inerte. Non fiatò ancora! Davvero si dimostrava più vecchio di me.

A quell'ora con l'oggettività ch'è propria dell'uomo assennato io avevo inteso perfettamente che la mia posizione era identica a quella del Misceli. Mi parve che perciò non ci fosse posto a risentimento. In fondo non era altro che un casuale scontro su un marciapiedi. Si va oltre per quanto possa dolere la parte eventualmente lesa mormorando una parola di scusa.

Per questo pensiero il gentiluomo ch'io sempre fui, si ricostituì intero in me. Mi parve fosse il mio dovere di rendere più facile anche la posizione di Felicita. E le dissi: «Senta, signorina, a me occorrerebbe un centinaio di scatoline di sigarette sport, ma ben scelte, perché ho da fare un dono. Soffici, mi raccomando. L'appalto è un po' lontano e mi son permesso di salire per un istante».

Felicita cessò dal guardarsi le unghie e fu molto gentile. Si alzò anche e volle accompagnarmi alla porta. A bassa voce, con accento intenso di rimprovero arrivò a dirmi: «Perché non sei venuto ieri?». Eppoi, subito: «E perché sei venuto oggi?».

Mi offese. Era disgustoso di vedermi limitato a giorni fissi e per quel prezzo. Mi procurai subito il sollievo di lasciar scoppiare il mio rancore: «Son venuto qui solo per avvisarti che io non ne voglio più sapere di te e che non ci vedremo più!».

Essa mi guardò sorpresa e per vedermi meglio s'allontanò da me pendendo per un momento ancora più fortemente per indietro. A dire il vero un atteggiamento strano, ma che le dava una certa grazia di persona sicura che sa conservare l'equilibrio più difficile.

«Come vuoi» disse stringendosi nelle spalle. Poi, per essere sicura di avermi inteso bene, al momento di aprire la porta, mi domandò: «Dunque non ci vediamo più?». E mi guardò scrutando la mia faccia.

«Certo, non ci vediamo più» dissi io con qualche stizza. M'accingevo a scendere le scale quando rumorosamente si avvicinò alla porta il grosso Misceli urlando: «Aspetta, aspetta, vengo anch'io con te. Ho già detto anch'io alla signorina quante sigarette sport m'occorrono. Cento. Come a te». Scendemmo insieme le scale mentre Felicita dopo una lunga esitazione di cui mi compiacqui rinchiuse la sua porta.

Scendemmo la grande erta che conduceva a piazza Unità, lentamente, attenti di mettere i piedi a posto. Sull'erta egli, più pesante, appariva certamente più vecchio di me. Ci fu anzi un momento in cui incespicò e minacciava di cadere, ed io prontamente lo soccorsi. Non mi ringraziò. Era un po' affannato ed il travaglio su quell'erta non era ancora finito. Perciò, solo perciò non parlava. Tant'è vero che quando giungemmo in pianura dietro al palazzo municipale, sciolse lo scilinguagnolo e parlò: «Io, le sport non le fumo. Ma è la sigaretta preferita dal nostro popolo. Ho un regalo da fare al mio falegname e allora volevo procurarmene di buone, di quelle che la signorina Felicita sa procurare». Adesso che parlava non sapeva più procedere che passo a passo. Si fermò del tutto per frugare una tasca dei suoi pantaloni. Ne trasse una scatola d'oro da sigarette; premette un bottoncino e la scatola si spalancò. «Ne vuoi una?» domandò. «Sono denicotinizzate». Io accettai e mi fermai anch'io per accenderla. Egli era fermo solo per ritrovare il posto alla scatola nella sua saccoccia. Ed io pensai: "Poteva darmi un rivale che fosse più degno di me". Infatti io mi muovevo meglio di lui tanto sull'erta che in pianura. In suo confronto io ero addirittura un ragazzo. Fumava anche delle sigarette denicotinizzate prive di alcun sapore. Come ero più virile io che avevo sempre tentato di non fumare ma alla vigliaccheria delle sigarette denicotinizzate non ci avevo pensato mai.

Come Dio volle arrivammo alla porta del Tergesteo ove bisognava dividersi. Il Misceli parlava oramai di tutt'altre cose: Affari di Borsa in cui egli era versatissimo. Ma mi pareva accaldato e anche un po' assorto. Mi pareva insomma ch'egli parlasse ma non ascoltasse se stesso. Era come me che non l'ascoltavo affatto e invece lo guardavo tentando d'intendere proprio quello ch'egli non diceva.

E non volli staccarmi da lui senza aver tentato di essere meglio informato su quello ch'egli pensava. E a questo scopo cominciai col rivelare intero me stesso. Scoppiai cioè: «Quella Felicita è una donnaccia». Il Misceli mi diede uno spettacolo nuovo, quello del suo imbarazzo. La sua grossa mandibola inferiore aveva un movimento che ricordava quello dei ruminanti. Si preparava a parlare movendo intanto quell'organo prima di sapere quello che avrebbe detto?

Poi disse: «A me non pare. Ha delle ottime sport». Voleva continuare la stupida commedia all'infinito. Io m'arrabbiai: «Ma insomma tu ritornerai ancora dalla signorina Felicita?».

Un altro momento d'esitazione: La mandibola sua si sporse, viaggiò a sinistra, e ritornò a destra prima di adagiarsi al suo posto giusto. Poi disse e per la prima volta tradì un grande desiderio di ridere: «Certo, ritornerò a lei non appena mi occorreranno delle altre sport».

Risi anch'io. Ma volli delle altre spiegazioni: «Perché allora la abbandonasti oggi?».

Egli esitò e vidi che nei suoi occhi foschi che s'affissavano verso il fondo della contrada si manifestava una grande tristezza: «Ho dei pregiudizi io. Quando vengo interrotto in qualche cosa credo subito di ravvisare il dito della provvidenza e abbandono tutto. Una volta ero avviato a recarmi a Berlino per un affare importante e m'arrestai a Sesanna ove il treno per non so che causa fu impedito di procedere per varie ore. Non credo che le cose di questo mondo vadano forzate... specialmente alla nostra età».

Non mi bastò e gli chiesi: «Non ti fece nulla di vedere che anch'io andavo a prendere le sport dalla signorina Felicita?».

Egli rispose subito deciso in modo che la sua mandibola non ebbe il tempo di roteare: «E che vuoi che m'importi? Geloso io? Mai più! Siamo vecchi, noi due. Siamo vecchi! Talvolta possiamo concederci di fare all'amore. Ma gelosi non dobbiamo essere perché facilmente incorriamo nel ridicolo. Gelosi mai! Se ascolti me, non farti scorgere geloso perché si riderebbe di te».

Le parole suonavano abbastanza bonarie, scritte come sono su questa carta, ma il tono era piuttosto forte pregno d'ira e di disprezzo. Arrossato nel grosso volto egli s'era accostato a me e mi misurava più piccolo di me guardando in alto come se avesse cercato di scoprire sul mio corpo il punto più vulnerabile da colpire. Perché ce l'aveva con me nello stesso momento in cui si dichiarava non geloso? Che altro gli avevo fatto? Può essere egli l'avesse con me perché aveva arrestato il suo treno a Sesanna quando egli s'apprestava di arrivare a Berlino.

Neppure io ero geloso. Cioè avrei voluto sapere quanto egli pagasse mensilmente a Felicita. Mi pareva che se avessi saputo che – come a me pareva giusto – egli avesse pagato più di me, io mi sarei dichiarato contento.

Ma non ebbi il tempo neppure d'indagare. Tutt'ad un tratto il Misceli si fece più mite e s'appellò alla mia discrezione. La sua mitezza si convertì in minaccia quando ricordò ch'eravamo uno in mano dell'altro. Lo rassicurai: Ero sposato anch'io e sapevo quale importanza poteva avere nel nostro caso una parola imprudente.

«Oh!» fece lui con un gesto rassicurante «non è per mia moglie ch'io ti raccomando la discrezione. Mia moglie di certe cose non si occupa da lunghi anni. Ma so che anche tu sei in cura del dottor Raulli. Ora egli minacciò di abbandonarmi se non mi tenevo alle sue prescrizioni, se bevevo un solo bicchiere di vino, se fumavo più di dieci sigarette e quelle denicotinizzate al giorno e non m'astenevo... da tutto il resto. Egli dice che il corpo di un uomo della nostra età è un corpo che sta in equilibrio solo perché non sa risolvere da quale parte cadere. Perciò non bisogna accennargli quella parte perché allora la sua decisione sarebbe facile». Continuò commiserandosi: «In fondo è facile prescrivere ad un altro: Non fare questo, né quello, né quell'altro. Si potrebbe anche dirgli che piuttosto che vivere così si può rassegnarsi a vivere qualche mese di meno».

Restò ancora per qualche istante con me e lo impiegò per informarsi della mia salute. Gli dissi ch'ero arrivato una volta a 240 millimetri di pressione ciò che gli piacque molto perché egli non aveva raggiunto che i 220. Con un piede sullo scalino che conduce al Tergesteo mi fece un saluto amichevole e mi disse: «Acqua in bocca, mi raccomando».

Quella bella figura retorica del Raulli del corpo del vecchio che resta in piedi perché non sa da che parte cadere, m'ossessionò per qualche giorno. Certo il vecchio dottore, quando parlava di «parte» voleva significare organo. E quell'equilibrio aveva anch'esso la sua significazione. Il Raulli doveva sapere quello che diceva. Da noi vecchi con la designazione di salute deve significarsi un indebolimento progressivo e contemporaneo di tutti gli organi. Guai se uno di essi resta in arretrato cioè troppo giovanile. Io mi figuro che allora la collaborazione può convertirsi in lotta e che gli organi deboli possono essere trattati a pugni, si può immaginare con quale magnifico risultato per l'economia generale. L'intervento del Misceli poteva perciò essere stato voluto dalla provvidenza che tutelava la mia vita e m'aveva persino mandato a dire col mezzo di quella bocca dalla mandibola vagante come io avessi da comportarmi.

E ritornai pensieroso al mio grammofono. Nella nona sinfonia ritrovai gli organi in collaborazione e in lotta. In collaborazione nei primi tempi, specie nello scherzo ove persino ai timpani è concesso di sintetizzare con due note quello che intorno ad essi tutti mormorano. La gioia dell'ultimo tempo mi parve ribellione. Rude, di una forza che è violenza con lievi, brevi rimpianti ed esitazioni. Non per nulla è intervenuta nell'ultimo tempo la voce umana, il suono meno ragionevole in tutta la natura. È vero che altre volte io avevo interpretato altrimenti quella sinfonia come la più intensa rappresentazione di accordo tra le forze più divergenti nelle quali infine viene accolta e fusa anche la voce umana. Ma quel giorno la sinfonia eseguita dagli stessi dischi apparve come dissi.

«Addio, Felicita» mormorai quando la musica fu morta. Non bisognava pensarci più. Non valeva tanto da rischiare per lei il crollo improvviso. C'erano tante teorie mediche a questo mondo che era difficile di farsene dirigere. Quei poltroni di medici avevano contribuito solo a rendere più difficile la vita. Le cose più semplici sono troppo complicate. Astenersi dalle bevande alcooliche è una prescrizione dalla verità evidente. Ma d'altronde si sa che talvolta l'alcool ha delle proprietà curative. Dovrò poi attendere l'intervento del medico per concedermi il conforto di tale potente medicamento? Non v'è dubbio che la morte è talvolta l'opera di un capriccio improvviso e che potrebbe essere passeggero di un organo o della casuale coincidenza momentanea di varie deficienze. Sarebbe momentanea – voglio dire – se non è seguita dalla morte. Bisogna fare in modo che sia momentanea. Dunque l'intervento dev'essere pronto e magari precorrere il crampo per eccessiva attività o il collasso per inerzia. A che aspettare il medico che viene e corre ad annotare la visita? Io solo posso essere avvisato in tempo del bisogno d'intervento da un lieve malessere. Purtroppo i medici non hanno studiato quello che in tale caso possa soccorrere. Io perciò allora ingoio varie cose: Caccio giù un purgante con un sorso di vino eppoi mi studio. Può esserci bisogno di altro intervento: Un bicchiere di latte ma anche qualche goccia di digitale. Le minuscole quantità che furono consigliate da quell'eccelso uomo che fu il Hannemann. Quelle minuscole quantità la cui sola presenza basta a produrre le reazioni necessarie all'attivamento della vita come se un organo più che essere nutrito o eccitato ha bisogno di essere ricordato. Vedendo una goccia di calcio esclama: «Oh, guarda! L'avevo dimenticato. Il mio dovere è di lavorare».

Questa era la condanna di Felicita. Non si poteva dosarla.

Alla sera venne da me il fratello di Felicita. Vedendolo trasecolai dallo spavento tanto più che fu proprio Augusta che lo diresse fino al mio studio. Paventando quello ch'egli volesse dirmi fui ben contento che Augusta subito s'allontanò. Egli sciolse i nodi di un fazzoletto da cui trasse un pacco: Cento scatoline di sigarette sport. Le distribuì in cinque parti ciascuna da venti scatoline e fu perciò facile di verificarne la quantità. Mi fece poi vedere come ogni scatolina fosse molle al tatto. Erano state scelte una per una da una grande partita. Era sicuro che mi sarei trovato contento.

Io ero infatti contentone perché dopo di esser stato tanto spaventato mi sentivo rassicurato del tutto. Pagai subito le 160 lire che gli dovevo ed anzi lietamente lo ringraziai. Lietamente anche perché ero proprio pervaso dal desiderio di ridere. Curiosa donna quella Felicita che, abbandonata, non negligeva l'interesse del suo appalto.

Ma il pallido uomo, lungo, allampanato, dopo di aver ficcato in saccoccia le lire ricevute, non accennava ancora ad andarsene. Non pareva il fratello di Felicita. Io l'avevo già visto altre volte ma vestito meglio. Ora era privo di colletto e il suo vestito era lindo ma veramente sdruscito. Strano che sentisse anche il bisogno di avere un cappello speciale per il giorno di lavoro: Quello poi era veramente sudicio e sformato dal lungo uso.

Mi guardava intensamente ed esitava a parlare. Pareva che il suo sguardo un po' fosco in cui la luce brillava fuori di posto m'invitasse a indovinare quello ch'egli doveva dirmi. Quando egli finalmente parlò il suo sguardo si fece anche più supplice, tanto supplice che finì col sembrarmi minaccioso. Già supplicare intensamente rasenta la minaccia. Io capisco benissimo che messe in balìa di certi contadini, le immagini dei Santi cui furono rivolte le preci, finiscano per punizione sotto al letto.

Finalmente disse con voce sicura: «Felicita dice che siamo al dieci del mese».

Guardai il calendario da cui io giornalmente strappo un foglio e dissi: «Ha proprio ragione. Siamo al dieci del mese. Non c'è dubbio».

«Ma allora» disse egli esitante «essa è creditrice per tutto il mese».

Un attimo prima ch'egli avesse parlato io avevo capito perché m'aveva indotto a guardare il calendario. Credo di aver arrossito nel momento in cui scoprivo che fra fratello e sorella tutto era chiaro, sincero, onesto in base a conti precisi. L'unica parola che mi diede sorpresa fu la domanda esplicita di pagare per il mese intero. Ero anche in dubbio se veramente io dovessi pagare qualche cosa. Nella mia relazione con Felicita non avevo tenuto i conti con tanta esattezza. Non avevo io pagato sempre in anticipazione e non era perciò saldata quella frazione di mese col pagamento già fatto? E rincasai un po' a bocca aperta a guardare quegli occhi strani per intendere se fossero supplici o minacciosi. È proprio dell'uomo di grande e lunga esperienza come sono io di non sapere come ha da comportarsi perché sa che da una sua parola, da una sua azione, possono risultare le cose più imprevedute. Basta leggere la storia universale per sapere come cause ed effetti possono mettersi nelle relazioni più strane. Nella mia esitazione trassi intanto il portafoglio e anche contai il denaro assorto a non prendere per una carta da cento lire una da cinquecento. E quando ebbi contate le banconote gliele consegnai. Così tutto fu fatto mentre io credevo di movermi per guadagnare tempo. E pensai: "Intanto pago eppoi ci penserò".

Ma il fratello di Felicita non ci pensò più tant'è vero che il suo occhio cessò di fissarmi e perdette ogni intensità. Mise i denari in altra tasca di quella in cui aveva cacciato le centosessanta lire. Teneva i conti e i denari separati. Mi salutò: «Buona sera, signore» e uscì. Ma subito ritornò perché aveva dimenticato su una sedia ove l'aveva posto un altro pacchetto simile a quello che aveva consegnato a me. Per scusarsi d'essere ritornato mi disse: «Sono altre cento scatoline di sport che devo portare ad un altro signore».

Certo erano per il povero Misceli che neppur lui poteva soffrire quelle sigarette. Io però fumai tutte quelle sigarette meno qualche scatolina che regalai al mio chauffeur, Fortunato. Quando ho pagato qualche cosa prima o poi finisco col consumarla. È una prova del senso d'economia ch'è in me. Ed ogni volta che avevo quel sapore di paglia in bocca ricordavo più vivamente Felicita e suo fratello. A forza di pensarci seppi ricordare con piena sicurezza ch'io infatti non avevo pagato i mensili che dovevo anticipatamente. Dopo di aver pensato d'essere stato truffato di molto fu un sollievo per me di scoprire che m'avevano fatto pagare solo per venti giorni in più.

Io credo poi ch'io sia ritornato ancora una volta da Felicita, prima che trascorressero i venti giorni per cui avevo pagato, solo per quel mio sullodato senso di economia che m'aveva fatto ingoiare anche le sport. Mi dissi: «Giacché ho pagato, voglio rischiare anche una volta – l'ultima – il pericolo di accennare al mio organismo da quale parte possa crollare. Per una volta! Non s'accorgerà della buona occasione».

La porta del quartiere s'aperse nel momento stesso in cui m'accingevo di suonare. Nell'oscurità vidi con sorpresa la bella faccina pallida chiusa come in una visiera nel cappellino rosso che le copriva la testa fino alle orecchie e alla nuca. Un riccio biondo, uno solo, sbucava dal cappello sulla fronte. Sapevo che circa a quell'ora essa soleva andare all'appalto a sorvegliare quella parte della sua gestione commerciale la più complicata. Ma avevo sperato d'indurla di ritardare di quel poco di tempo che a me occorreva.

Essa subito non mi ravvisò nell'oscurità. Fece in forma di domanda un nome che non era né il mio né quello del Misceli, ma che non sentii bene. Quando mi ravvisò mi porse la mano gentilmente senz'ombra di rancore e con qualche curiosità. Io trattenni la sua manina fredda in ambe le mie e mi feci aggressivo. Essa lasciò giacere inerte quella mano ma ritirò la testa. Mai il piuolo su cui essa era costruita s'era inclinato tanto indietro, tanto che mi sentii tentato di lasciar andare quella mano e afferrarla alla vita, non per altro scopo che di sostenerla.

E quella faccia lontana adornata da quel solo riccio mi guardava. O guardava proprio me? Non guardava proprio ad un problema ch'ella s'era imposto e che abbisognava di una soluzione pronta, subito, su quelle scale?

«Adesso è impossibile» disse dopo un'esitazione lunga. Mi guardò ancora. Poi ogni esitazione scomparve da lei. La sua figurina restò nella sua posizione tanto pericolosa, immota, e la sua faccina restò pallida e seria sotto a quel riccio biondo, ma senza fretta proprio come se avesse agito in seguito a una risoluzione seria ritirò la sua manina.

«Sì! È impossibile» aggiunse. Si ripeteva per far credere che studiasse ancora se forse pur non ci fosse un mezzo per contentarmi, ma fuori di questa ripetizione non c'era in lei altro segno che veramente ancora studiasse e pensasse. Allora essa aveva già deciso, definitivamente.

E mi disse, poi: «Dovresti, se puoi, ritornare al primo del mese... vedrò... ci penserò».

È da poco, solo dacché ho steso questa storia dei miei amori con Felicita che mi sono fatto abbastanza oggettivo per giudicare me e lei con sufficiente giustizia. Io mi trovavo per asserire il mio diritto a quei pochi giorni che ancora mancavano al mio abbonamento. Essa, invece, mi comunicava che io con la mia rinunzia avevo perduto quel diritto. Io credo che se mi avesse proposto di pagare per iniziare subito un nuovo abbonamento, avrei sofferto meno. Sono sicuro, poi, che non sarei scappato. Io in quel momento ero avviato all'amore e proprio alla mia età si somiglia molto al coccodrillo in terra ferma di cui si dice che abbisogni di tanto tempo per mutare di direzione. Avrei pagato subito per il mese intero magari col proposito di farlo per l'ultima volta.

Invece così m'indignai. Non trovai parole; quasi non trovai l'aria per respirare. Dissi: «Uff» con la massima indignazione. Credetti di aver detto qualche cosa ed anzi restai per un istante fermo come se mi fossi atteso che a quel mio «uff», un grido che doveva ferire lei e dar sfogo al mio profondo sconforto, essa avrebbe risposto qualche cosa. Ma né lei, né io dissimo altro. Io mi accinsi a scendere le scale. Fatti pochi scalini mi fermai, e mi rivolsi a rivederla. Forse c'era ora su quella faccia pallida qualche segno che smentisse tanto duro egoismo, tanto freddo calcolo. Non ne vidi la faccia. Essa era tutt'intenta a cacciare la chiave nella toppa per chiudere il quartierino che doveva e restar vuoto per qualche ora. Io ancora una volta dissi: «Uff», ma non più tanto ad alta voce da essere sentito da lei. Lo dicevo a tutto il mondo, alla società, alle nostre istituzioni e a madre natura che avevano tutti permesso ch'io mi trovassi su quella scala e in quella posizione.

Fu il mio ultimo amore. Adesso che tutta l'avventura è andata a ordinarsi nella regola del passato, non lo ritengo più tanto indegno, perché Felicita con quei suoi capelli biondi, la faccia pallida, il nasino affilato, gli occhi misteriosi, la parola parca che non spesso rivelava quanto freddo fosse quel suo cuore, può essere rimpianta. Ma, dopo di lei, non ci fu posto ad altri amori. Essa m'aveva educato. Io, fino ad allora, quando il caso mi permetteva di soggiornare per oltre dieci minuti presso una donna, sentivo sorgermi dal cuore speranza e desiderio. Certamente avevo il desiderio di celare l'uno e l'altra ma ancora più forte c'era quello di aumentarli per sentire meglio la vita e la mia appartenenza ad essa. Per aumentarli non c'era altro modo che di vestirli di parole e rivelarli. Chissà quante volte si sarà riso di me? Alla carriera di vegliardo cui sono ora condannato, io fui educato da Felicita. Io appena ora so che in amore io non valgo altro che per quello che pago.

E la mia bruttezza m'è sempre presente. È di questa mattina che destandomi studiai in quale posizione avessi trovata la mia bocca al momento in cui apersi gli occhi. La mandibola inferiore pendeva da quella parte su cui ero giaciuto e sentii fuori di posto anche la lingua inerte e gonfia.

Pensai subito a Felicita cui tanto spesso penso con desiderio ed odio. In quel momento mormorai: «Ha ragione».

«Chi ha ragionedomandò Augusta che stava vestendosi.

Ed io risposi subito: «Ha ragione un certo Misceli in cui m'imbattei e che mi disse che non si capisce perché si nasca, si viva e si divenga vecchi».

Così le avevo detto tutto senza compromettermi affatto.

E nessuno finora mai rimpiazzò Felicita. Cerco tuttavia di ingannare madre natura che mi sorveglia per sopprimermi non appena si fosse avvista ch'io non sono più atto alla riproduzione. Con dosatura sapiente proprio nelle quantità volute dall'Hannemann io prendo giornalmente un po' di quella medicina. Guardo le donne che passano, accompagno il loro passo cercando di vedere in quelle loro gambe qualche cosa d'altro che un ordigno per camminare e risentire il desiderio di fermarle e accarezzarle. Anche qui la dosatura si fa anche più avara di quello che io e Hannemann vorremmo. Debbo cioè sorvegliare i miei occhi perché non rivelino che cosa ricerchino e così si capisce che tanto raramente la medicina serva. Si può fare a meno di farsi accarezzare da altri per arrivare a un intero sentimento ma non si può senza correre il pericolo di raffreddare il proprio animo, fingere un'indifferenza assoluta. E avendo scritto questo capisco meglio la mia avventura con la vecchia Dondi. Io la salutai per farle qualche cosa e sentire meglio la sua bellezza. È il destino dei vecchi di fare dei bei saluti.

Non bisogna credere che tali relazioni fuggitive e che sono fatte solo allo scopo di salvarsi da morte, non lascino delle tracce, non vadano ad adornare e turbare la vita proprio come la mia relazione con Carla o quella con Felicita. Talvolta – raramentearrivano a lasciare un ricordo incancellabile per l'impressione forte avuta. Io ricordo una signorina seduta di faccia a me in tranvai. Ricordo essa mi lasciò. Arrivammo ad una certa intimità perché io le diedi un nome: Anfora. Non aveva una faccia molto bella ma degli occhi accesi, un po' rotondi, che guardavano tutto con grande curiosità e astuzia un po' infantile. Avrà forse avuto oltre ai venti anni ma io non mi sarei meravigliato se essa per ridere avesse dato di soppiatto uno strappo alle codine sottili di una bambina che le sedeva per caso accanto. Non so se per la sua rara forma o per quella che le era simulata dal suo vestito, il suo busto pur esile somigliava ad un'anfora elegante poggiata sul bacino. Ed io molto ammirai quel busto e pensai per truffare meglio madre natura che mi sorvegliava: "Certo, io non debbo ancora morire perché se questa bambina volesse io sarei tuttavia disposto di procreare".

La mia faccia dovette prendere un aspetto curioso guardando quell'anfora. Ma escludo sia stato quello di un satiro perché pensavo alla morte. E invece altri mi vide in dosso il desiderio. Come m'accorsi poi la fanciulla che doveva appartenere a famiglia agiata era accompagnata da una vecchietta, fantesca che l'accompagnò quando essa uscì dal veicolo. E fu questa vecchia che passandomi accanto e guardandomi, mormorò: «Vecchio satiro». Mi dava del vecchio. Chiamava la morte. Io le dissi: «Vecchia imbecille». Ma essa s'allontanò senza rispondermi.

              

               IL VECCHIONE

(Sono le prime pagine del romanzo che Italo Svevo s'era accinto a scrivere nell'estate 1928.)

La cosa avvenne quest'anno, nell'aprile che ci apportava uno dopo l'altro dei giorni foschi, piovosi, con brevi interruzioni sorprendenti di sprazzi di luce e anche di calore.

Rincasavo di sera in automobile con Augusta dopo una breve gita a Capodistria. Avevo gli occhi stanchi di sole ed ero incline al riposo. Non al sonno ma all'inerzia. Mi trovavo lontano dalle cose che mi circondavano e che tuttavia lasciavo arrivare a me perché nulla le sostituiva: andavano via prive di senso. S'erano fatte anche molto sbiadite dopo il tramonto, tanto più che ormai i verdi campi erano stati sostituiti dalle grige case e le squallide vie, tanto conosciute che arrivavano previste, e guardarle era poco meno che dormire.

In piazza Goldoni fummo fermati dal vigile e mi destai. Vidi allora avanzarsi verso di noi e, per evitare altri veicoli, accostarsi al nostro fino a rasentarlo, una fanciulla giovanissima vestita di bianco con nastrini verdi al collo e strisce verdi anche sulla leggera mantellina aperta, che in parte copriva il suo vestito pur esso di un bianco candido interrotto come sulla mantellina da lievi tratti di quel verde luminoso. Tutta la figurina era una vigorosa affermazione della stagione. La bella fanciulla! L'evidente pericolo in cui si trovava la faceva sorridere mentre i suoi grandi occhi neri spalancati guardavano e misuravano. Il sorriso faceva trapelare il biancore dei denti in quella faccia tutta rosea. Alte teneva le mani, al petto, nello sforzo di farsi più piccola, e in una di esse c'erano i guanti morbidi. Io vidi esattamente quelle mani, la loro bianchezza e la loro forma, le lunghe dita e la piccola palma che si risolveva nella rotondità del polso.

E allora, io non so perché sentii che sarebbe stato crudele che l'attimo fosse fuggito senza creare alcuna relazione fra me e quella giovinetta. Troppo crudele. Ma bisognava far presto e la fretta creò la confusione. Ricordai! C'era già tale relazione fra me e lei. Io la conoscevo. La salutai piegandomi verso la lastra per essere visto, e accompagnai il mio saluto con un sorriso che doveva significare la mia ammirazione per il suo coraggio e la sua giovinezza. Subito poi cessai il sorriso ricordando che scoprivo il tanto oro che c'era nella mia bocca e restai a guardarla serio e intento. La giovinetta ebbe il tempo di guardarmi con curiosità, e rispose al saluto con un cenno esitante che rese molto compunta la sua faccina da cui era sparito il sorriso e che così cambiò di luce come se fra lei e i miei occhi si fosse frapposto un prisma.

Augusta aveva portato l'occhialino agli occhi subito quando aveva temuto di veder finire la giovinetta sotto ad un'automobile. Salutò anche lei per associarsi a me, e domandò: – Chi è quella giovinetta?

Io proprio non ne ricordavo il nome. Ficcai gli occhi nel passato col vivo desiderio di ritrovarcelo e passai presto di anno in anno, lontano, lontano. La scoprii accanto ad un amico di mio padre. – La figlia del vecchio Dondimormorai malsicuro. Ora che avevo fatto quel nome mi parve di ricordare meglio. Il ricordo della giovinetta portava con sé quello di un giardino piccolo e verde attorno ad una piccola villa. E vi si accompagnò anche il ricordo di parole con le quali la giovinetta aveva fatto ridere tutti i molti presenti: – Perché da un tetto non cade mai un gatto solo, ma sempre due? – Così essa allora aveva gettato in faccia a tutti la sua sfacciata innocenza come ora in piazza Goldoni ed allora era stato tanto innocente anch'io da ridere con tutti gli altri invece che prenderla fra le mie braccia tanto bella e tanto desiderabile. Voglio dire che tale ricordo mi ringiovanì per un istante, e ricordai di essere stato capace di afferrare, di tenere, di lottare.

Augusta fece cessare tale sogno sconvolto con uno scoppio di risa: – La figlia del vecchio Dondi a quest'ora ha la tua età. Chi dunque salutasti tu? La Dondi era di sei anni più vecchia di me. Ah! Ah! Ah! Se fosse capitata qui, invece di sorridere del pericolo, come faceva quella giovinetta, traballando e zoppicando sarebbe finita sotto le nostre ruote.

Anche ora la luce di questo mondo si alterava come se mi fosse improvvisamente pervenuta attraverso ad un prisma. Non subito m'associai al riso di Augusta. Ma bisognava! Altrimenti avrei rivelato l'importanza della mia avventura e sarebbe stata la prima volta ch'io ad Augusta mi sarei confessato. – Già, già, non ci pensavo. Tutto si sposta ogni giorno un pochino, ciò che in un anno fa molto e in settanta moltissimo. – Poi ebbi una parola sincera. Fregandomi gli occhi come chi ha dormito aggiunsi: – Dimenticavo di essere vecchio io stesso e che perciò tutti i miei contemporanei son vecchi. Anche quelli ch'io non vidi invecchiare e anche quelli che restarono celati e non fecero mai parlare di sé, non sorvegliati da alcuno, ogni giorno pur invecchiarono. – Stavo diventando infantile nello sforzo di celare quel lampo di gioventù che m'era stato concesso. Bisognava cambiare di intonazione, e con l'aspetto più indifferente domandai: – Dove vive ora la figlia del vecchio Dondi? – Augusta non lo sapeva. Non era mai ritornata a Trieste dopo di essersi sposata con uno straniero.

Ed io perciò rividi la povera Dondi, nelle sue gonne tuttavia lunghe, moversi in qualche cantuccio della terra, sconosciuta, cioè fra gente che mai l'aveva vista giovine. Me ne commossi perché era il mio stesso destino benché io mai mi fossi allontanato da qui. La sola Augusta dice di ricordarsi di me esattamente con tutte le mie grandi virtù giovanili e con qualche difetto, primo dei quali la paura di invecchiare che essa ancora non mi perdona per quanto a quest'ora potrebbe accorgersi quanto fondata essa sia stata. Ma io non le credo. Di lei io non ricordo molto all'infuori di quello che vedo. Eppoi essa conobbe la mia giovinezza solo in parte, voglio dire molto superficialmente. Io stesso ricordo meglio le avventure della mia giovinezza che l'aspetto e il sentimento suo. In certi istanti impensati mi pare essa ritorni, e debbo correre allo specchio per mettermi a posto nel tempo. Guardo allora quei tratti deformati sotto il mio mento da una pelle troppo abbondante per ritornare al posto ch'è mio. Una volta raccontai a mio nipote Carlo, ch'è medico e giovine e perciò si intende di vecchiaia, di queste illusioni di gioventù che talora mi colgono. Sorridendo maliziosamente Carlo mi disse ch'erano sicuramente un sintomo di vecchiaia perché avevo del tutto dimenticato come ci si senta da giovine e dovevo guardare alla pelle del collo per ravvisarmi. Ridendo poi clamorosamente aggiunse: – È come il tuo vicino, il vecchio Cralli che crede sul serio d'essere il padre del bambino che la sua giovine moglie sta per mettere al mondo.

Questo poi no! Sono ancora abbastanza giovine per non commettere degli errori simili. Io non so muovermi abbastanza sicuramente nel tempo. E non dovrebbe essere tutto per colpa mia. Ne sono convinto ad onta che non oserei dirlo a Carlo che non comprenderebbe e mi deriderebbe. Il tempo fa le sue devastazioni con ordine sicuro e crudele, poi s'allontana in una processione sempre ordinata di giorni, di mesi, di anni, ma quando è lontano tanto da sottrarsi alla nostra vista, scompone i suoi ranghi. Ogni ora cerca il suo posto in qualche altro giorno ed ogni giorno in qualche altro anno. È così che nel ricordo qualche anno sembra tutto soleggiato come una sola estate, e qualche altro è tutto pervaso dal brivido del freddo. E freddo e privo di ogni luce è proprio l'anno in cui non si ricorda proprio niente al suo vero posto: trecento e sessantacinque giorni da ventiquattro ore ciascuno morti e spariti. Una vera ecatombe.

Talvolta in quegli anni morti si accende improvvisa una luce che illumina qualche episodio nel quale allora appena si scopre un fiore raro della propria vita, dal profumo intenso. Così mai la signorina Dondi mi fu tanto vicina come quel giorno in piazza Goldoni. Prima, in quel giardinetto (quanti anni addietro?) io quasi non l'avevo vista, e, giovine, le ero passato accanto senza scorgerne la grazia e l'innocenza. Ora appena la raggiunsi, e gli altri vedendoci insieme si misero a ridere. Perché non la vidi, non l'intesi prima? Forse nel presente ogni avvenimento è oscurato dalle nostre preoccupazioni, dal pericolo che su noi incombe? E non lo vediamo, non lo sentiamo che quando siamo lontani, in salvo?

Ma io qui nella mia stanzetta posso subito essere in salvo e raccogliermi su queste carte per guardare e analizzare il presente nella sua luce incomparabile e raggiungere anche quella parte del passato che ancora non svanì.

Descriverò dunque il presente e quella parte del passato che ancora non svanì, non per serbarne memoria ma per raccogliermi. Se l'avessi fatto sempre sarei stato meno stupito e sconvolto da quell'incontro in piazza Goldoni. A quella fanciulla non avrei semplicemente guardato come può colui cui il Signore Iddio conservò la vista. Da capo a piedi.

Io non mi sento vecchio ma ho il sentimento di essere arrugginito. Devo pensare e scrivere per sentirmi vivo perché la vita che faccio fra tanta virtù che ho e che mi viene attribuita e tanti affetti e doveri che mi legano e paralizzano, mi priva di ogni libertà. Io vivo con la stessa inerzia con cui si muore. E voglio scuotermi, destarmi. Forse mi farò anche più virtuoso e affettuoso. Appassionatamente virtuoso magari ma sarà virtù veramente mia e non esattamente quella predicata dagli altri che quando l'ho indossata m'opprime invece di vestirmi. O smetterò cotesto vestito o lo saprò foggiare per il mio dosso.

Perciò lo scrivere sarà per me una misura di igiene cui attenderò ogni sera poco prima di prendere il purgante. E spero che le mie carte conterranno anche le parole che usualmente non dico, perché solo allora la cura sarà riuscita.

Un'altra volta io scrissi con lo stesso proposito di essere sincero che anche allora si trattava di una pratica di igiene perché quell'esercizio doveva prepararmi ad una cura psicanalitica. La cura non riuscì, ma le carte restarono. Come sono preziose! Mi pare di non aver vissuto altro che quella parte di vita che descrissi. Ieri le rilessi. Purtroppo non vi trovai la vecchia Dondi (Emma, sì, Emma), ma tante altre cose vi scopersi. Anche un avvenimento importante che non vi è raccontato ma che viene ricordato da uno spazio rimasto vuoto in cui naturalmente s'inserisce. Lo registrerei subito se ora non lo avessi dimenticato. Ma non va perduto perché rileggendo quelle carte certamente lo ritroverò. Ed esse sono , sempre a mia disposizione, sottratte ad ogni disordine. Il tempo vi è cristallizzato e lo si ritrova se si sa aprire la pagina che occorre. Come in un orario ferroviario.

È certo ch'io feci tutto quello che vi è raccontato, ma leggendone, mi sembra più importante della mia vita che io credo sia stata lunga e vuota. Si capisce che quando si scrive della vita la si rappresenti più seria di quanto non sia. La vita stessa è diluita e perciò offuscata da troppe cose che nella sua descrizione non vengono menzionate. Non vi si parla del respiro finché non diventa affanno e neppure di tante vacanze, i pasti e il sonno, finché per una causa tragica non vengano a mancare. E invece nella realtà ricorrono insieme a tante altre tali attività, con la regolarità del pendolo e occupano imperiose tanta parte della nostra giornata che non vi resta posto per piangere e ridere eccessivamente. Già per questa ragione la descrizione della vita, una grande parte della quale, quella di cui tutti sanno e non parlano, è eliminata, si fa tanto più intensa della vita stessa.

Insomma, raccontandola, la vita si idealizza ed io m'accingo ad affrontare tale compito una seconda volta, tremando come se accostassi una cosa sacra. Chissà come nel presente guardato attentamente ritroverò qualche tratto della mia giovinezza che le mie gambe stanche non mi permettono di inseguire e che cerco di evocare perché venga a me. Già nelle poche righe che stesi la intravvidi, mi invase in modo da arrivare a diminuire nelle mie vene la stanchezza della mia età.

C'è però una grande differenza fra lo stato d'animo in cui l'altra volta raccontai la mia vita e quello attuale. La mia posizione s'è cioè semplificata. Continuo a dibattermi fra il presente e il passato, ma almeno fra i due non viene a cacciarsi la speranza, l'ansiosa speranza del futuro. Continuo dunque a vivere in un tempo misto com'è il destino dell'uomo, la cui grammatica ha invece i tempi puri che sembrano fatti per le bestie le quali, quando non sono spaventate, vivono lietamente in un cristallino presente. Ma per il vegliardo (già, io sono un vegliardo: è la prima volta che lo dico ed è la prima conquista che devo al mio nuovo raccoglimento) la mutilazione per cui la vita perdette quello che non ebbe mai, il futuro, rende la vita più semplice, ma anche tanto priva di senso che si sarebbe tentati di usare del breve presente per strapparsi i pochi capelli che restarono sulla testa deformata.

Ed io, invece, m'ostino a fare qualche cosa d'altro in tale presente e se c'è, come spero, lo spazio per svolgervi un'attività, avrò dato la prova ch'è più lungo di quanto sembri. Misurarlo è difficile e il matematico che volesse farlo sbaglierebbe di grosso e darebbe la prova che non è cosa per lui. Io penso di sapere almeno come alla misurazione si dovrebbe procedere. Quando la nostra memoria ha saputo levare dagli avvenimenti tutto quello che in essi poteva produrre sorpresa, spavento e disordine, si può dire che essi si sono trasferiti nel passato.

Ho pensato tanto a lungo a questo problema che persino la mia vita inerte mi diede l'occasione ad un'esperienza che potrebbe chiarirla se altri volesse ripeterla con istrumenti più precisi cioè mettendo al posto mio un uomo meglio di me educato a registrazioni esatte.

Un giorno della passata primavera Augusta ed io fummo tanto coraggiosi da varcare con la nostra macchina Udine e fare colazione in una celebre locanda ove ancora si conservò l'arte lenta ed infallibile dello spiedo. Poi procedemmo ancora un po' verso la Carnia per vedere più vicine le grandi montagne. Presto fummo presi dalla stanchezza dei vecchi, quella che proviene loro dall'inerzia in posizioni troppo comode. Abbandonammo la macchina e sentimmo tanto forte il bisogno di sgranchirci le gambe che ci arrampicammo su una breve collina boscosa che sorgeva accanto alla strada maestra. Lassù ebbimo una sorpresa che fu un premio. Non vedemmo più la strada e neppure i campi ai piedi della cima cui eravamo arrivati ma soltanto innumerevoli, dolci, verdi colline che ci impedivano di vedere altro che le vicine enormi montagne dalle cime di roccia azzurra che ci guatavano molto serie. A piedi eravamo riusciti a mutare di contorno più presto che con la macchina ed io trassi un profondo sospiro di sollievo: una gioia che non dimenticai più. Era dovuta quella gioia alla sorpresa, o all'aria balsamica priva della polvere della strada, o alla nostra solitudine che pareva completa? La gioia mi rese intraprendente e su quella cima arrivai ad accostare l'altra parte, opposta a quella della strada donde eravamo venuti. Una via facile, un sentiero segnato nell'erba alta. Da quella parte scorsi una casetta ai piedi della collina e dinanzi ad essa un uomo che con colpi vigorosi di maglio piegava su un'incudine un pezzo di ferro. E come un bambino ammirai che il suono metallico di quell'incudine arrivava al mio orecchio quando il maglio da lungo tempo s'era risollevato per prepararsi a ripetere il colpo. Vero bambino io ma anche molto infantile madre natura che inventa di tali contrasti fra la luce e il suono.

Quella gioia di quei colori e di quella solitudine fu ricordata da me lungamente e perciò il dissidio fra il mio orecchio e il mio occhio anche. Poi intervenne la serietà del ricordo, la logica della mia mente a correggere il disordine della natura, e quando ora ripenso a quel maglio, immediatamente come esso raggiunge l'incudine, sento echeggiare il suono ch'esso provoca. Certo nello stesso tempo, qualche cosa dello spettacolo si falsò. Al disordine del presente si sostituì il disordine del passato. Quella famiglia di colline si fece anche più numerosa e furono tutte più ricche di boschi. Anche le rocce delle montagne divennero più fosche ancora e più serie, forse anche più vicine, ma tutto era regolato e intonato. Il male si è che non annotai di quanti giorni quel presente avesse abbisognato per tramutarsi così. E se lo avessi notato non avrei potuto dire che questo: nella mente del settantenne Zeno Cosini le cose si maturano in tante ore e tanti minuti. Quante altre esperienze si sarebbero dovute imprendere sui più varii individui e nelle più varie loro età per arrivare a scoprire la legge generale che fissa la frontiera fra il presente e il passato.

E così terminerò la mia vita con un libretto in mano come il mio defunto padre. Come avevo riso io di quel libretto! È vero che ne sorrido anche ora ricordando ch'egli lo destinava proprio al futuro. Vi annotava i suoi compiti, la data per visite periodiche e così via. Io posseggo tuttavia un suo libretto. Molte annotazioni cominciano con una raccomandazione: non dimenticare di fare il giorno tale quella tale e tale cosa. Egli credeva nell'efficacia delle raccomandazioni che seppelliva in quel libretto. Io ho la prova che la sua fiducia era messa male. Ne trovai una che dice: assolutamente (e questa parola è sottolineata) non devo dimenticare di dire all'Olivi quando se ne presenti l'occasione che mio figlio alla mia morte dovrà apparire verso tutti quale il vero padrone benché tale non sarà mai.

Bisogna supporre che l'occasione di parlare con l'Olivi non si sia presentata più. Ma già ogni sforzo per trasferirsi da un tempo nell'altro è vano e ci voleva un ingenuo come mio padre per credere di saper dirigere il proprio futuro. Può essere che il tempo non esista come assicurano i filosofi, ma esistono certamente i recipienti che lo contengono e sono quasi perfettamente chiusi. Spandono solo poche gocce dall'uno nell'altro.

Io vorrei ancora guardarmi d'intorno per chiudere questa giornata memoranda tramandando a domani quest'ora in corso durante la quale scrivo. Del mio studio comodo e bello rinnovato da Augusta parecchie volte nel corso degli anni con grave mio disturbo ma senza portarci delle grandi novità, poco ho da dire. È circa quale era subito dopo il nostro matrimonio ed io già una volta lo descrissi. Da poco c'è una novità per me veramente penosa. È scomparso da pochi giorni dal suo posto il mio violino ed anche il leggìo. È vero che così fu conquistato al grammofono il posto che gli occorreva per espandere più vigorosa la sua voce. Acquistai il grammofono un anno fa e costò parecchio come costano molto anche i dischi che continuamente acquisto. Io non rimpiango la spesa ma avrei voluto lasciare il suo posto al violino. Non lo toccavo da quasi due anni. S'era fatto nelle mie mani oltre che aritmico anche malsicuro e la mia cavata pareva diminuisse. Ma amavo vederlo al suo posto in attesa di tempi migliori mentre Augusta non comprendeva perché dovesse ingombrare la mia stanza. Essa certe cose non intende, né io so spiegargliele. Finì che essa un giorno spinta dalla sua mania di fare ordine lo allontanò assicurandomi che se lo avessi domandato essa in pochi istanti me l'avrebbe fatto riavere. Ma è sicuro ch'io non lo domanderò giammai mentre non è altrettanto sicuro che se fosse rimasto al suo posto io un bel giorno non l'avrei ripreso in mano. È di tutt'altra natura la decisione che ora occorre. Devo cominciare dal pregare Augusta di riportarlo prendendo l'impegno di suonarlo non appena lo abbia riavuto. Ma io di tali impegni a lunga scadenza non so prenderne. E perciò eccomi staccato definitivamente da un'altra parte della mia giovinezza. Augusta non ha ancora compreso quanti riguardi bisogna avere con un vecchio.

Ed altre novità in questa stanza non ci sarebbero se giusto ora non fosse inondata da suoni che non hanno nulla da fare con quelli del grammofono. Due volte per settimana (non alla domenica ma al lunedì e al sabato) sul viottolo erto che costeggia la mia villa passa un ubbriaco melomane. Dapprima mi seccò, poi ne risi e infine lo amai. Spesso lo spiai dalla mia finestra dopo di aver spento ogni luce nella stanza e lo scorsi sul viottolo sbiancato dai raggi lunari, piccolo, esile, ma eretto, la bocca levata verso il cielo. Procede lento, non per la difficoltà della via ma per poter dedicare il suo fiato intero alle note che allunga con fervore. E anche s'arresta talvolta quando arriva a qualche nota ch'esita di emettere perché gli sembra specialmente difficile. Io sento l'assoluta innocenza di quel cantore anche nel fatto che la sua canzone è sempre la stessa. Lungi da lui l'intenzione di inventare. Son sue certe appoggiature dalle quali striscia al suono giusto ma non saprebbe farne a meno: gli facilitano la nota. Forse egli non sa di avere alterato la musica e a quest'ora la ama come è costretto di farla. È privo di ambizione e perciò di malizia. Per questo se m'imbattessi in lui di notte su quel viottolo, sapendo l'alta sua disinteressata umanità, non avrei paura, ma m'accosterei a lui e gli domanderei il permesso di cantare con lui. Canta sempre il Ballo in maschera. Sarebbe una grande sorpresa per lui se un vigile gli ingiungesse di tacere. Quando canta: Alzati! La tua figlia a te concedo rivedere. Nell'ombra e nel silenzio ... parla proprio ad Amelia.

Certo sotto quella musica c'è molto vino ma mai il vino ebbe un ufficio più nobile. Il mio cantore vive in quell'antichissima storia. Rinasce quella storia per lui due volte alla settimana e gli tutta la sorpresa e la commozione della cosa nuova. Come fa ad astenersi tutte le altre sere da quel vino che gli procura tanto gaudio? Quale esempio di moderazione!

Il mio chauffeur Fortunato lo conosce. Dice ch'è un falegname che abita lassù in una casetta modesta. È ammogliato. Non ha ancora raggiunto i 40 anni ma ha già un figliolo di 20. Perciò si crede vecchio e pensa al passato anche più lontano di quello che io ricerco. Quanta moralità in quell'uomo! Ci vollero i 70 anni suonati a me per staccarmi dal presente. E ancora non sono contento e cerco di raggiungerlo anche adesso su queste carte.

Io non tenterò mai di fare la sua conoscenza. La sua voce fioca pare provenga da tempi lontani. Me ne apporta l'emozione; essa stessa essendo un rimpianto, c'è il disordine che un'avventura intera. Quella voce solitaria ed io qui al mio tavolo che ne analizzo le esitazioni ed il fervore. Un ordine perfetto! Le ore venienti non potranno alterare per me quella voce. Rivedrò queste annotazioni la prossima volta che la sento per vedere se il nuovo presente potrà correggere il ricordo e provarmi ch'io mi sbaglio.

Sono stanco di scrivere per questa sera. Augusta che poco fa mi chiamò oltre il corridoio a quest'ora si sarà addormentata nel suo letto ordinato, la testa legata in quella rete allacciata sotto al mento ch'essa sopporta per domare i suoi capelli bianchi tagliati corti. Una stretta, un peso che a me impedirebbero di chiuder occhio.

Il suo sonno è tuttavia leggero ma più rumoroso che nel passato. Specialmente alle prime respirazioni, nel primo abbandono. Sembra addirittura che tutto ad un tratto altri organi che non erano pronti sieno stati chiamati a dirigere la respirazione e, tolti improvvisamente al riposo, rumoreggino. Orrenda macchina questa nostra quando è vecchia! Se ho assistito allo sforzo di Augusta, pavento quello che incombe a me e non raggiungo il sonno se non mi concedo una doppia dose di sonnifero. Perciò faccio bene di non coricarmi che quando Augusta già dorme. È vero che la desto, ma allora essa riprende il sonno più silenziosamente.

E qui mi faccio una raccomandazione ad imitazione di quelle di mio padre: ricordati di non lagnarti troppo della vecchiaia in queste annotazioni. Aggraveresti la tua posizione.

Ma sarà difficile non parlarne. Meno ingenuo di mio padre so subito che questa è una raccomandazione vana. Essere vecchio il giorno intero, senza un momento di sosta! E invecchiare ad ogni istante! M'abituo con fatica ad essere come sono oggi, e domani ho da sottopormi alla stessa fatica per rimettermi nel sedile che s'è fatto più incomodo ancora. Chi può togliermi il diritto di parlare, gridare, protestare? Tanto più che la protesta è la via più breve alla rassegnazione.2

 





2               Il volume contiene altri racconti, qui omessi perché già presenti nella biblioteca di Liber Liber. Si tratta di:

         "L'assassinio di via Belpoggio" e "Lo specifico del dottor Menghi", della sezione II (Racconti sperimentali e fantastici);

         "Una burla riuscita" della sezione V (L'autobiografia travestita);

         "Corto viaggio sentimentale" e "La novella del buon vecchio e della bella fanciulla" della sezione VI (Le novelle della vecchiaia e della morte).

                [Nota per l'edizione elettronica Manuzio].



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