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TESORETTA
Chi più giojello da scatolino?
chi più inviziata di Tesoretta?
Era venuta al mondo, proprio in
una veglia, sopra un vassojo di chicche. Allorché il musino di lei, vero
sorbetto di fràgole e crema, apparve, ognuno sorrise, ognuno si offerse a
dondolarle la culla.
E sua mammina — che gioja!
Tuttociò che un amore, con zeppo di ventilire il turcasso, può comperare, fu.
Tesoretta ebbe camìcie della più fina battista, ebbe scialli di trine,
calzettuccie di seta, e come Tesoretta, al dire del mèdico, era un arboscello
da serra, la s'inviluppò in tanto armellino, in tanta màrtora, da farle rèndere
aria di un nettapenne.
Poi — oh aveste veduto il
suo nido! — Prepuntato di stoffa, con un tappeto che acconsentiva come la
polpa di una gamboccia, con un odore di muschio da disgradarne la carta da
lèttere di una elegante damina, esso inscatolava e una pìccola nanna di raso
celeste e oro, imbottita con piume di cigno, e sedie che si ribaltàvan
soffiando, e poltrone che avrèbber potuto requiare lo stesso mio cugino
Guidella; di più, sugli stipi, sulle cantoniere, una folla di nìnnoli, curiosi,
gentili — grottesche figurine di avorio, organetti che gariglionàvano,
noci con entro mille ferruzzi per le pipite, e tiri a quattro d'argento e
bastimentucci di filigrana e galantuòmini giapponesi dalla testa pelata —
che salutàvano continuamente.
E in mezzo a tutti questi
balocchi, il graziosìssimo di Tesoretta. Che vita lieta, la sua! Aperti i
nerìssimi occhioni nell'ora in cui i martirelli dell'abicì càvano dai loro
panieri e mela appiola e panetto, essa in bianco accappatojo a nodi azzurri,
sedèa alla pettiniera. E là, mamma ravviàvale i ricci, un giorno con
un'acconciatura a ciuffi da scàtole di canditi, un altro con una di fìlibus;
dopo di che, spazzata una colazioncina di dolci, dei quali la si sceglieva i
meglio incartati, usciva a spasso in un carrozzino di vìmini, foderato di
rancio amoerre, guidando con rèdini di seta rossa un candidìssimo agnello.
Allorché poi il povero Monsù Travet si toglie con un sospiro di
soddisfacimento le manichette di tela, il portinajo le rischiudeva il cancello
e sberettàvasi; infine, attraversato gloriosa e trionfante un pranzo, una
conversazione, e qualche volta un ballo, essa si rifaceva la nicchia nel suo
caldo lettino.
Venuta-su
dunque così inaffiata di quintessenza di viola e fra tanta bambagia, è chiaro
che la nostra piccina riuscisse delicata come un clichet fotogràfico.
Sua mamma, anche oggi, se dà nel frontispizio della Crònaca Grigia,
briscia, risovvenèndole quel calabrone che un dì, con grande spavento di tutti,
pungèa un labbruzzo alla sua mòrbida bimba, ed io, quand'ora stringo la grossa
mano dell'alto baffuto Leopoldo, cugino di Tesoretta, rammento con pena quel
biondo petulantello Poldino, che entrato di furia, dov'ella si stava con altri
bottoni di rosa… ahi! le scoccò un buffetto sul naso.
Questo, del rimanente, fu il solo
torto che le toccasse mai da bestiucce in calzoncini o gonnella: e pongo la
distinzione, ché da quelli invece che non fanno uso di tali attributi, così
necessari a' dì nostri per conòscere il sesso, ella ne sofferse parecchi —
principalmente da uno.
Chi? —
Den.
Den apparteneva alla mamma di
Tesoretta; un levrierino grigio, svelto, dal lungo muso; di quelli che
bùbbolano anche di mezza state e sémbrano avere indosso una perpetua pulce.
Den, co' suòi improvvisi abbajamenti a degl'invisìbili mici, con le sue corse a
fiaccacollo per poi subitamente restare, in sospetto, le orecchie tese, uno
zampino levato, divertiva a crepar dalle risa il pacìfico e vecchio Tell —
un bracco.
Bene, Den covava ruggine per
Tesoretta. Quando, la prima volta, un rottame di zùcchero passò dalle dita
della sua padrona nelle tascucce della puttina, maravigliato, offeso, adocchiò:
alla seconda, alla terza, guaì sordamente. Privarlo dello zùcchero suo!
Dio-cane! Che altro, fuorch'esso, gli rimaneva, ora, che un
ukase municipalesco, appiccàndogli una musoliera, una cinghia alla strozza, e
per giunta, una corda, toglièvagli di fiutare… le belle? Den fece un groppo al
codino — quindi d'allora in poi si trovàrono per la casa gheroni strappati
dalle sottane di Tesoretta, si raccolse un cappellino di lei nel mondezzajo, si
scoprì, rifacendo la nanna della bambina un… Scusa! non ti vedevo, Bigia.
E lì, quale tirata di orecchi!
Den fu rinchiuso nello stanzino cui egli avrebbe dovuto prima ricòrrere, e il
guàttero passàndovi presso due ore dopo con una gazzetta in mano, stette in
forse — atterrito da un rabbioso lamento — di aprirlo.
Intanto, nella sala a terreno
della sua mamma, si rannicchiava sul fondo di un poltronone la bimba. Le manine
di lei stàvano appiattate in un manicotto di topo-bianco;
sul manicotto posava un libro. Pur non guardava. L'ànima sua parpaglionava
lontan lontano, forse intorno a un cartoccio di chicche, forse ai mille baràttoli
e alle boccette di una bacheca di profumiere.
Ma, in quella — un grattìo
alla porta. E la porta si schiude. Guìzzane, impetuoso, Den.
Egli si arresta, le narici
soffianti, la guardatura bieca. Fisa Tesoretta e guàjola.
Bah! ella non si move neppure. La
fantasìa di lei o vola entro una mostra di cappellini, vera gabbiata di
papagalli, o salterella dentro e fuor per le chicchere di un servizio
lilliputiano da tè.
E ciò fa montare la sènapa al naso
di Den. Ei balza sopra una sedia faccìa a faccia con Tesoretta; sciupa
l'imbottito coll'unghie, dirùggina i denti.
Invano! la mimma non impallidisce
neppure: ben in contrario, sorride; sorride con quella stessa grazia, con
quella stessa tranquillità, con cui riceve le amiche.
Ma, cielo! gli occhi del
levrierino stralùnano insanguinati. Egli soffia, egli ringhia. Di colpo si
slancia su Tesoretta… Ahi! le morde la gota. E Tesoretta cade dal seggiolone
giù.
E Den si getta nella finestra;
precìpita, con un fracasso di vetri, in giardino.
— All'arrabbiato!
all'arrabbiato! — grida una villanella fuggendo.
Buum — una schioppettata.
O poveretto Den! Ingelosir di una
bàmbola!? —
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