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QUINTO CIELO
Un raggio di
luna si spinge tra le imposte socchiuse e inonda il guanciale del letto sul
quale mi sono buttato vestito, vinto dalla malinconìa e con essa abbracciato. È
una bianca luminosa carezza che sembra dirmi: lèvati, la tua amante ti aspetta.
—
Ed io mi levo
con quel tremore che dà il preannuncio di una gran gioja, e scendo dalla mia
campanilare dimora, donde si scòprono tanti tetti — tranquilli coperchi a
scàtole piene di guài — scendo insieme dai cùlmini del mio dolore.
Nelle rughe
della vecchia città, la luna mal si diffonde, quasi sdegnando mischiarsi al
giallore delle terrestri lanterne. Le strade sono affollate. La gran belva del
pùbblico ha appena compiuto il suo pasto e in sé ritratti gli artigli della
rapina. Ora, la foja le batte il fianco: la jena ha messo grugno porcino.
E al suo
contatto mi si solleva quel senso di disgusto e di nàusea che salì alla strozza
e alle narici di Gùlliver, quando, rèduce dal cavallino paese degli Honyhnhnns,
ricimentàvasi, la prima volta, agli effluvi dell'umanità. Impaziente di
sottrarmi al lezzo de' mièi cosidetti fratelli, allungo il passo. Mi caccio in
vie ed in viòttoli fuori di mano. Della bìpede folla più non incontro che rari
campioni — ùltimi chicchi di una gràndine devastatrice, ùltime fucilate di una sanguinosa
battaglia, ùltime piante di una semovente appiccatoja foresta. Per strade
affondate tra cieche mura di monastero, per porticati che sono voràgini di
oscurità, il mio passo risuona alto nella solitùdine.
Ma la città che
sà d'uomo si arresta. Le spalle mi si sgràvan come di un peso: respiro. Dinanzi
a mè, nella lata campagna, cinta ancor dalle mura, giàciono le ossa di un'altra
città, la premorta; un naufragio di templi e di case da cui sornuòtano tronchi
di colonne e punte d'obelisco. Era già il luogo pianura: le ruine lo mutàrono
in colle, e nella pioggia argentea della luna che copre tutto, sèmbrano i
montìcoli assùmere fantasticamente le forme degli edifici scomparsi. Il mio
passo s'è fatto — quasi dirèi — ìlare: bevo luna e me ne inebrio come di
Sciampagna. Musicali pensieri fioriscono spontaneamente sulle mie labbra:
poesìa, onde vergogno tramezzo la gente, mi esulta, solitario orgoglio, nel
cuore. Tutte le femminine giovanili parvenze degli obliati mièi libri mi
vèngono incontro, mi sèguono, mi circòndano. Cammino, porgendo il braccio alla
pòvera Elvira sul cui volto la forma perdèvasi nell'espressione, Elvira che
amava, non faceva all'amore, e tenendo a mano la piccioletta Gìa, creatura da
scatolino e bambagia, dai lucentìssimi occhi che lo sguardo lasciàvano dove
posàvansi. Veggo Ines, color d'amore e pietà, correggesca madonna fuggita alla
gloria di un quadro; e Aurora, la maestrina d'inglese, cui gli occhi furbetti
ed un germe di malizioso ghignuzzo, sul destro canto del labbro, dàvano il moscadello:
veggo Clara, la sempre estàtica suora che par barlume di perla e par nebbia, e
Camilla, faccia di rosa-bengala, soda e fresca come la dea
Salute, alla cui gaja voce mettèvansi a chiucchiurlare tutti gli uccelli di
gabbia del vicinato. Sorge Isolina, fràgile e svelta come un càlice di Murano,
dalle bianche manine coperte di zaffiri e smeraldi; appàjono, amichevolmente
allacciate in un ùnico amplesso, le tre educande, Eugenia in istile barocco,
bianco-rossa, «come pomi a odorar, soave e buona», Isa
smilza, elegante, dai guanti eterni, Elda superba, dal pallor di magnolia e dai
grigi occhi mordenti.
E Forestina
biondìssima, che era tutto un sorriso, a sé mi chiama collo sguardo lìmpido e
aerino e colla mòrbida voce, e l'adolescente ostina solleva verso di mè — non
più insodisfatta — il suo volto dai colori contadineschi ma dal profilo di
dama, e la sua bocca da baci, e il mento dal sigillo d'amore. Tutte tutte, in
una parola, mi risùscitano intorno e mi accompàgnano le fanciulle gentili, di
cui fui babbo nei libri, non potèndolo èssere nella vita.
E cammino —
cammino viepiù spedito — talvolta con la sensazione di leggerezza di chi vola,
sognando. Anche le rovine si arrèstano. I sècoli le hanno pur esse distrutte e
ne tornàrono i materiali al greggio stato di natura. Fin dove l'occhio arriva,
è una grandiosa pianura lievemente ondulata, senza un tetto, senza un arbusto —
una nevicata lunare. La si direbbe la superficie di un bacino di aque
increspata da un venticello e impietrita; un mare di luna e silenzio nel quale
mi sembra di navigare — ùnica vela perduta.
Ma ecco un
grosso arrotondato macigno, memoria forse di un ghiacciajo ritràttosi; ecco il
luogo (m'imàgino) dove la misteriosa mia amante mi ha dato la posta e verrà.
Colà mi fermo e la attendo.
Ella non può
tardare. La luna, che io miro intensissimamente, è già veduta da lei, e già i
nostri occhi s'incòntrano e spècchiansi nel terso suo scudo. Immòbile come per
opra d'incanto, celando l'immenso mio gaudio, io la sento avvicinàrmisi lieve
lieve alle spalle e quasi toccarmi; io ne avverto il caldo e fragrante respiro,
mentre una palma leggera par che mi sfiori i capelli. Osassi solo di vòlgermi,
la vedrèi in pien volto e le cadrèi nelle braccia.
Chi sei tu,
invisìbile èssere, che sempre a mè scendi per la scala d'argento della luna,
recàndomi i doni celesti dell'amore? Sei forse l'eco di una armonìa che cessò
sulla terra o il motivo, come credo piuttosto, di una non ancor cominciata? E
allora, o idèa gentile, che aleggi nell'aria che io aspiro o nuoti nell'ètere
nel quale è tuffato l'opaco nostro pianeta, perché tardi a posarti in questo
punto che si chiama vita, e non scegli o non subisci, anche tu, una forma
abbracciàbile, intanto che ho braccia per strìngerti? Ma io conosco chi sei. Io
ti vedo attraverso i tempi e già brilli nel mio equatoriale come stella
distante da mè anni e sècoli, e, insieme, vicina pochi minuti secondi. Sei la
cara fanciulla che troverà questo mìnimo libro, e, leggèndolo, sospirerà
dell'amore ond'io gemo scrivèndolo. Io non sarò allora che quanto tu fosti —
polve ed ombra — tuttavìa, non lamentarti... non lamentiàmoci. La vita umana ha
radici nel profondo passato e rami e fronde nel più remoto avvenire; l'ànima
non è in noi solamente ma intorno a noi, e amore non sà confini. Finché io a tè
penso e tu a mè, non potremo mai dire che amore ci manchi. In questo stesso
momento — ùnico per tutti e due — in cui io scrivo e tu leggi, il mio passato
diventa il tuo avvenire, le ànime nostre s'incòntrano, si riconòscono, si
fòndono in un bacio schioccante, che non ha fine.
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