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SEMPRE IN TERRA
In procinto di
riallargare le ali, mezzo impacciate di terra, per ritentare la via dei cieli,
mi si attacca alla punta di una un pìccolo èssere abbigliato da cagnolina, che
facendo lingua degli occhi e della coda par dica: non mi scordare. E come lo
potrèi, Tea mia? come oserèi, scrivendo di amori, non citare il tuo nome, non
fare anche a tè, cui debbo tanto, una carezza di carta?
Chiunque, sia
egli il più scellerato, il più duro, il più odiato tra gli uòmini, ha vitale
bisogno di voler bene a qualcuno, a qualchecosa. Finché a tè fan corona le
bionde chiome de' tuòi figliuoletti e le nere della tua sposa alternate coi
grigi capelli de' tuòi genitori ed i bianchi de' nonni, e sulla tàvola vostra
il cibo sùpera l'appetito, né il notajo vi si presenta se non per rogare
contratti di nozze, il prete per benedire neonati, il mèdico per brindeggiare
alla salute di tutti, è probàbile che l'umanità a quattro gambe o con ali o con
pinne non desti in tè più di quel senso di generale benevolenza che un cuor
contento non può non sentire per ogni cosa animata. Ma avvenga che que' capelli
non ti sieno più se non recise memorie, che nessun braccio più attenda il
sostegno del tuo od il tuo speri quello degli altri, avvenga che degli opimi
banchetti più non ti avanzi neppure la tàvola e col cuoco ti abbian fuggito
amici e clienti e favor pùbblico, avvenga in una parola che tutte le
maledizioni dell'Èrebo sìeno scoppiate sulla innocente tua testa, che, a tè,
tradito persino dalla Illusione e dalla Speranza — le due meno incerte amiche
dell'uomo — ti si affacci, la prima volta, il terrore della solitùdine, oh
allora sentirài quale onda di riconoscenza, di amore, di gioja sorgerà nel tuo
petto all'apparizione di un ùmile cane che cerchi le tue carezze, come a dire
«io ti resto». Peggiori ancora il tuo stato: dell'ampio universo non ti si concèdano
che pochi metri quadrati di prigione; sia tu privo del volto persino de' tuoi
carcerieri — e allora al minùscolo topo che avresti, a piena dispensa,
tranquillamente cibato... di veleno, offrirài grato il pan nero a tè scarso, e
allora trarrài pur dalla compagnìa di un ragno, di cui tanti schiacciasti colle
piatte pantòfole, consolazioni che, uguali, non ti dièdero mai gli amici
scomparsi.
Qual meraviglia
dunque, se, in una vita, come la mia, pressoché tutta da chiostro e da càrcere —
una vita da Ròbinson Crusoe senza Venerdì — le bestie (tra le quali io mi
comprendo ben volentieri) àbbiano avuto una parte non indifferente? Prima
ancora che giungessi a scoprire di che affetti sono esse capaci, è attraverso
le bestie che mi fu facile di studiar l'uomo e me stesso. In quella maniera, di
fatti, che per tentar di risòlvere i problemi del mondo esteriore occorre
anzitutto osservarli nelle loro espressioni più sèmplici, così, per formarci
una giusta idèa del mondo interiore, dei sentimenti che lo govèrnano, delle
passioni che lo contùrbano, d'uopo sarà analizzare gli organismi
intellettualmente men complicati. Cento virtù, mille vizi ha in sé medèsimo
ogni uomo, virtù e vizi che s'intrècciano, si confòndono, si neutralìzzano
reciprocamente, e rèndono malagèvole e quasi impossìbile la sìngola lor
percezione: nella bestia invece (questo anagramma dell'uomo, come fu definita)
trovi l'umana natura lìbera dalle sofisticazioni della civiltà, dagli artifici
della educazione: una sola qualità buona o cattiva dòmina in ciascuna lor
progenie: non vi sono le altre che semplicemente accennate, come i denti del
giudizio in noi. Fàcile ei quindi — ripeto — di rilevare e studiare le
caratteristiche della qualità dominante.
Oh a quante
idèe, nella cui òrbita, filòsofi, economisti, polìtici non rièscono spesso di
lusingarci, voi, bestie, praticamente ci persuadete. Uno fra i temi favoriti
dagli scrittori di socialismo è quello del godimento in comune delle ricchezze,
del boccone che tocchi a ciascuno in eguale misura: senonché, pur ammirando il
generoso propòsito, fieri dubbi pòssono sòrgere in voi, come sòrsero in mè,
sulla permanente applicabilità sua. Orbene, egli basta che voi passiate vicino,
come io passài, ad un mucchio d'immondezza sovra il quale cani, gatti, topi,
banchéttino insieme senza litigi e senza alcun desiderio di assaggiarsi l'un
l'altro, e tosto l'idèa della universa comunione dei beni vi sembrerà piana ed
attuàbile. Medesimamente; corazzàtevi pure di tutto il ricettario di Sèneca per
non temere la morte e di Tomaso a Kèmpis per spregiare la vita, quando la morte
vi chiamerà, voi tremerete entro la vostra corazza: possiate invece in quel
punto ricordar solo il pacìfico velarsi degli occhi nella eternità di un ùmile
gatto, di un mìnimo augelletto, e tranquillamente uscirete di vita, come si
esce di casa, senza bisogno di filosofìa e teologìa. Dignità e pazienza,
indipendenza e coraggio, risparmio e self-help, tutte
insomma le virtù imaginabili, noi le possiamo conòscere e apprèndere nella loro
purezza, assai più che nei libri degli uòmini in un pràtico corso di zoologìa
morale.
Di tutte le
bestie, però, quella che io preferisco, dopo la donna, è il cane. L'àquila che,
con le ali aperte e gli occhi ardenti, piomba dal cielo, il leone dalla faccia
gigantescamente umana e dall'incesso maestoso, il tigre che flessuoso ed armato
sta per lanciarsi sulla preda, sùscitano, è vero, una estètica ammirazione, pur
sarà sempre prudente di mantenere fra essi e noi una buona inferriata. Ben volentieri
si palpa il collo superbo del cavallo e con interesse si guarda il meditabondo
occhio del bove e la filosòfica fronte dell'asino, ma il troppo volume
dell'individuo da amarsi è di ostàcolo all'intimità dell'affetto. Solo gli
uccellini ed i gatti potrèbbero compètere coi cani nelle nostre affezioni.
Senonché, per gli augelli, esiste al rovescio l'ostàcolo che abbiamo rispetto
alla bestie maggiori di noi — son troppo pìccoli; e quanto ai loro
destinatari... Quanto ai gatti, cioè, ben concedo che essi possièdono una
qualità nobilìssima di cui il cane difetta, l'amore della indipendenza. Pur se
si lòdano le virtù, mal si soppòrtano i virtuosi, tanto più trattàndosi di
virtù — come questa — che offende noi altri padroni. Perciò preferisco — ripeto
— i cani.
Né dimenticherò
mai Tea. Era Tea una cagnolina quasi tascabile di schiatta terragnola, a
chiazze bianche, nere e castagne, bastardetta anziché nò — ma quale più nobile
schiatta non ha in sé del bastardo? In compenso, possedeva coda ed orecchie
intatte e sapeva con esse esprìmersi più chiaramente che non noi, verso lei,
colla voce. Tea mi era stata donata già grandicella, e nel suo stato di
servizio contava parecchi fatti ammirèvoli, tra i quali la pacificazione di una
famiglia. Perocché in questa famiglia, composta di tre ricche ed oziose quindi
nojate persone, scoppiàvano quotidianamente, prima che Tea vi comparisse,
grosse liti. A ciò sceglièvasi solitamente l'ora dei pasti. Avèa ciascuno il
suo sacchetto di bile a vuotare: la signora garriva aspra il marito: il padre
rimproverava a torto e a ragione il figlio: quest'ùltimo rispondeva
villanamente a tutti e due. Rado il giorno, in cui si arrivasse alle frutta
senza aver rotto un pajo di piatti e di bicchieri o rovesciata qualche sedia.
Senonché il nero musetto, appena nato, di Tea, apparì, luminoso, in siffatta
casa. Que' tre strumenti di capi, che non potèvano mai accordarsi in nessun
tuono e motivo, trovàronsi, per la prima volta, all'unìsono nel far festa alla
nuova venuta. Ed essa, a festeggiar loro. Tea divenne, in breve, la più grande,
l'ùnica preoccupazione dei suoi tre padroni, lo scopo dei loro discorsi, la
messaggera delle loro carezze, la particella congiuntiva degli ànimi loro — i
quali, così occupati senza interruzione di lei, dimenticàvano presto e
completamente sé stessi. E, dov'era guerra, fu pace.
L'intelligente
affettuosità di Tea avrebbe potuto suggerire non poche pàgine d'appendice al
plutarchiano opuscolo de solàtio animalium. Quand'io rincasavo, ella sùbito
indovinava, mentre la fantesca non si addava di nulla, il mio umore; e, se
gajo, ballàvami intorno la più allegra accoglienza: se melancònico, andava a
raggomitolarsi in un àngolo del canapè e mi fisava con certi furbi e lùcidi
occhietti, che parèvano àcini d'uva nera, finché non mi avesse cavato un
sorriso d'invito che me la faceva balzare sulle ginocchia. Sempre vispa e
contenta, del resto, perfino ne' suòi ùltimi istanti, allorché con l'àrida e
stanca lingua, lambìvami ancora la mano, non si querelava e piangeva che al
suono vespertino delle campane. Ed era un lamento lungo, ineffàbile. La Tea
doveva esser l'ànima di una monachella morta d'amore.
Oh quanti buoni
consigli Tea mi diede che non seguìi. Fu un'estate in cui avevo preso abitùdine
di recarmi di buon mattino ai giardini pùbblici, e là sedermi con un libro
su'na panchetta, mentre la mia pìccola amica col suo musetto studiava, tra la
pròssima erba, botànica. Ora, di rimpetto a mè, di là dall'allèa, non sò se per
caso suo o mio, si metteva sempre a sedere su un'altra panchetta o già si
trovava seduta una signora modestamente elegante e bella, pur con un libro.
Ella leggeva ed anch'io, ma i nostri sguardi s'incontràvano spesso di sopra le
pàgine. Tea non tardò ad accòrgersi delle nostre simpatìe, e fece quanto avrèi
dovuto fare io: attraversò l'allèa e si fermò dinanzi alla graziosa signora,
con un'amichevole aria d'interrogazione tra chi domandi e chi offra. La signora
la chiamò a sé sottovoce. Tea non si fece pregare. Raccolta carezzosamente da
terra, si acchiocciolò tutta contenta nel nuovo grembo, come in casa sua,
volgèndomi una guardatina, come a dire: impara o sciocco. Ma io non mi mossi.
Allora Tea saltò giù con una scosserella dalla invidiàbil nicchiuccia e corse a
me, piroettàndomi intorno, abbajando, tiràndomi per i calzoni, finché io mi
alzài, ed andài... via. E questa pantomima a tre attori si ripetè suppergiù il
dì successivo e parecchi dì appresso. Finalmente un mattino, in cui dopo molti
sì e nò, conchiusi, secondo il mio sòlito, con un getto di dadi, avevo risoluto
di osare, la graziosa signora mancò allo spontaneo convegno. Né più apparve.
Moderata aspettazione — come lieve soffio — infiamma il desiderio, troppo —
come buffo violento — lo spegne. Tea aveva fatto quanto poteva per ajutarci, ma
il suo padroncino era nato per arrivar, sempre ed in tutto, un momento dopo. In
qualsiasi amore vi ha un quarto d'ora, in cui la vittoria è fàcile e certa.
Guai a colùi o a colèi che non ne approfittano. Quel quarto d'ora non torna
più.
Grazie, o Tea,
de' tuòi savi consigli, quantunque, per colpa mia, inùtili. Grazie delle tante
volte che col tuo vezzeggiare, colle smorfiuccie, colla sola presenza,
cangiasti in un sorriso il greppo delle mie labbra. Sempre mite, obediente,
paziente, riempisti d'affetto — come treggèa in una scàtola di grossi dolci —
gli interstizi tra un mio amore e l'altro, cosicché posso dire che, mercè tua,
durante alcuni anni, sul mio cuore non pendè mai l'est locanda. E oggi ancora,
dall'alto della libreria, che di faccia mi stà mentre scrivo, tu bianco-nera,
imbalsamata mia amica, col tuo zampino anteriore levato, le orecchie tese, il
codino all'insù, mi proteggi, e col tuo sguardo di nero cristallo fra punti di
sopragitto, sembri dirmi: ti amo.
Oh, a te credo.]
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