4 - QUARTO CIELO
Nel sommo del
cielo letterario è la soglia del musicale, ed io su questa sostài. Non l'ho
varcata, ma, a giudicare dall'emozione che m'investì solo tendendo l'orecchio
verso l'abisso di melodiosi bagliori innanzi a mè spalancato, dico e credo che
se il paradiso ha un'anticàmera, è questa. Qualche passo più in là e il mio
èssere si sarebbe di voluttà liquefatto, rarefatto, in uno spìrito puro.
Giordano Bruno,
in quelle sue pàgine sì geniosamente mal scritte, chiamava la divinità «ànima
dell'ànima». Con egual frase io definirèi la mùsica; quella dei suoni,
intendiàmoci, non quella dei rumori. Essa infatti ha un nonsoché di divino, e,
a differenza delle altre arti, non sà esprìmere ottimamente che la bontà. I
colori, gli odori, le forme hanno occulti e stretti rapporti con essa, e verrà
tempo in cui si canteranno e suoneranno dal vero un mazzo di fiori, un vassojo
di dolci, una statua, un edificio, come oggi un foglio di romanza od uno
spartito di melodramma, aperti sul leggio. Poiché due lingue universali ci
andiamo preparando noi uòmini, mentre si tende a riaffratellarci travolgendo
governi e frontiere — una di cifre, una di note — e se diverremo completamente
malvagi, intèprete delle nostre idèe sarà la prima; se torneremo buoni,
l'altra.
Ora, io ebbi un
amore interamente musicale. Della mia vita, numeravo in quel tempo diciottanni
di meno. Una notte, verso le dieci, stavo nel mio studiuolo, colla finestra
aperta. La finestra guardava sopra una serie di giardinetti ben pettinati, che
dall'alto sembràvano fazzoletti a colori, e da essi, col tepore del maggio,
salivano a mè le mille fragranze e i mille silenzi della verde addormentata
natura. Stàvomi nell'oscurità, sdrajato in una poltrona, fiso al cielo
stellato, in un vaneggio di pensieri.
A un tratto
oscillò nel silenzio un sospiro di violino, lungo, lamentèvole. Il mio cuore
drizzò palpitando l'orecchio. Al sospiro tenne dietro un motivo bizzarro e insieme
soave, una trina di suoni dal capriccioso disegno su un fondo di malinconia. Io
ascoltavo e tremavo. Quando il violino si taque, m'accorsi di avere le guance
bagnate e gli occhi pieni di làgrime.
Indifferentemente
si può udire, impunemente si può suonare il pianoforte, non il violino. Nel
pianoforte il fabbricatore mette quel tanto di sentimento che il prezzo concede
e alla mano non resta che di evocarlo meccanicamente — si tira, per così dire,
al cane la coda e il cane guaisce — né più del vino che è in botte si cava. I
cembalisti pòssono tutti arrivare ad un segno; i cembalisti si fàbbricano come
i loro strumenti. Nel violino, invece, è l'ànima di chi suona che, alleàndosi
alle vocali minugie, trova una lingua. Tante ànime, tanti violinisti. Nel pianoforte
senti sempre la materia inorgànica, metallo e legno; nel violino odi la mesta
eco di una vita che fu. Uno suona, l'altro canta. Là è lo strumento la
principal parte, qui chi l'adopra. Là non ti stanchi se non le dita e puòi
mèttere pancia: qui soffri e ti si affilan le gote.
La notte
appresso, all'ora medèsima, la musicale voce ricominciò il suo innamorato
lamento, e così l'altra ancora e così la seguente. Io non sapevo, né mi curavo
sapere, donde venisse, io non cercavo d'indovinare se sulla sua cuna di abete
fosse chinato un volto di mamma o di babbo: solo sentivo di èssere perdutamente
innamorato di lei. E tutto il giorno durava in mè la vibrazione di quella voce
e ansioso desideravo che la notte, funerea coltre, si adagiasse sulla bara
terrestre, per andarmi a rinchiùdere — perocché nulla è più dolce dell'amore
furtivo — nello studiuolo, e là attèndere la mia invisibile amica fatta di
suoni.
Ned essa mancava
mai al convegno. Al primo rinsenso della conosciuta voce, correva per tutto il
mio fràgile èssere un trèmito. Come ipnotizzato da lei, io gioiva o soffriva
ogni sorta di sensazione che le piacesse d'impormi.
Mi sembrava
talvolta, da lei guidato, di trovarmi fra alte disabitate montagne in riva ad
un lago senza vele, senz'onde, sull'aqua del quale scivolasse un raggio lunare
e nel raggio una tàcita frotta di càndidi cigni; talaltra, di èssere in una
immota atmosfera di luce elèttrica, in mezzo a un paese, i cui monti èran
cristallo di rocca e le piante vitrificazioni a colori, vitrifatto pure io: talaltra
ancora, di scèndere scèndere per caverne rutilanti d'oro e scintillanti di
gemme, finché — restringèndosi intorno a mè le pareti della spelonca e sul
punto di rimanere asfissiato — si squarciava, di colpo, la terra, e io mi
sentivo attirato all'insù qual bolla d'aria e trasportato (oh la serena, oh la
fresca mattina di primavera!) in una selva odorosa di castagno e di timo e
gorgheggiante d'augelli, dove mi smarrivo estasiato — come il mònaco santo
della leggenda — per sècoli.
Ma, poi, dalle
màgiche corde balzàvano cozzo d'armi e fanfare guerresche. Senonché, la nota
della mestizia riaquistava sùbito il sopravvento. Pareva allora di udire due
vecchi valorosi raccontarsi la loro ùltima avversa battaglia. All'urto
infuriato de' cavalli nemici, si aprivano i reggimenti de' granatieri e
cadevano le àquile sotto i cadàveri dei loro alfieri. Solo un uomo, dal
cappellino sugli occhi aggrondati e dalla destra nella bottoniera del bigio
sopràbito, stava eretto ed immòbile nella sventura, e il suo profètico sguardo
imperiale vedèa la gloria — all'inno della «Marsigliese» — coronare i vinti.
Altre volte,
l'addolorata ànima del mio violino sembrava rammaricarsi teneramente coll'amato
e dirgli: «perché svegliasti il mio cuore se non gli volevi accompagnare il
tuo? perché tante promesse, collo sguardo, m'hai fatto se pensavi tradirle?
perché lasciasti lagrimare quest'occhi che chiamavi sì belli e impallidir
questa guancia che tanto desideravi?», Ma, impietosito, l'amato parèa
azzittisse la dolce querela, sulla bocca di lei, con un bacio, ed era allora un
duello di baci, temendo ognuno di darne meno dell'altro. Tutto finiva in un
rugugliar di colombi, in un sospiro di felicità.
Ma la voce del
dolore erompeva di nuovo ed il suo flutto copriva, inghiottiva il sottil velabro
di gioia. Solenne era il lamento. Una grand'ànima,
alto-appesa in cospetto del mondo, bramava inutilmente di
stringere tra le sue braccia l'umanità che gliele aveva divise e inchiodate.
«Perché» — sembrava essa dire — «sarò io la sola, che, non riamata, eternamente
ama?» Il cielo nereggiava di nubi, e le sue vìscere rumoreggiàvan tempesta.
Dalla croce fuggìvano, in ogni parte, battendo spaventati le ali, i paffutelli
amorini pagani. Grosse làgrime cadèvano dalla grande ànima abbandonata,
mutàndosi sulla terra in rose, ed ella elevàvasi lentamente a Dio ed in lui si
aquietava.
Io rimanevo,
intanto, come incantato. assorbendo la misteriosa musica, sentèndone, per così
dire, il contatto, abbracciàndola quasi, finché l'arco non si fosse staccato
dal fecondo suo congiungimento con le corde canore, gocciante ancora di note.
Allora solo
potevo alzarmi ed uscire dalla stanzuccia, gonfio di bontà. Oh quanto mi sarèi
riputato felice di avere allora un nemico, ché sarèi corso a domandargli perdono!
Ed è a questo perìodo della mia vita che io debbo, pressoché tutte, attribuire
le poche buone òpere che mi fu fatto di còmpiere e le molte d'imaginare.
Ma una notte —
dopo due mesi di amore — la musicale mia amante non apparve al convegno. E
inutilmente due, tre, quattro dì l'aspettài. Non più melodìe, non più sospiri
amorosi, tremolanti per l'àere. Dai cespugliosi giardini, avvolti nell'ombra,
non mi arrivava che il monòtono grido dei grilli e il singulto del cùcolo.
Una strana
inquietùdine mi sorprese, un'angoscia muta, come il presentimento di una
sventura. Che era avvenuto di lei? A nessuno osavo chièderne: trattàvasi di un
segreto d'amore e non potevo tradirlo. Giravo dunque, giravo da solo e come
smarrito, intorno all'isolato di case dov'era pure la mia e che rinserrava, con
sì gran nùmero di pigionanti, quell'àngiolo ùnico di violino, spiando a ogni
porta, ad ogni finestra, cercando con le pupille di traversar tanta spessezza
di muri e di fronti.
Così passàrono
quindici giorni — giorni di strazio — quasi assistessi alla lenta agonìa di una
persona cara. Finalmente, un mattino, uscendo, vidi, dinanzi al portone di una
casa vicina, un carro mortuario. Stàvano sulla soglia e sul marciapiede
parecchie fanciulle abbigliate e velate di nero, e disotto i veli apparivan
visetti dagli occhi rossi e dalle labbra aggreppate, visi che ricordavo di aver
qualche volta incontrati nella pròssima via del Conservatorio di mùsica. Una
bara fu trasportata fuor dal portone — ed era breve e parèa leggera — e
collocata sul carro e coperta da una coltre bianca ed argentea, sulla quale e
sul padiglione del carro fùron posate corone di càndide rose dai lunghi nastri
pendenti e dalla scritta «Ad Elvira, le coallieve». Lentamente il carro si
mosse. Le gentili compagne gli si raggrupparono intorno, seguèndolo, col
fazzoletto sugli occhi.
Portàvano a
sepelirmi la Mùsica. E la cortina del quarto mio cielo pesantemente cadde.
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