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ANCORA IN TERRA
E non solo de' mièi,
ma degli amori degli altri ho goduto e specialmente di quelli degli amici. Se
taluno quì sogghignando dicesse: «ciò è d'uso», potrèi rispòndergli col fiero e
pudico motto dei cavalieri della Giarrettiera. Le brìciole degli altrùi
banchetti amorosi hanno sempre avuto per mè sapori e profumi, insospettati a
coloro medèsimi che vi sedèvano, ingordi o nauseati.
Ho già detto
quanto mi appassionassi ai romanzi, sino a confòndermi coi lor personaggi, e
come mi innamorassi delle simpàtiche eroine, fino ad incollerirmi coi loro
amanti, quando questi le trattàvano non a seconda delle mie intenzioni.
Soggiungerò che la lieta fine di un amore scritto — raramente lieta in uno
vissuto — il matrimonio, rendeva mè pure beato. Mercè i romanzi, io mi trovài
dunque, più volte, amante riamato o sposo felice, senz'òbblighi notarili o
morali di rimangiarmi per tutta quanta la vita i detriti della felicità.
E, come sul
cammino del romanzo, così in quello della vita reale, io sempre mi rallegrài e
rallegro all'incontro di una coppia ben assortita e contenta. La direte follìa
— non però tu, amica geniale — ma io credo e mi persuado ognor più che ciascuno
di noi è il volume di un'ùnica òpera, la molècola di un medèsimo sterminato
individuo sulla foggia del Leviathan di Hobbes o dei mondi animati del Nolano.
E però le altrùi glorie, quando schiette, m'inorgoglìscono come se fòssero mie;
gli amori degli altri, quando veri e profondi, mi consòlano come se
appartenèssero a mè. Nulla mi è più gradito degli sguardi mutuati tra pupille che
si comprèndono e si vògliono bene; io mai non mi posi tra essi; anzi, fin dove
è onesto, li favorìi. Oh, con quale occhiata tu mi ringraziavi, o fanciulla,
quando, uscendo a passeggio, io sequestravo alla tua ìspida istitutrice il
braccio, mentre l'amato giòvane offriva a tè il suo: oh come, ritardando, più
che potevo, il passo, mentre vojaltri lo allungavate, accompagnavo con occhio
di affetto la vostra coppia gentile che si scambiava sussurri, inarrivàbili
alle tesi reti acùstiche della tua vìgile!
Senonché, quanto
mi è a gioja l'assìstere ad una mùsica mite d'amore a quattro mani suonata, a
due desideri placati in un'ùnica soddisfazione, altrettanto m'indispettisce lo
spettàcol di donna che, amando èssere amata, gli amanti odia, e li cangia, coi
mille capricci della sua malvagità, in spregèvoli servi; o, peggio ancora,
d'uomo che, feroce e vigliacco, fà piànger colèi che lo adora. E qui ricordo un
mio condiscèpolo d'università, del quale si era pazzamente innamorata una
fanciulla buona e bella. Di quale plebèo combustìbile si alimèntano molte volte
le pure fiamme di una ragazza, è strano! in bocca di quali gattacci vàdano
spesso a finire tante canarine graziose, è deplorèvole! Aveva egli una di
quelle faccie convenzionali di bel-giòvine che vèggonsi sui
giornali dei sarti. Né l'animaccia, che, come il sale, impedìvagli di
completamente marcire, disaccordàvasi dall'aspetto. Costùi, sempre in
ammirazione di sé medèsimo — e tenèasi addosso, pensa! uno specchietto in cui
si mirava di tratto in tratto scimmiescamente — riceveva, spesso, lèttere della
pòvera bimba e, tra lo sprezzante e il vanesio, me le mostrava. Certamente, non
èrano testi di lingua: a scuola non avrèbbero, forse, neppur riportato i punti
occorrenti alla promozione, tuttavìa spiràvano tale una ingenua e profonda
passione che, leggèndole io, mentr'egli, il furfante, sogghignava arricciàndosi
i baffi, mi sentivo commosso di tenerezza per la innocente fanciulla e d'ira
per l'indegnìssima càusa delle sue afflizioni. E allora, per una magnètica
trasposizione di sentimenti, mi sembrava che tutte le lèttere che io leggeva di
lei, fòssero, non a lui, ma veramente dirette a mè che le meritavo, e godevo
delle loro espressioni come se fòssero a mè dedicate. Non solo: ma componevo le
più amorose risposte, le ricopiavo sulla carta più fina e le mettevo in...
pila. È un epistolario, come altri cèlebri, in cui la posta nulla ha che vedere
e che potrebbe, quandochessìa, èsser dato alle stampe senza perìcolo di rossori
mièi od altrùi. Un giorno, mi venne poi fatto — ned era così diffìcile, poiché
il mio condiscèpolo piacèvasi di dimenticar dappertutto i documenti della sua
vanità — d'impossessarmi di una lèttera di quel cuore malcapitato. Per lungo
tempo, essa mi fu soave compagna: la recavo con mè nelle passeggiate: la miravo
talvolta con le pupille annuvolate di làgrime e ne baciavo con religione
d'amore la firma: quando poi, coricàndomi, l'avevo nascosta sotto il guanciale,
mi pareva di giacere men solo. Oh fanciulla non vista mai né a mè nota, che ti
disperavi di non èsser riamata, quanto invece lo fosti! Se nelle regioni
spirìtiche, se nel mondo della quarta dimensione, c'incontreremo, come
impalliderài di giojosa sorpresa, trovando negli occhi mièi le mille
dichiarazioni d'amore da tè sognate, quelle dichiarazioni, che tante volte ti
ho dette e tu non udisti, che tante volte ti ho scritto e tu non leggesti!
Pronto invece
fui sempre, come Ovidio, a favorire gli amori altrùi. Abitavo — molti anni son
corsi — un pìccolo alloggio, in una via fuori di mano e tranquilla, tutta
giardini e conventi. Di tempo in tempo, un amicìssimo mio me la chiedeva in
prestanza per un segreto convegno — con chi non diceva — ma dal suo occhio
sereno capivo trattarsi di ben differenti cospirazioni delle polìtiche, ed il
silenzio di lui èrane prova. E allora abbigliavo a festa la mia casetta, come
se la sponsa de Lìbano dovesse scèndere a mè, non a lui; cancellavo dagli
specchi ogni mìnima appannatura e dai mòbili ogni velo di pòlvere; stendevo i
lini più mòrbidi e i tappeti più sòffici, non lasciando càlice senza fiore, né
fiala senz'essenza odorosa né cuscinetto senza spilli: disponevo perfino sui
tàvoli libri di gentilezza, e sul leggìo del pianoforte pàgine musicali, dirèi
amorose se tutta la mùsica non fosse voce, anche nell'ira, d'amore. Rientrando
poi, a notte alta, in casa, benché l'àngiolo nel suo passaggio non vi avesse
piuma perduto, sentivo cullarsi nell'aria una sottile fragranza come di
violette fiorite in ajuole celesti, e negli specchi mi pareva sorprèndere
ancora il riflesso di una forma di cherubino; e, quella notte, il letto mi si
cangiava, tra i sogni, in càndide braccia femminee. Sovratutto gioivo, allorché
qualche fiore, di quelli che avevo io colto e apprestato, mancava,
imaginàndomelo ne' suòi capelli. Una volta, per contro, ne trovài uno di più —
posato sulla «Divina comedia», e precisamente ai versi «
«amore — acceso
di virtù sempr'altri accese, — purché la fiamma sua paresse fuore», un
incoraggiamento e un consiglio. E con riconoscente tremore me lo avvicinài alle
labbra, come se offèrtomi, e lo baciài. Molti anni — ripeto — son corsi. Il mio
amico dimenticò interamente questo episodio della sua vita. Io serbo tuttora,
nella tomba immortale dove fu posto, quel fiore e con esso il ricordo di un anònimo
amore che ogni dì più và facèndosi mio.
Un'altra volta,
un altro amico mi pregò di dargli una mano in un incontro ch'egli desiderava di
avere con una giòvine da lui amata e lontana. Il mio amico reggeva, in una
borgata pettègola, un pùbblico uffìcio che non gli avrebbe permesso di
accògliere in casa ragazze sole senza esporsi a commenti infiniti. La giòvine,
che io non conoscevo neppur di veduta, dovèa figurar, quindi, come sorella mia
e tutti e due passare per nipoti suòi. Io mi sarei recato a ricèverla sulla
riva di un lago, distante poche ore dalla borgata, e gliela avrèi condotta. Per
riconòscerci, era inteso che la giòvine, nello sbarcare, terrebbe in mano un
volumetto dalla verde rilegatura e che io me le sarèi presentato con un
garòfano rosso all'occhiello.
Mi recài dunque,
nel giorno e nell'ora posta, all'indicato luogo ed ivi aspettài la mia
improvvisata parente. Il piròscafo apparve (oh come il cuore mi palpitò
quand'esso riunissi alla riva!) e tra i passeggeri che ne discèsero, vidi la
giòvine col volumetto verde — una magrolina ventenne, tutta sola, che intorno
guardàvasi miopemente, cercando, essa pure, qualcuno. A lei mi avvicinài
arrossendo, e anch'essa arrossì. Una carrozzella attendeva lì presso. Ella vi
montò su, svelta, da un predellino, io dall'altro, e la carrozzella si mosse.
Era ben naturale
che nei primi momenti ci si sentisse assài imbarazzati. Ambedùe ci vedevamo in
una posizione delicatissima, dubitando e temendo ciascuno di parere all'altro
quello che veramente non era. Io studiavo sott'occhio l'aspetto della mia
compagna. Ella era tutta modestia, nell'àbito, nell'atteggiamento, nel viso —
un viso che io avrèi definito: un complesso simpàtico di difetti. Per
interròmpere un silenzio che cominciava a farsi uggioso, le domandài quale
fosse il nome del libro che teneva fra mani... — né come ella si nominasse
sapevo ancora.
Ella, confusa,
mi disse invece il suo — Adele —, e mel disse con una melodiosa oscillazione di
voce: poi, accòrtasi, mentre mi rispondeva, della domanda che fatta gli avevo,
mi porse, arrossendo, il libro.
Era questo un
poema in versi, breve di mole, denso di affetto, «Enoch Arden» di Tènnyson, un
di que'libri la cui lettura è per l'ànimo come un bagno di bontà. Io espressi
le mie simpatìe pel generoso poeta ed ella si unì a mè nella lode. Avviato il
discorso sulla carreggiata della letteratura, scopersi presto in Adele, non
solo una leggitrice insaziàbile ed un finìssimo crìtico, ma — quanto più mi fu
caro — un'alleata nelle mie letterarie adorazioni. Comunanza di amicizie è di
amicizia cagione. Frequentatori ambedùe di casa Shakspeare, casa Montaigne,
casa Lamb, Rìchter, Manzoni e altrettali, non potevamo più considerarci,
reciprocamente, forastieri.
Passava la
strada fra vigneti gravi di porpuree uve e sparsi di vendemmiatori. Adele uscì
in una esclamazione ammirativa e desiderosa. Feci fermare la carrozzella, e
comprammo dai vignajuoli una grembialata di gràppoli. Steso quindi un giornale
sulle mie e sulle ginocchia di lei e ammucchiàtavi l'uva, ci mettemmo deliziosamente
a mangiarla, spiccando gli àcini dallo stesso gràppolo e insieme cianciando e
ridendo all'ombra delle vaste impassìbili spalle del vetturino.
E più Adele
parlava ed io miràvala e più mi sembrava che le sue cento bruttezze minùscole
si fondèssero in una sola e grande bellezza, quella della intelligente bontà:
la sua medèsima miopìa, che dapprincipio parèami fastidiosa, conferiva al suo
viso una espressione tutta speciale di attentività, gratìssima a chi la
guardava e parlàvale. All'imbarazzo era insomma sottentrato una vera
famigliarità e la parte di stretti parenti, stàtaci imposta, ci diventava
sempre più fàcile.
Ma, ad un
tratto, il battuto della piana strada di campagna cede' all'acciottolato
fracassoso e trabalzatore di una città.
— Siamo giunti!
— dissi.
— Di già! —
esclamò ella in tuon di rammàrico, e taque.
La carrozzella
si arrestò ad una bianca casetta. Il mio amico, un giovinottone acceso di
colorito e baffuto, era sul marciapiede ad attènderci. Si fe' al predellino ed
ajutò a scèndere Adele, o a meglio dire, la trasportò giù come un cuscino di
penne. «Come state, carìssimi nipoti mièi?» — vociava egli a noi o piuttosto ai
vicini affacciati a tutte le porte e finestre — «spero bene che questa volta
non mi scapperete via sì presto! » — E in casa ci trasse, sollevàndoci quasi di
terra, uno per braccio.
Verso sera, mi
congedài da lui e... da lei. Ella mi accompagnò fino all'albergo dove il
vetturino era andato a staccare e donde sarèi ripartito — solo — con esso. Gli
occhi di Adele èrano ùmidi e tristi, e anche i mièi. Non mai fratello fu
salutato con affetto più intenso, non mai sorella lasciata con maggiore dolore.
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