5 - IN TERRA
Mi ritrovài dunque
in terra. Non era la prima volta, né doveva èsser l'ùltima, che io fossi
riafferrato dalla realtà, ma le mie catture tra le mani di questa fùrono sempre
brevi. Toccavo terra ma a modo di augello, che ne' suòi voli posa a tratti su'n
ramo d'àlbero, su'no scoglio, su'n fumajolo, per riapprovvigionarsi — mìnimo
Antèo pennuto — di forze e slanciarsi dalla cocca terrestre a mete più eccelse.
Se lo specchio de' mièi amori ideali restò talora annebbiato dal fumo
dell'umana palude, l'appannamento ben presto si dissolveva, lasciando lo
specchio più lucente di prima.
Un cuore fin quì
vedesti, o amica geniale, che, anelàndone e invano cercàndone un altro, foggia
quest'ùltimo con parte di sé: ora il cuore stà in presenza di un suo possìbil
compagno, e benché l'amore ch'ei ne risente sia ancor fatto più di suòi pàlpiti
che d'altrùi, prende almeno, da questi, calore.
Siamo al
capìtolo dov'io vorrèi ricordare, con fervore di gratitùdine, tutti gli sguardi
che rispòsero ai mièi, tutte le strette parlanti di mano e le dolci parole e i
sorrisi — udìbili e visìbili baci — e gli innocenti rossori per colpe non
commettende e i sùbiti imbarazzi e persino le iruzze e i dispettucci adoràbili,
gèmiti d'amor represso, tutte, in una parola, le caste concessioni di cui donne
e fanciulle mi beneficàrono. È sulla terra che noi quì camminiamo, ma è terra
vestita di muschio e sparsa di gigli.
Né dal mio atto
di grazia io intendo quelle di esclùdere — e sono le più — che pur non sentendo
amore per mè, me ne ispiràrono vivo per esse. Innamorarla, è già fare ad
un'ànima dono divino. Come la voluttà di oprare il bene, quella di volerne, è,
per sé sola, tale, che, anche priva di contraccambio, basta. Esìger di più, è
usura.
Certamente,
l'uomo il cui midollo sentimentale è difeso da una pelle ippopotamina, l'uomo
pel quale nessuna donna satis nuda jacet, capirà nulla affatto di questi
ch'egli potrebbe chiamare prime aste od arpeggi scolàstici, e, sàturo di grassa
concupiscenza o di soddisfatta sensualità, si burlerà delle gioje, che io vanto,
del desiderio puro e del tàcito innamoramento. Ma a mè poco importa. Io non
scrivo per lui. I mièi lettori ed io con essi, possessori di fibre men spesse,
sappiamo per prova che i mìnimi presentimenti d'amore bàstano a suscitare in
noi emozioni che appena si accennerèbbero, nei contatti più ìntimi della carne,
in que' grossolani cuòi, cosicché la donna che a noi è cortese di un sorriso o
di una occhiata di simpatìa, di un sospiro desideroso o pietoso, dà assài più
che non dia, concedèndosi tutta, a que' nostri non-sìmili.
Oh quanto mai vi
rammento e ancora mi confortate, gentili mie, di cui non sfiorài che la veste,
se pure! Nessuna di voi mi ha lasciato e lascerà mai, a cominciare da quella
frotta folleggiante di ragazzette, che, su'n gran prato, tenèndosi a mano, mi
sorprendèvano, mi accerchiàvano, mè più bimbo di esse, girotondando
schiamazzanti, mentr'io, in mezzo di loro, cercavo afferrar questa o quella,
senza — come poi sempre mi accadde — riuscirvi, perché mi piacèvano tutte e le
avrèi tutte volute.
E, una appresso
all'altra, mi riappàjono tre fanciulle dai dòdici ai quìndici anni, lietezza
della mia adolescenza.
La prima, fulva
come uno scojàttolo e che sapèa lieve di ginepro, avèa per mè le tenerezze
selvàtiche di una scimmietta: la mi guardava fiso in pien volto con occhi di
maliziosa affettuosità, mi saltava talvolta pazzerellamente alle spalle
battèndomele forte, mi si pendeva con improvvisi abbandoni al braccio o mi
stringeva e pizzicottava con mani che èrano tanagliette, sino a farmi guair dal
dolore, un dolor delizioso.
Era l'altra una
giovinetta fràgile e trasparente, devota a pròssima morte. Quante tòmbole ho
mai giocato con essa! Ella, che, tra le prosperose compagne, parèa una càndida
rosa in un cestello di rosse, amava sedersi presso presso di mè, e, quando
parlàvami, avèa nella voce soavità e tremolìi e fruscìi commoventi. E
mettevamo, s'intende, in comune le nostre cartelle, ma, mentre gli altri
badàvano ai loro nùmeri, noi badavamo ai nostri occhi: ci guardavamo sempre e
vincevamo mai.
Quanto alla
terza, tenèa guancie lattee e maggiostrine che ricordàvano l'imbellettatura e
la bàmbola. Questa non era uscita mai di città — una città geograficamente ed
intellettualmente ben bassa — cosicché l'aria montana in cui era venuta colla
sua mamma a passare una quindicina di giorni presso la mia, avèvala come
ubbriacata. Fùrono quìndici dì, per mè e per lei, di moto e di gàudio. In pie'
alle cinque della mattina, salivamo a far colazione sui poggi circostanti,
correvamo pei prati inseguendo or le farfalle, volanti fiori, or noi stessi, ci
arrampicavamo sugli àlberi del frutteto, o, eretti sulla assicella della
biciàncola, faccia a faccia, ci lanciavamo, al mutuo impulso de' ginocchi,
nello spazio, facendo a gara a chi spingesse più alto; poi, giù, a còrrere
ancora col cerchio o la corda, a giuocare alla palla, ad abbàtter birilli, a
scompigliar ànatre ed oche, finché, giunta la sera, ballavamo al suono di
qualche avventizio organetto, non smettendo se non con esso. Ma il giorno del distacco
ci sopraccolse. Quando, in uno dei due momenti (l'altro è quello dell'arrivo, o
se vuòi meglio, della nàscita) in cui l'uomo — come scrive
Jean-Paul — sembra più caro del sòlito, il momento della
partenza (e così della morte), le nostre mani trovàronsi per l'ùltima volta una
nell'altra, un singhiozzo mi montò alla gola, e gli occhi s'imbambolàrono a
lei. Addìo, fanciulla latte e fràgole! Già lontani, ella, sporgèndosi dalla
carrozza che me la portava via, sventolava ancora il suo fazzoletto, bianco
ospizio di làgrime; io, dal giardino che sovrastava alla tortuosa strada,
tenevo alto e agitavo i fiori che, ùltimi, essa m'avèa donati e che non
dovèvano mai, nell'ànima mia, essiccare.
E quì mi ritorni
anche tu, fanciulla bruna dai grossi coralli agli orecchi, i cui capelli èran
notte e lo sguardo giorno, e con tè l'emozione di quando, sullo stesso divano,
sfogliavamo qualche gran libro di stampe, aperto sui nostri ginocchi, o
guardavamo, nella medèsima ampia lente, imàgini di lontani paesi, in cui ci
parèa di camminare a braccetto. Fra la mia guancia e la tua, appena appena
sarebbe passato un velo da sposa ed entrambe scottàvano della stessa fiamma;
eppur restàvan disgiunte. Un ricciolino della tua chioma, avvicinàndosi a' mièi
capelli, pur ricci, cercava quasi di allacciarsi con essi, eppure non si
toccàvano, né si toccàrono mai.
E voi, belle
incògnite, apparse e quasi tosto sparite ne' mièi viaggi, come potrèi obliarvi?
L'intera notte l'avèa trascorsa in vagone colla misteriosa signora. Era il
vagone occupato da viaggiatori, uòmini tutti: non rimaneva altro posto per mè
che al fianco di lei. I nostri ginocchi, i gòmiti nostri, non potèvano non
incontrarsi. Ned ella sfuggiva i mièi, ma vi appoggiava, anzi, contro, i suòi
lievissimamente. Uno sbigottimento soave inondava — son certo — ambedùe, e lo
gustavamo in silenzio. Oh quanti rosati castelli edificài quella notte! oh qual
romanzo credetti di aver cominciato! Ma il viaggio finì, e i castelli si
sciòlsero, e del romanzo non restò scritto che il tìtolo.
Or che vuòi? io
preferìi sempre l'amore in bocciuolo a quello, non dirò pure in frutto, ma in
fiore; io non seppi decìdermi mai, perché l'àngelo non mi fuggisse, a
tagliargli le ali. E anche tu lo puòi dire, o gentile, il cui volto parèa uno
schizzo a carbone su'n bianco muro, tu, che, divisa da mè da una via, uscivi
sul terrazzino a coltivar fiori, quand'io mettèvomi con un libro al mio
davanzale, rimpetto al tuo. Noi sentivamo, io ciò che tu confidavi ai fiori, tu
quello che io leggevo nel libro. Quando poi, venuta la sera, la tua finestra
s'illuminava, scorgevo, dietro le calate tendine di mùssolo, il grazioso
profilo di una inclinata testina e di dita che agucchiàvano svelte. Ma capo e
mani, talvolta, si confondèvano in una sola ombra qual di piangente, e allor mi
era dolce di lagrimare teco. Un dì apparisti sul balconcino con una lèttera in
mano; ne leggevi una linea, poi mi guardavi, ne leggevi un'altra e tornavi a
guardarmi. Quella lèttera, non v'ha dubbio, ti annunciava amore e ti era stata
inviata da un amico a tè ignoto ed anche, disgraziatamente, a mè. Oh quanto io
gioivo della tua gioia e insieme dolèvami di non avèrtela procurata io! Ma ora
tu avevi trovato e avresti posseduto tra poco chi ti amava; io dunque non ti
abbisognavo più, cara giòvine; e da quel giorno, per tè felice, infàusto per
me, cessài dal guardarti.
Ma, più che ogni
altra, io ho in cuore tè — come mai ti chiamavi? — buona e sana e rubiconda
fanciulla, dal volto e dalle manine piene di fossarelle, dallo sguardo lìmpido
e aperto... — ah sì, Èster — che eri, ad un tempo, la cameriera e la confidente
di una mia zia. Il tuo eburneo allegro sorriso, quel sorriso che è il sale
della bellezza, avèa in sé la luminosità di mille candele. Sovente, io passavo
la sera da zia, cenando e poi giocando con essa al pacìfico dòmino. Tu intanto,
silenziosamente seduta in un àngolo della sala, cucivi, e tratto tratto
sospiravi. Oh avessi saputo come io attendevo con ansia — colla stessa tua
ansia forse — l'istante di potèrmene andare, perocché, uscendo, tu mi
accompagnavi a farmi lume giù per le scale e ad aprirmi il portone. Più
scendevamo e più il passo facèvasi lento. Talora ci soffermavamo, minuti, sui
pianeròttoli senza saperne il perché, in uno di que' silenzi zeppi di tante
parole, mentre il lume fumoso nella distratta tua mano pingèa di accusatrici
macchie la parete. A mè le fresche fragranze delle verginali tue carni
affluìvano come àure primaverili da prati di màmmole. Mangiavo con gli occhi le
mele appiuole della tua faccia e le rosse ciliegie della tua bocca, mature ai
baci; e di baci avrèi voluto rièmpiere le tue cento fossette, i capelli, gli
occhi, i rosei ginocchietti delle dita. Senonché, tutti e due si ripigliava la
pigra discesa. Giunti al portone, tu non riuscivi mai, se non dopo assài prove,
ad infilare la chiave nella toppa, né io sapeva ajutarti, cosicché, spesso, si
rimaneva là, uno in faccia dell'altro, arrossendo, balbettando, finché qualche
inquilino — soprarrivando dalla strada — non ci togliesse dal grato imbarazzo.
E allora io doveva, melanconicamente, rivedere le stelle, e tu risalire le
scale... con l'inquilino. Poi, morì zia. Casa sua, e tu con essa, spariste.
Dove ora sei, buona Èster?
Un altro mio
amore naque, crebbe, finì a strette di mano. Fra i tatti, quel della mano è il
rè. Màssima intèrprete o còmplice della volontà, la mano coltiva ed edìfica,
scrive e plasma, carezza ed uccide. Essa è l'azione ed è la persona: essa ci fà
sùbito noto con chi trattiamo, ché vi ha la mano intellettuale e la mano cretina,
una tutta frèmiti, geli, accensioni, l'altra impassìbile, dura: vi ha la mano
che attira e quella che respinge; vi ha la mano di pressoché tutte e la mano
di... Lisa.
Era, questa,
lunga e bianca, liscia qual perla, trasparente come alabastro, dalle dita le
cui cime polseggiàvano — dita affusolate e flessìbili sì da poterle rovesciar
su sé stesse quasi fòsser senz'ossa, eppur tali, per nervosità, da non èsser
piegate che a forza, se non volèvano cèdere. I microscòpici òrgani
elettro-motori, da Pacini scoperti ne' polpastrelli,
dovèvano èssere in sifatta mano sàturi di elettricità. La prima volta che io
l'ebbi nella mia, parèa muta, marmorea, cadavèrica: il suo tocco, una forma
convenzionale di saluto, non l'accòrrere di una sensibilità verso l'altra. Ma,
a poco a poco, le nostre mani si intèsero: quella di Lisa cominciò a prèmer più
forte quand'io mi congedavo da lei di quando me le presentavo. Oh come bianca
quella manina! oh come negri gli occhi di chi me la offriva! Una sera, toccàndola,
scattò da essa un trèmito che mi arrivò sino al cuore. D'allora in poi, Lisa
più non mi porse la palma sua con l'abbandono, più non serrò la mia con la
sicurezza di prima: nell'istante del commiato un indefinìbil ritegno, una
parèntesi di riflessione, si metteva fra noi, incerti a chi primo dovesse
stènder la mano. Dove l'amore è molto, poca è la disinvoltura. Senonché, quando
il casto connubio era osato, non più sapevamo, quasi a compenso della
anteceduta tardanza, dissòlverlo. E allora, guardàndoci, tacevamo. Non è forse
il silenzio, in amore, la più deliziosa delle sue dichiarazioni? Ma, pur
troppo, altri parlò in vece mia. Costùi potèa coprire di gemme quanto io avrèi
solo potuto di baci, e fu dai parenti, se non da Lisa, ascoltato. Or la manina
di lei, quell'augelletta che, a volte, io dubitavo, per non sciuparla, di
strìngere, giace sepolta nel cavo di una manaccia rozza, callosa, insensìbile —
teca di piombo e di quercia ad un inno, in cinque strofe, d'amore.
Oh strette di
mano, celate elemòsine di affetto, oh sguardi densi di preghiere e promesse, oh
titubanze e rossori, impallidimenti e sospiri, oh cento e mille sottintesi e
presensi, quanto mai vi ricordo, e come, tuttora, mi consolate! Né tra voi
manca il bacio — ùnico bacio che nel dar mi fu dato.
Era allora il
settembre dell'anno e il maggio della mia vita. Io mi trovavo sulla sponda di
un lago straniero, in un vasto albergo. L'albergo era stipato di gente che io
non conoscevo neppur di linguaggio, e però in esso, vivente deserto per mè,
godevo tutti i vantaggi, tutto il piacere della solitùdine. E un dì, sul
tramonto, rincasavo da una delle mie camminate a caccia di fiori e di idèe. La
campanella avèa già sussultato di bronzea tosse chiamando a tàvola, dal
giardino, dai pòrtici, dalle càmere, i forastieri sbadigliosi e nojati. Solo,
dietro la grande vetriata del salone che si apriva sul pòrtico esterno, una
fanciulla indugiava. Un rosso scialletto le copriva le spalle cingèndole i
fianchi, e il pellùcido volto di lei, improntato a sofferenza gentile e
serbante le traccia di una pioggia di làgrime, appoggiàvasi estaticamente
all'ampio cristallo, contro il quale la punta del suo nasino e le labbra
mostràvansi, a mè di quà della lastra, espanse e come schiacciate. E sulle
labbra parèa sospeso un sospiro in attesa di un bacio.
Come
negàrglielo? Con un sùbito moto posài la mia bocca sovra il cristallo contro la
sua e baciài. Le ànime nostre toccàronsi. Fu un istante ineffàbile. La
fanciulla si distaccò, si strappò quasi dalla vetriata e fuggì. Ma splendeva.
Ed io? Io,
all'alba seguente, partivo — sbigottito e felice di aver tanto osato o sì poco.
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