AMORI
1 - PRIMO CIELO
Ben presto
cominciài ad amare e ben alto posi sùbito le mie mire. La mia età non esprimèvasi
ancora con due nùmeri, e già mi trovavo innamorato di una regina. Era questa —
non sorrìder di mè, amica geniale, ché in amore vi ha cose assài più grottesche
— la regina di cuori, una cioè delle quattro di un mazzo di tresette con cui
mia nonna e i due reverendi pasciuti alla sua unta cucina, si disputàvano
seralmente la lor cinquantina di centesimini. Quando, a mè — che solitamente
assistevo al cartaceo tornèo seduto ad un àngolo del tavoliere, rosicchiando
libri e cioccolata — quella Maestà gentile apparve la prima volta sul verde
prato di felpa col suo visoccio dalla paffuta bontà e col suo cor rosseggiante
presso l'orecchio sinistro quasi a dire «agli altri in petto, a mè fu posto in
fronte» — casta Susanna in mezzo a' bramosi vecchioni — sentìi nel sangue
quella vampa di caldo, quella scottante puntura come tocco di acceso carbone,
che segnò poi sempre in mè l'annunciazione di un amore. E allora pigliài
l'abitùdine di mèttermi a lato del giocatore cui la fortuna aveva concesso la
mia regina e di lì rimanere finch'egli non la abbandonasse sul verde tappeto e
io non la vedessi raccolta e ammucchiettata con altre figure — figure indegne.
Oh quanto io le auguravo, che, dalle ditaccia negre e tozze — piedi mal
dissimulati — de' due sacerdoti, ella passasse tra le fine e bianche e
trasparenti ditine di mia nonna! Una sera, non mi fu possìbile di resìstere
alla tentazione e la rapìi. Ricordo ancora il cèlere bàttito del mio cuoricino
(la regina già posava sovr'esso) e insieme l'imperturbabilità del mio sguardo,
dinanzi alla commozione destàtasi, per l'improvvisa scomparsa di Sua Maestà,
nei tre giocatori, curvi coi candelieri in mano a cercarla fra le gambe del
tàvolo e le loro; ancora ricordo il gran sospiro di soddisfazione e di gioja,
quando nonna, esaurita ogni indàgine ed ogni speranza, chiamò il domèstico
perché le recasse un mazzo nuovo di carte. Fu quella la mia prima conquista,
una conquista rispetto alla quale poche altre mi dovèvano poi inorgoglire
altrettanto.
Quasi
contemporaneamente alla regina, o poco dopo, m'innamorài di un'altra dama — una
dama ancora più eccelsa, avuto almeno riguardo al suo domicilio — la Madonna.
Pendeva al capezzale del mio lettuccio un quadro litografato a colori, imàgine
pia, empietà pittòrica, tutto àngioli e santi col Padre eterno in lontananza. A
sera, non appena mi si avèa insaccato nella mia toeletta notturna, ossìa in un
camicione lungo più di mè, la cameriera mi suggeriva in gran premura parecchie
spropositate orazioni, che io ripetevo sbadigliosamente, stando in pie' sui
guanciali col viso rivolto al quadro. Altre parole non comprendevo di quella
filastrocca che pànem nòstrum. Poi mi si diceva di baciare, sul quadro, il buon
bambino Gesù in braccio alla Madonna. Io sbagliavo scrupolosamente e baciavo la
celeste signora, una bombolotta in veste rossa e turchina. Una volta mi si
volle per forza far appoggiare la bocca sulla barba malpettinata del santo
patriarca e soddisfatto marito. Pianti e strilli da parte mia, finché la
cameriera, impietosita, non si persuase a lavarmi, con un lembo bagnato
dell'asciugamani, la colla da falegname di cui puzzàvano — così gridavo — le
mie labbra. Dal bacio, invece, della Madonna scendeva, si diffondeva, in tutto
il mio èssere, consolazione. Mi brillava quel bacio e circolava nel sangue. Io
mi sdrucciolavo, mi tuffavo voluttuosamente nelle càndide onde delle lenzuola,
fantasiando di èsser cullato sovra nubi di paradiso, sòffici e profumate; io mi
sentivo perfino la mano proteggitrice della Madonna posar sulla fronte... né
quest'è illusione: era la mano della mia mamma.
Ma, nell'amor
per le imàgini, dovevo fare un passo più innanzi. Un giorno mi si condusse a
vedere una gallerìa di statue e quadri. Qual sensazione forte e nuovìssima!
Nelle cèllule del mio cervello, sgombre ancor di mobiglia, entrò e si addensò,
tumultuosa, una turba d'ogni forma e colore: corpi che si abbracciàvano con
furia di sensualità e corpi che si torcèvano tetanicamente, faccie che
sghignazzàvano e volti che piangèvano, pugni levati a minaccia e palme giunte a
preghiera; negri marosi di galoppanti cavalli e verdi chiome di selve; nubi in
tempesta e cieli sereni — una confusione, una soffocazione di cose e d'idèe che
io non aveva conosciuto mai tra la folla vera.
Troppo strana e
viva, sifatta emozione, perché la curiosità non mi sollecitasse a ritentarla, e
perché la nuova prova non mi invitasse ad altre. E allora le mie prime
impressioni cominciàrono a sgarbugliarsi, a coordinarsi, a modificarsi. Bastò
una settimana perché io più non entrassi nella galleria delle statue. La loro
bianchezza mi dava noja alla vista e freddo al cuore. Sentivo pena, quasi
vedessi persone nude sotto la neve o gente improvvisamente pietrificata come
nella fiaba della «Bella addormentata nel bosco.»
Ma, anche nel
campo del pensiero dipinto, condensài in breve spazio le mie simpatìe. Le tele
vaste e di figure assiepate, che mi avèvano, sulle prime, meravigliato, mi si
ridùssero a poco a poco all'ufficio di sfondo, di tappezzerìa per le tele
pìccole. Odiài sempre la moltitùdine, pur essendo prontìssimo ad amare ogni
uomo di cui è composta e a innamorarmi di ogni donna.
È dunque sulle
tele pìccole e caste che io volsi la mia attenzione, trattenèndola
singolarmente su quelle che fòrmano l'aristocrazìa della pittura — i ritratti.
Per un'ànima, nulla è più interessante dello studio di un'ànima o almeno del
quadrante delle sue ore, il volto. Ogni corpo somiglia appressapoco ad un
altro, e, in tutti i casi, è quasi sempre eguale a sé stesso, perloché — fosse
pur formosìssimo — finisce per diventare indifferente, la qual cosa avverrebbe
assài presto se gli àbiti non lo dissimulàssero e se, mercè le lor variazioni,
non sembrasse variare. Raramente invece, due faccie si pòsson scambiare: dirò
di più; non c'è viso che sia quotidianamente idèntico a sé medèsimo; donde, la
varietà che dìssipa la stanchezza e rinnova il piacere.
Ora, fra i
ritratti di quella pinacoteca, io mi presi specialmente dei femminili,
preferendo quelli, per così dire, fuor della strada maestra.
E, in una sala
remota, ne scopersi uno, del cui autore non mi sovviene più il nome e neppure
ricordo se mai lo seppi, e che era il ritratto a mezza figura, grande al vero,
di una giovinetta quattordicenne, bionda e ricciuta, vestita da paggio. La
giovinetta avèa sguardo melancònico e buono. La «Guida» tacèa di essa; nessun
la copiava, nessun la avvertiva; mi trovài quindi, issofatto, spinto verso di
lei da quel sentimento di compassione che fu sempre la nota fondamentale, o
quanto meno, il primo impulso ne' mièi amori. E davvero, quando m'imbatto in
una fanciulla petulante di beltà e salute, sfavillante di gioja e ricchezza,
circondata da omaggi e sospiri, benché le fibre inobedienti pòssano in mè
oscillare di desiderio, il cuore non vi fà eco alcuna e io m'allontano più
presto da essa che non m'avvicini. Colèi ha più di quanto le occorra; non ha
bisogno di mè. Qual filo di luce potrèi aggiùngere io al trionfante suo sole?
qual raggio si degnerebbe ella di scèndere, indiviso, su mè? Foss'anche mia,
non sarebbe mai solamente mia, né dovrebb'èsserlo. Bellezza è fatta per gli
occhi di tutti: è una istituzione pùbblica. Ma se, invece, la fanciulla che
incontro è di quelle creature tìmide e delicate sulle cui guancie, appassite
dalla continua aspettazione, sèguonsi i solchi delle làgrime e il cui sguardo
sognante e mesto pare sospiri: chi indovinerà il cuore mio? — creature,
destinate alla poesìa ed alla infelicità, per le quali fu scritto «molti fiori
son nati a fiorire non visti e a pèrder la loro fragranza nell'aria deserta» —
allora io sento per essa un ìmpeto di simpatìa, una tenerezza d'amore, e vorrèi
èssere il sole che scalda il suo pàllido viso e la rugiada che aderge il suo
èsile stelo e il bacio che raccoglie il suo bacio. Solo da una sìmil fanciulla
potrèi sperare amore: nessun'altra, fuorché lei, potrebb'èssere tutta mia.
E questa gentile
era pinta — stavo per dire, pensando a tè, preveduta — nel ritratto che, a
specchio del mio amore, avevo scelto. A lei, ricciutella, diedi il nome di
Ricciarda. Mi trattenevo mezz'ore dinanzi a lei, e, a forza di fisarla,
prestàndole quasi metà del mio sguardo, finivo a crèdermi guardato pure da
essa. Le dicevo, nell'intimo, le parole più affettuose e me le sentivo da lei
ripetute. Non so se tu abbia letto la storia di quel giòvane prìncipe indiano
delle «Mille e una notti», che, refrattario all'amore e più al matrimonio, era
stato rinchiuso dallo shah padre, impaziente di aver nipotini, in una torre,
acciocché mutasse opinione, e che nella torre, avendo scoperto in un antico
stipetto la miniatura di una magnìfica principessa, se ne era pazzamente
invaghito; che poi, apprendendo dal padre che quella bellìssima era vissuta
mille e mille anni prima, in una regione lontana lontana, aveva, senza pèrdersi
d'ànimo, impugnato la sicura sua spada e inforcato l'ardente ginnetto e
galoppato il mondo in traccia di lei — tant'era la sua fiducia amorosa! —
finché non l'ebbe trovata. Ebbene, io a poco a poco, m'imaginài trasformato in
un quid sìmile al prìncipe indiano. Non possedendo però né cavallo né brando né
tampoco soldi per qualsisìa viaggio, mi contentài di scrìvere alla mia
principessa una lèttera — lunga e straziante dichiarazione d'amore — sulla cui
busta posi «alla bionda Ricciarda presso la regia pinacoteca di... » e che,
munita di un francobollo per la città, lasciài cadere, chiudendo gli occhi,
nella buca postale. E poi, per molti e molti dì, quando il procaccino suonava
al nostro uscio, io correva ad aprirgli, e sottovoce, quasi temendo che altri
ci sorprendesse, gli domandavo se avesse qualchecosa per mè e lo guardavo
supplichevolmente, con un barlume di speme che mi rispondesse di sì...
Ma la lèttera
della mia benamata non è, a tutt'oggi, ancor giunta.
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