31 - LA
MAESTRINA D'INGLESE
È una pìccola stanza. Serve, con
vece alterna, e da sala da pranzo e da vìsite, e, si potrebbe anche dire, da
càmera a letto, ché i due sofà mi han punto l'aria di restar sempre sofà.
Tègoli troppi si vèggono fuori, per crèderci bassi di piani; troppa poca
mobilia dentro, per crèderci alti di fondi.
Squillo di campanello. Il
campanello sussulta nella stanzetta; che la sia pure anticàmera?
E al suono, una ragazza gentile
si presenta a una porta, e leggera leggera corre a dischiùderne un'altra. Ed
ecco un bel giòvane biondo, alto, entrare, e tosto pigliarle con trasporto le
palme.
— E il pappà? — chied'egli
di sottovoce.
Aurora muove la graziosa testina
tristissimamente.
— Ma il dottore, che dice?
— Dice: vi è un sol rimedio…
morire. —
Aurora ha nel parlare la più
adoràbile erre del mondo. Ma, oè, signore lettrici, non vi sforzate a
erreggiare; un rossetto e un bianchetto, come Natura dà, nel profumiere non
troverete mai.
I due bei giòvani stanno zitti,
mani con mani, sguardo con sguardo.
— Aurora! — geme una voce
dalla stanza vicina.
La fanciulla si scuote, scioglie
le sue dalle mani di Enrico, che con passione le preme, e accorre a chi chiama.
Enrico ode la voce dell'ammalato,
diventando agra e stizzosa, dire alla figlia che lo si abbandona, che lo si
lascia morire, anzi! che lo si desìdera morto… E Aurora, giù a piàngere.
—
Oh l'egoista! — fà il giovanotto fra i denti, e sospira.
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