8 - DI NUOVO
AL CIELO
Avèa
diciasettanni, si chiamava Antonietta, era bella, era buona, e morì. Dìcono
fosse consunta da un amore profondo che non volle mai palesare. Così, tra una
faràggine di parole, e nel rassettarmi la càmera, mi raccontò la portiera, la
mattina stessa in cui Antonietta era stata portata via.
La ragazza
abitava all'ùltimo piano della casa dov'io studentescamente avevo alloggio.
Viveva, insieme alla madre, vèdova di un impiegato, colla scarsa pensione di questa,
e più col lavoro delle sue dita di cucitrice. Io non le avevo parlato mai: solo
mi ricordavo di avere, qualche rara volta, incontrato sulle scale o sotto il
portone, un viso pàllido e ovale, dagli occhi bassi e cerchiati di lividure,
che dovèa èssere il suo. Ebbene; all'annuncio che ella era partita per non più
ritornare, un affanno mi strinse, come se si trattasse di sventura mia. Quasi
afferrato pel braccio e strappato da una mano invisìbile, uscìi sul ripiano,
scesi le scale, ancor di rosa e di cera odoranti, e m'incamminài verso la città
della morte.
E là giunto (non
so qual senso più sottile degli altri cinque facèssemi certo della via) tenni
diritto a un gran prato trafitto di croci, dov'era un pìccolo spazio e
sovr'esso fresche corone di fiori. Sarèbbesi detto, dinanzi quel rigonfiamento
di suolo, che la terra si sollevasse per non sciupare il virgineo corpo che le
dormiva sotto, e quasi stesse per schiùdersi a ritornarlo al sole. Ivi sostài,
guardando gli oziosi fiori uniti in corone, che, ad uno ad uno, avrèbber
destato altrettanti sorrisi nella fanciulla ancor viva, e mi sentìi nella
conchiglia degli occhi nàscer la perla del dolore. Sventurata Antonietta! Di
tutte le povertà, la più tormentosa è quella d'amore. Io ti vedevo, chinata la
sofferente testina sul telajo del ricamo o il tòmbolo del merletto, le pupille
ammaccate da un lavor senza tregua e dal pianto, sempre aspettando sulla
fossarella del collo il bacio che ti avrebbe fatto felice e guarita. Ma nulla,
nulla mai, ed anche la speme — sogno di chi veglia — si dilegua da tè. Solo
dura la malinconìa, quel verme in un bottone di rosa, roditrice delle tue gote,
del seno, del cuore, né più ti manca, per èssere morta completamente, che di
serrar le palpebre.
Senonché, quì mi
sorse il pensiero, insinuante, insistente, che io, io stesso, l'avrèi potuta
salvare, con una parola, con uno sguardo d'affetto. E chi sa mai che l'ànimo
suo non si trovasse già schiuso a ricèvere il mio, che, anzi, Antonietta
segretamente non mi amasse? Fosse ciò stato, il non èssermi io accorto di lei,
era, più che una disgrazia per tutti e due, un torto non perdonàbile in mè. E
di fantasìa in fantasìa, avvolgèndomi nei labirinti della lògica sentimentale,
la quale ha règole affatto al rovescio dell'altra, finìi col persuadermi che
tutte le imaginazioni mie non fòssero che realtà, a ravvisarmi quasi colpèvole
della immatura morte di lei, a soffrire, in ogni suo aculeo, quel tormento del
galantuomo, che è il rimorso.
Insomma, capitò
a mè quello che avvenne, quattrocento e più anni fà, a Lorenzo de' Mèdici,
quando vide portata, scoperta, alla sepoltura la salma di Simonetta Cattaneo
«che avèa nella morte superato quella bellezza che in lei viva pareva
insuperàbile», m'innamorài della gentil trapassata. Di questa mia nuova passione
la nota fondamentale fu il dolore. In nessun'altra època scialaquài tante
làgrime come in questa. Forse in mè già celàvasi un'anònima ambascia, cosicché
altro non feci che darle un nome — Antonietta. Ma il pianto non solamente è
sollievo, è piacere. Recàvomi dunque, pressoché tutti i giorni, al camposanto,
e là, innanzi al tùmulo della mia pòstuma amante, riandavo tutta una storia non
avvenuta, da quando, sulle scale, ella avrebbe udito da mè la tanto aspettata
parola a quando me la avrebbe ripetuta tra i baci: così m'imbevevo, qual carta
sugante, m'inzuppavo, quale àrida spugna, di amorosa pietà, e tornato a casa,
chiùsomi in càmera, singhiozzavo e piangevo fino al
semi-deliquio. Se non mi guadagnài, in quell'època, una
cardiopatìa, bisogna dir proprio o che il mio cuore fosse ben forte o il dolore
ben tenue.
Col tempo,
questa eròtica sofferenza per Antonietta si mitigò — non dico si cancellò,
perocché io mai non cedetti una sola delle mie illusioni — e passò ad
agglomerarsi, colle molte altre, in quell'amor complessivo in cui si
abbràcciano cose e persone; tuttavìa mi continuàrono a parte, e ancor dùrano,
l'abitùdine e il gusto di passeggiare e pensare nelle campagne della messe
umana falciata.
Silenziosa è la
felicità, silenziosa è la morte. Luogo di pace e riposo fu sempre detto il
cimitero, questo gran dormitorio della vita, e, certamente, a prima vista, par
tale. Presso il ricco, il mìsero giace senza invidia, presso il mìsero il ricco
senza paura. Marito e moglie àbitano la medèsima angusta arca sine querella;
tòccano le ossa del debitore quelle del creditore: il mèdico vi ha raggiunto il
cliente, e con l'uccisore si confonde l'ucciso. Senonché, tendendo l'orecchio
dell'ànimo, ti accorgi che tanta quiete e silenzio còprono un moto febbrile, un
lavorìo instancàbile Anche quì, come nella vita, qualchecosa si attende,
aspìrasi ad una meta e vi si industria, vi si sforza di pervenire. Sulla terra
sono scopi l'amore, la ricchezza, il dominio, raramente raggiunti, non il
sepolcro, a tutti aperto; sottoterra, i vinti dalla morte cèrcano risollevarsi,
anticipando lo squillo delle trombe divine, e lavòrano indefessamente per
dissòlversi e spàrgersi nelle innumerèvoli vie della terra e de' cieli e
conquistar nuove forme. In questa pugna ostinata, in questa vita di
putrefazioni, i pòveri si tròvano sempre più favoriti dei ricchi, poiché non
dèbbon lottare che con sé stessi: gli amici, i parenti, hanno lor fatta la
carità di non vestirli neppure di abete. Ai ricchi, invece, gli eredi, i quali
tèmono le risurrezioni, dònan lenzuola di piombo, mura granìtiche, bronzee
porte... oh pòveri ricchi! Di tutti, però, il più sventurato, il più
lagrimando, è sempre il sovrano, che, cangiato in mummia grottesca, è costretto
a restar morto per sècoli, inutilmente invocante pietosi violatori alla regia
sua tomba, troppo ben custodita.
Quand'oggi entro
in un cimitero, mi par d'èsservi accolto da un immenso gèmito. Quel passato che
cerca affannosamente di prepararsi un avvenire, sembra raccomandarsi a noi —
ùnico suo presente — e supplicarci perché la terra gli sia davvero, come noi
usiamo augurargli, fàcile e pervia. Il mio sguardo passa di pietra in pietra,
di croce in croce, ed ogni ricordo di un tènero bambù spezzato ha un sospiro da
mè. E penso ai tanti disavventurati, tornati al comune crogiuolo, senza aver
veduto fiorire, nel loro giardino, le due più belle rose dell'esistenza,
l'amicizia e l'amore. Più avanzo negli anni e più la voce «che dal tùmulo a noi
manda Natura» ha conosciute e care note per mè. Lungo il fiume della memoria,
dalla sponda buja (quella della vita), scorgo sull'altra sponda (la luminosa,
ossìa della morte) sempre più aumentarsi i volti amici, che intorno a mè van
mancando. Ed io ed essi scambiamo sorrisi e saluti e baci dall'una all'altra
riva.
E, dalla riva in
luce, mi sorride Tranquillo Cremona, il pittore della bellezza casta, le cui
tele, dense di sole e d'amore, sèmbrano, non fatte ma create; il mio Tranquillo
dal genioso epigramma e dalla sapiente spensieratezza, insostituìbile amico.
E, presso a lui,
è Pàolo Gorini di tanti pìccoli mondi e di sì gran pensamenti suscitatore. Più
non crèscono le sue montagnuole, or selvose di minerbina, sono spenti i suòi
vulcanetti, perocché sovr'essi più non si china la bianca barba e la fronte affollata
d'idèe e la pupilla ùmida di bontà del lor Creatore. Ma le fiamme del nostro
affetto per Pàolo sàlgono sempre più alte e vivaci, e sempre il monte più
cresce della ammirazione nostra e di tutti per lui.
E, tra Gorini e
Cremona, tra la scienza e l'arte, un altro esploratore glorioso degli
intellettuali dominii dell'avvenire mi guarda benignamente. Grazie, o Giuseppe
Rovani, maestro mio, scrittore e dicitore magnìfico di cose degne a dirsi ed a
scrìversi — nato alle càttedre universitarie ed alle tribune de' parlamenti,
eppure, dalla ignorante viltà de' tuòi concittadini costretto al tàvolo
dell'amanuense ed alla panca della taberna! Ma tu, quale un dio, recavi
dovunque il tuo tempio, e quel tempio ancor si erge e si ergerà eternamente,
festoneggiato di fiori e fumante d'incenso, sulle nostre casùpole.
Amici mièi, e
tu, ombra soave, con essi — madre mia — ho ben coraggio, credete, se,
scorgèndovi di là del fiume, quì tuttavìa rimango in tènebre e in gelo,
attendendo la zàttera del destino che a voi mi trasporti, e se ancor vinco la
smania di gettarmi nel gorgo per raggiùngere a nuoto la riva donde voi mi
accennate — riva primaverilmente verde e fiorita, e soleggiata d'amore.
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