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Carlo Dossi
Amori

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  • AMORI
    • 7 - SEMPRE IN TERRA
      • 1. Tea
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7 - SEMPRE IN TERRA

 

1. Tea

 

In procinto di riallargare le ali, mezzo impacciate di terra, per ritentare la via dei cieli, mi si attacca alla punta di una un pìccolo èssere abbigliato da cagnolina, che facendo lingua degli occhi e della coda par dica: non mi scordare. E come lo potrèi, Tea mia? come oserèi, scrivendo di amori, non citare il tuo nome, non fare anche a , cui debbo tanto, una carezza di carta?

Chiunque, sia egli il più scellerato, il più duro, il più odiato tra gli uòmini, ha vitale bisogno di voler bene a qualcuno, a qualchecosa. Finché a fan corona le bionde chiome de' tuòi figliuoletti e le nere della tua sposa alternate coi grigi capelli de' tuòi genitori ed i bianchi de' nonni, e sulla tàvola vostra il cibo sùpera l'appetito, né il notajo vi si presenta se non per rogare contratti di nozze, il prete per benedire neonati, il mèdico per brindeggiare alla salute di tutti, è probàbile che l'umanità a quattro gambe o con ali o con pinne non desti in più di quel senso di generale benevolenza che un cuor contento non può non sentire per ogni cosa animata. Ma avvenga che que' capelli non ti sieno più se non recise memorie, che nessun braccio più attenda il sostegno del tuo od il tuo speri quello degli altri, avvenga che degli opimi banchetti più non ti avanzi neppure la tàvola e col cuoco ti abbian fuggito amici e clienti e favor pùbblico, avvenga in una parola che tutte le maledizioni dell'Èrebo sìeno scoppiate sulla innocente tua testa, che, a , tradito persino dalla Illusione e dalla Speranza — le due meno incerte amiche dell'uomo — ti si affacci, la prima volta, il terrore della solitùdine, oh allora sentirài quale onda di riconoscenza, di amore, di gioja sorgerà nel tuo petto all'apparizione di un ùmile cane che cerchi le tue carezze, come a dire «io ti resto». Peggiori ancora il tuo stato: dell'ampio universo non ti si concèdano che pochi metri quadrati di prigione; sia tu privo del volto persino de' tuoi carcerieri — e allora al minùscolo topo che avresti, a piena dispensa, tranquillamente cibato... di veleno, offrirài grato il pan nero a scarso, e allora trarrài pur dalla compagnìa di un ragno, di cui tanti schiacciasti colle piatte pantòfole, consolazioni che, uguali, non ti dièdero mai gli amici scomparsi.

Qual meraviglia dunque, se, in una vita, come la mia, pressoché tutta da chiostro e da càrcere — una vita da Ròbinson Crusoe senza Venerdì — le bestie (tra le quali io mi comprendo ben volentieri) àbbiano avuto una parte non indifferente? Prima ancora che giungessi a scoprire di che affetti sono esse capaci, è attraverso le bestie che mi fu facile di studiar l'uomo e me stesso. In quella maniera, di fatti, che per tentar di risòlvere i problemi del mondo esteriore occorre anzitutto osservarli nelle loro espressioni più sèmplici, così, per formarci una giusta idèa del mondo interiore, dei sentimenti che lo govèrnano, delle passioni che lo contùrbano, d'uopo sarà analizzare gli organismi intellettualmente men complicati. Cento virtù, mille vizi ha in sé medèsimo ogni uomo, virtù e vizi che s'intrècciano, si confòndono, si neutralìzzano reciprocamente, e rèndono malagèvole e quasi impossìbile la sìngola lor percezione: nella bestia invece (questo anagramma dell'uomo, come fu definita) trovi l'umana natura lìbera dalle sofisticazioni della civiltà, dagli artifici della educazione: una sola qualità buona o cattiva dòmina in ciascuna lor progenie: non vi sono le altre che semplicemente accennate, come i denti del giudizio in noi. Fàcile ei quindi — ripeto — di rilevare e studiare le caratteristiche della qualità dominante.

Oh a quante idèe, nella cui òrbita, filòsofi, economisti, polìtici non rièscono spesso di lusingarci, voi, bestie, praticamente ci persuadete. Uno fra i temi favoriti dagli scrittori di socialismo è quello del godimento in comune delle ricchezze, del boccone che tocchi a ciascuno in eguale misura: senonché, pur ammirando il generoso propòsito, fieri dubbi pòssono sòrgere in voi, come sòrsero in , sulla permanente applicabilità sua. Orbene, egli basta che voi passiate vicino, come io passài, ad un mucchio d'immondezza sovra il quale cani, gatti, topi, banchéttino insieme senza litigi e senza alcun desiderio di assaggiarsi l'un l'altro, e tosto l'idèa della universa comunione dei beni vi sembrerà piana ed attuàbile. Medesimamente; corazzàtevi pure di tutto il ricettario di Sèneca per non temere la morte e di Tomaso a Kèmpis per spregiare la vita, quando la morte vi chiamerà, voi tremerete entro la vostra corazza: possiate invece in quel punto ricordar solo il pacìfico velarsi degli occhi nella eternità di un ùmile gatto, di un mìnimo augelletto, e tranquillamente uscirete di vita, come si esce di casa, senza bisogno di filosofìa e teologìa. Dignità e pazienza, indipendenza e coraggio, risparmio e self-help, tutte insomma le virtù imaginabili, noi le possiamo conòscere e apprèndere nella loro purezza, assai più che nei libri degli uòmini in un pràtico corso di zoologìa morale.

Di tutte le bestie, però, quella che io preferisco, dopo la donna, è il cane. L'àquila che, con le ali aperte e gli occhi ardenti, piomba dal cielo, il leone dalla faccia gigantescamente umana e dall'incesso maestoso, il tigre che flessuoso ed armato sta per lanciarsi sulla preda, sùscitano, è vero, una estètica ammirazione, pur sarà sempre prudente di mantenere fra essi e noi una buona inferriata. Ben volentieri si palpa il collo superbo del cavallo e con interesse si guarda il meditabondo occhio del bove e la filosòfica fronte dell'asino, ma il troppo volume dell'individuo da amarsi è di ostàcolo all'intimità dell'affetto. Solo gli uccellini ed i gatti potrèbbero compètere coi cani nelle nostre affezioni. Senonché, per gli augelli, esiste al rovescio l'ostàcolo che abbiamo rispetto alla bestie maggiori di noi — son troppo pìccoli; e quanto ai loro destinatari... Quanto ai gatti, cioè, ben concedo che essi possièdono una qualità nobilìssima di cui il cane difetta, l'amore della indipendenza. Pur se si lòdano le virtù, mal si soppòrtano i virtuosi, tanto più trattàndosi di virtù — come questa — che offende noi altri padroni. Perciò preferiscoripeto — i cani.

dimenticherò mai Tea. Era Tea una cagnolina quasi tascabile di schiatta terragnola, a chiazze bianche, nere e castagne, bastardetta anziché — ma quale più nobile schiatta non ha in sé del bastardo? In compenso, possedeva coda ed orecchie intatte e sapeva con esse esprìmersi più chiaramente che non noi, verso lei, colla voce. Tea mi era stata donata già grandicella, e nel suo stato di servizio contava parecchi fatti ammirèvoli, tra i quali la pacificazione di una famiglia. Perocché in questa famiglia, composta di tre ricche ed oziose quindi nojate persone, scoppiàvano quotidianamente, prima che Tea vi comparisse, grosse liti. A ciò sceglièvasi solitamente l'ora dei pasti. Avèa ciascuno il suo sacchetto di bile a vuotare: la signora garriva aspra il marito: il padre rimproverava a torto e a ragione il figlio: quest'ùltimo rispondeva villanamente a tutti e due. Rado il giorno, in cui si arrivasse alle frutta senza aver rotto un pajo di piatti e di bicchieri o rovesciata qualche sedia. Senonché il nero musetto, appena nato, di Tea, apparì, luminoso, in siffatta casa. Que' tre strumenti di capi, che non potèvano mai accordarsi in nessun tuono e motivo, trovàronsi, per la prima volta, all'unìsono nel far festa alla nuova venuta. Ed essa, a festeggiar loro. Tea divenne, in breve, la più grande, l'ùnica preoccupazione dei suoi tre padroni, lo scopo dei loro discorsi, la messaggera delle loro carezze, la particella congiuntiva degli ànimi loro — i quali, così occupati senza interruzione di lei, dimenticàvano presto e completamente sé stessi. E, dov'era guerra, fu pace.

L'intelligente affettuosità di Tea avrebbe potuto suggerire non poche pàgine d'appendice al plutarchiano opuscolo de solàtio animalium. Quand'io rincasavo, ella sùbito indovinava, mentre la fantesca non si addava di nulla, il mio umore; e, se gajo, ballàvami intorno la più allegra accoglienza: se melancònico, andava a raggomitolarsi in un àngolo del canapè e mi fisava con certi furbi e lùcidi occhietti, che parèvano àcini d'uva nera, finché non mi avesse cavato un sorriso d'invito che me la faceva balzare sulle ginocchia. Sempre vispa e contenta, del resto, perfino ne' suòi ùltimi istanti, allorché con l'àrida e stanca lingua, lambìvami ancora la mano, non si querelava e piangeva che al suono vespertino delle campane. Ed era un lamento lungo, ineffàbile. La Tea doveva esser l'ànima di una monachella morta d'amore.

Oh quanti buoni consigli Tea mi diede che non seguìi. Fu un'estate in cui avevo preso abitùdine di recarmi di buon mattino ai giardini pùbblici, e sedermi con un libro su'na panchetta, mentre la mia pìccola amica col suo musetto studiava, tra la pròssima erba, botànica. Ora, di rimpetto a , di dall'allèa, non se per caso suo o mio, si metteva sempre a sedere su un'altra panchetta o già si trovava seduta una signora modestamente elegante e bella, pur con un libro. Ella leggeva ed anch'io, ma i nostri sguardi s'incontràvano spesso di sopra le pàgine. Tea non tardò ad accòrgersi delle nostre simpatìe, e fece quanto avrèi dovuto fare io: attraversò l'allèa e si fermò dinanzi alla graziosa signora, con un'amichevole aria d'interrogazione tra chi domandi e chi offra. La signora la chiamò a sé sottovoce. Tea non si fece pregare. Raccolta carezzosamente da terra, si acchiocciolò tutta contenta nel nuovo grembo, come in casa sua, volgèndomi una guardatina, come a dire: impara o sciocco. Ma io non mi mossi. Allora Tea saltò giù con una scosserella dalla invidiàbil nicchiuccia e corse a me, piroettàndomi intorno, abbajando, tiràndomi per i calzoni, finché io mi alzài, ed andài... via. E questa pantomima a tre attori si ripetè suppergiù il successivo e parecchi appresso. Finalmente un mattino, in cui dopo molti sì e , conchiusi, secondo il mio sòlito, con un getto di dadi, avevo risoluto di osare, la graziosa signora mancò allo spontaneo convegno. Né più apparve. Moderata aspettazione — come lieve soffioinfiamma il desiderio, troppo — come buffo violento — lo spegne. Tea aveva fatto quanto poteva per ajutarci, ma il suo padroncino era nato per arrivar, sempre ed in tutto, un momento dopo. In qualsiasi amore vi ha un quarto d'ora, in cui la vittoria è fàcile e certa. Guai a colùi o a colèi che non ne approfittano. Quel quarto d'ora non torna più.

Grazie, o Tea, de' tuòi savi consigli, quantunque, per colpa mia, inùtili. Grazie delle tante volte che col tuo vezzeggiare, colle smorfiuccie, colla sola presenza, cangiasti in un sorriso il greppo delle mie labbra. Sempre mite, obediente, paziente, riempisti d'affetto — come treggèa in una scàtola di grossi dolci — gli interstizi tra un mio amore e l'altro, cosicché posso dire che, mercè tua, durante alcuni anni, sul mio cuore non pendè mai l'est locanda. E oggi ancora, dall'alto della libreria, che di faccia mi stà mentre scrivo, tu bianco-nera, imbalsamata mia amica, col tuo zampino anteriore levato, le orecchie tese, il codino all'insù, mi proteggi, e col tuo sguardo di nero cristallo fra punti di sopragitto, sembri dirmi: ti amo.

Oh, a te credo.]





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