Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Carlo Dossi Amori IntraText CT - Lettura del testo |
|
|
5 - IN TERRA
1. Ester e Lisa
Mi ritrovài dunque in terra. Non era la prima volta, né doveva èsser l'ùltima, che io fossi riafferrato dalla realtà, ma le mie catture tra le mani di questa fùrono sempre brevi. Toccavo terra ma a modo di augello, che ne' suòi voli posa a tratti su'n ramo d'àlbero, su'no scoglio, su'n fumajolo, per riapprovvigionarsi — mìnimo Antèo pennuto — di forze e slanciarsi dalla cocca terrestre a mete più eccelse. Se lo specchio de' mièi amori ideali restò talora annebbiato dal fumo dell'umana palude, l'appannamento ben presto si dissolveva, lasciando lo specchio più lucente di prima. Un cuore fin quì vedesti, o amica geniale, che, anelàndone e invano cercàndone un altro, foggia quest'ùltimo con parte di sé: ora il cuore stà in presenza di un suo possìbil compagno, e benché l'amore ch'ei ne risente sia ancor fatto più di suòi pàlpiti che d'altrùi, prende almeno, da questi, calore. Siamo al capìtolo dov'io vorrèi ricordare, con fervore di gratitùdine, tutti gli sguardi che rispòsero ai mièi, tutte le strette parlanti di mano e le dolci parole e i sorrisi — udìbili e visìbili baci — e gli innocenti rossori per colpe non commettende e i sùbiti imbarazzi e persino le iruzze e i dispettucci adoràbili, gèmiti d'amor represso, tutte, in una parola, le caste concessioni di cui donne e fanciulle mi beneficàrono. È sulla terra che noi quì camminiamo, ma è terra vestita di muschio e sparsa di gigli. Né dal mio atto di grazia io intendo quelle di esclùdere — e sono le più — che pur non sentendo amore per mè, me ne ispiràrono vivo per esse. Innamorarla, è già fare ad un'ànima dono divino. Come la voluttà di oprare il bene, quella di volerne, è, per sé sola, tale, che, anche priva di contraccambio, basta. Esìger di più, è usura. Certamente, l'uomo il cui midollo sentimentale è difeso da una pelle ippopotamina, l'uomo pel quale nessuna donna satis nuda jacet, capirà nulla affatto di questi ch'egli potrebbe chiamare prime aste od arpeggi scolàstici, e, sàturo di grassa concupiscenza o di soddisfatta sensualità, si burlerà delle gioje, che io vanto, del desiderio puro e del tàcito innamoramento. Ma a mè poco importa. Io non scrivo per lui. I mièi lettori ed io con essi, possessori di fibre men spesse, sappiamo per prova che i mìnimi presentimenti d'amore bàstano a suscitare in noi emozioni che appena si accennerèbbero, nei contatti più ìntimi della carne, in que' grossolani cuòi, cosicché la donna che a noi è cortese di un sorriso o di una occhiata di simpatìa, di un sospiro desideroso o pietoso, dà assài più che non dia, concedèndosi tutta, a que' nostri non-sìmili. Oh quanto mai vi rammento e ancora mi confortate, gentili mie, di cui non sfiorài che la veste, se pure! Nessuna di voi mi ha lasciato e lascerà mai, a cominciare da quella frotta folleggiante di ragazzette, che, su'n gran prato, tenèndosi a mano, mi sorprendèvano, mi accerchiàvano, mè più bimbo di esse, girotondando schiamazzanti, mentr'io, in mezzo di loro, cercavo afferrar questa o quella, senza — come poi sempre mi accadde — riuscirvi, perché mi piacèvano tutte e le avrèi tutte volute. E, una appresso all'altra, mi riappàjono tre fanciulle dai dòdici ai quìndici anni, lietezza della mia adolescenza. La prima, fulva come uno scojàttolo e che sapèa lieve di ginepro, avèa per mè le tenerezze selvàtiche di una scimmietta: la mi guardava fiso in pien volto con occhi di maliziosa affettuosità, mi saltava talvolta pazzerellamente alle spalle battèndomele forte, mi si pendeva con improvvisi abbandoni al braccio o mi stringeva e pizzicottava con mani che èrano tanagliette, sino a farmi guair dal dolore, un dolor delizioso. Era l'altra una giovinetta fràgile e trasparente, devota a pròssima morte. Quante tòmbole ho mai giocato con essa! Ella, che, tra le prosperose compagne, parèa una càndida rosa in un cestello di rosse, amava sedersi presso presso di mè, e, quando parlàvami, avèa nella voce soavità e tremolìi e fruscìi commoventi. E mettevamo, s'intende, in comune le nostre cartelle, ma, mentre gli altri badàvano ai loro nùmeri, noi badavamo ai nostri occhi: ci guardavamo sempre e vincevamo mai. Quanto alla terza, tenèa guancie lattee e maggiostrine che ricordàvano l'imbellettatura e la bàmbola. Questa non era uscita mai di città — una città geograficamente ed intellettualmente ben bassa — cosicché l'aria montana in cui era venuta colla sua mamma a passare una quindicina di giorni presso la mia, avèvala come ubbriacata. Fùrono quìndici dì, per mè e per lei, di moto e di gàudio. In pie' alle cinque della mattina, salivamo a far colazione sui poggi circostanti, correvamo pei prati inseguendo or le farfalle, volanti fiori, or noi stessi, ci arrampicavamo sugli àlberi del frutteto, o, eretti sulla assicella della biciàncola, faccia a faccia, ci lanciavamo, al mutuo impulso de' ginocchi, nello spazio, facendo a gara a chi spingesse più alto; poi, giù, a còrrere ancora col cerchio o la corda, a giuocare alla palla, ad abbàtter birilli, a scompigliar ànatre ed oche, finché, giunta la sera, ballavamo al suono di qualche avventizio organetto, non smettendo se non con esso. Ma il giorno del distacco ci sopraccolse. Quando, in uno dei due momenti (l'altro è quello dell'arrivo, o se vuòi meglio, della nàscita) in cui l'uomo — come scrive Jean-Paul — sembra più caro del sòlito, il momento della partenza (e così della morte), le nostre mani trovàronsi per l'ùltima volta una nell'altra, un singhiozzo mi montò alla gola, e gli occhi s'imbambolàrono a lei. Addìo, fanciulla latte e fràgole! Già lontani, ella, sporgèndosi dalla carrozza che me la portava via, sventolava ancora il suo fazzoletto, bianco ospizio di làgrime; io, dal giardino che sovrastava alla tortuosa strada, tenevo alto e agitavo i fiori che, ùltimi, essa m'avèa donati e che non dovèvano mai, nell'ànima mia, essiccare. E quì mi ritorni anche tu, fanciulla bruna dai grossi coralli agli orecchi, i cui capelli èran notte e lo sguardo giorno, e con tè l'emozione di quando, sullo stesso divano, sfogliavamo qualche gran libro di stampe, aperto sui nostri ginocchi, o guardavamo, nella medèsima ampia lente, imàgini di lontani paesi, in cui ci parèa di camminare a braccetto. Fra la mia guancia e la tua, appena appena sarebbe passato un velo da sposa ed entrambe scottàvano della stessa fiamma; eppur restàvan disgiunte. Un ricciolino della tua chioma, avvicinàndosi a' mièi capelli, pur ricci, cercava quasi di allacciarsi con essi, eppure non si toccàvano, né si toccàrono mai. E voi, belle incògnite, apparse e quasi tosto sparite ne' mièi viaggi, come potrèi obliarvi? L'intera notte l'avèa trascorsa in vagone colla misteriosa signora. Era il vagone occupato da viaggiatori, uòmini tutti: non rimaneva altro posto per mè che al fianco di lei. I nostri ginocchi, i gòmiti nostri, non potèvano non incontrarsi. Ned ella sfuggiva i mièi, ma vi appoggiava, anzi, contro, i suòi lievissimamente. Uno sbigottimento soave inondava — son certo — ambedùe, e lo gustavamo in silenzio. Oh quanti rosati castelli edificài quella notte! oh qual romanzo credetti di aver cominciato! Ma il viaggio finì, e i castelli si sciòlsero, e del romanzo non restò scritto che il tìtolo. Or che vuòi? io preferìi sempre l'amore in bocciuolo a quello, non dirò pure in frutto, ma in fiore; io non seppi decìdermi mai, perché l'àngelo non mi fuggisse, a tagliargli le ali. E anche tu lo puòi dire, o gentile, il cui volto parèa uno schizzo a carbone su'n bianco muro, tu, che, divisa da mè da una via, uscivi sul terrazzino a coltivar fiori, quand'io mettèvomi con un libro al mio davanzale, rimpetto al tuo. Noi sentivamo, io ciò che tu confidavi ai fiori, tu quello che io leggevo nel libro. Quando poi, venuta la sera, la tua finestra s'illuminava, scorgevo, dietro le calate tendine di mùssolo, il grazioso profilo di una inclinata testina e di dita che agucchiàvano svelte. Ma capo e mani, talvolta, si confondèvano in una sola ombra qual di piangente, e allor mi era dolce di lagrimare teco. Un dì apparisti sul balconcino con una lèttera in mano; ne leggevi una linea, poi mi guardavi, ne leggevi un'altra e tornavi a guardarmi. Quella lèttera, non v'ha dubbio, ti annunciava amore e ti era stata inviata da un amico a tè ignoto ed anche, disgraziatamente, a mè. Oh quanto io gioivo della tua gioia e insieme dolèvami di non avèrtela procurata io! Ma ora tu avevi trovato e avresti posseduto tra poco chi ti amava; io dunque non ti abbisognavo più, cara giòvine; e da quel giorno, per tè felice, infàusto per me, cessài dal guardarti. Ma, più che ogni altra, io ho in cuore tè — come mai ti chiamavi? — buona e sana e rubiconda fanciulla, dal volto e dalle manine piene di fossarelle, dallo sguardo lìmpido e aperto... — ah sì, Èster — che eri, ad un tempo, la cameriera e la confidente di una mia zia. Il tuo eburneo allegro sorriso, quel sorriso che è il sale della bellezza, avèa in sé la luminosità di mille candele. Sovente, io passavo la sera da zia, cenando e poi giocando con essa al pacìfico dòmino. Tu intanto, silenziosamente seduta in un àngolo della sala, cucivi, e tratto tratto sospiravi. Oh avessi saputo come io attendevo con ansia — colla stessa tua ansia forse — l'istante di potèrmene andare, perocché, uscendo, tu mi accompagnavi a farmi lume giù per le scale e ad aprirmi il portone. Più scendevamo e più il passo facèvasi lento. Talora ci soffermavamo, minuti, sui pianeròttoli senza saperne il perché, in uno di que' silenzi zeppi di tante parole, mentre il lume fumoso nella distratta tua mano pingèa di accusatrici macchie la parete. A mè le fresche fragranze delle verginali tue carni affluìvano come àure primaverili da prati di màmmole. Mangiavo con gli occhi le mele appiuole della tua faccia e le rosse ciliegie della tua bocca, mature ai baci; e di baci avrèi voluto rièmpiere le tue cento fossette, i capelli, gli occhi, i rosei ginocchietti delle dita. Senonché, tutti e due si ripigliava la pigra discesa. Giunti al portone, tu non riuscivi mai, se non dopo assài prove, ad infilare la chiave nella toppa, né io sapeva ajutarti, cosicché, spesso, si rimaneva là, uno in faccia dell'altro, arrossendo, balbettando, finché qualche inquilino — soprarrivando dalla strada — non ci togliesse dal grato imbarazzo. E allora io doveva, melanconicamente, rivedere le stelle, e tu risalire le scale... con l'inquilino. Poi, morì zia. Casa sua, e tu con essa, spariste. Dove ora sei, buona Èster? Un altro mio amore naque, crebbe, finì a strette di mano. Fra i tatti, quel della mano è il rè. Màssima intèrprete o còmplice della volontà, la mano coltiva ed edìfica, scrive e plasma, carezza ed uccide. Essa è l'azione ed è la persona: essa ci fà sùbito noto con chi trattiamo, ché vi ha la mano intellettuale e la mano cretina, una tutta frèmiti, geli, accensioni, l'altra impassìbile, dura: vi ha la mano che attira e quella che respinge; vi ha la mano di pressoché tutte e la mano di... Lisa. Era, questa, lunga e bianca, liscia qual perla, trasparente come alabastro, dalle dita le cui cime polseggiàvano — dita affusolate e flessìbili sì da poterle rovesciar su sé stesse quasi fòsser senz'ossa, eppur tali, per nervosità, da non èsser piegate che a forza, se non volèvano cèdere. I microscòpici òrgani elettro-motori, da Pacini scoperti ne' polpastrelli, dovèvano èssere in sifatta mano sàturi di elettricità. La prima volta che io l'ebbi nella mia, parèa muta, marmorea, cadavèrica: il suo tocco, una forma convenzionale di saluto, non l'accòrrere di una sensibilità verso l'altra. Ma, a poco a poco, le nostre mani si intèsero: quella di Lisa cominciò a prèmer più forte quand'io mi congedavo da lei di quando me le presentavo. Oh come bianca quella manina! oh come negri gli occhi di chi me la offriva! Una sera, toccàndola, scattò da essa un trèmito che mi arrivò sino al cuore. D'allora in poi, Lisa più non mi porse la palma sua con l'abbandono, più non serrò la mia con la sicurezza di prima: nell'istante del commiato un indefinìbil ritegno, una parèntesi di riflessione, si metteva fra noi, incerti a chi primo dovesse stènder la mano. Dove l'amore è molto, poca è la disinvoltura. Senonché, quando il casto connubio era osato, non più sapevamo, quasi a compenso della anteceduta tardanza, dissòlverlo. E allora, guardàndoci, tacevamo. Non è forse il silenzio, in amore, la più deliziosa delle sue dichiarazioni? Ma, pur troppo, altri parlò in vece mia. Costùi potèa coprire di gemme quanto io avrèi solo potuto di baci, e fu dai parenti, se non da Lisa, ascoltato. Or la manina di lei, quell'augelletta che, a volte, io dubitavo, per non sciuparla, di strìngere, giace sepolta nel cavo di una manaccia rozza, callosa, insensìbile — teca di piombo e di quercia ad un inno, in cinque strofe, d'amore. Oh strette di mano, celate elemòsine di affetto, oh sguardi densi di preghiere e promesse, oh titubanze e rossori, impallidimenti e sospiri, oh cento e mille sottintesi e presensi, quanto mai vi ricordo, e come, tuttora, mi consolate! Né tra voi manca il bacio — ùnico bacio che nel dar mi fu dato. Era allora il settembre dell'anno e il maggio della mia vita. Io mi trovavo sulla sponda di un lago straniero, in un vasto albergo. L'albergo era stipato di gente che io non conoscevo neppur di linguaggio, e però in esso, vivente deserto per mè, godevo tutti i vantaggi, tutto il piacere della solitùdine. E un dì, sul tramonto, rincasavo da una delle mie camminate a caccia di fiori e di idèe. La campanella avèa già sussultato di bronzea tosse chiamando a tàvola, dal giardino, dai pòrtici, dalle càmere, i forastieri sbadigliosi e nojati. Solo, dietro la grande vetriata del salone che si apriva sul pòrtico esterno, una fanciulla indugiava. Un rosso scialletto le copriva le spalle cingèndole i fianchi, e il pellùcido volto di lei, improntato a sofferenza gentile e serbante le traccia di una pioggia di làgrime, appoggiàvasi estaticamente all'ampio cristallo, contro il quale la punta del suo nasino e le labbra mostràvansi, a mè di quà della lastra, espanse e come schiacciate. E sulle labbra parèa sospeso un sospiro in attesa di un bacio. Come negàrglielo? Con un sùbito moto posài la mia bocca sovra il cristallo contro la sua e baciài. Le ànime nostre toccàronsi. Fu un istante ineffàbile. La fanciulla si distaccò, si strappò quasi dalla vetriata e fuggì. Ma splendeva. Ed io? Io, all'alba seguente, partivo — sbigottito e felice di aver tanto osato o sì poco.
|
Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License |