Enrico
San-Giorgio era dal suo quinquennale viaggio rimpatriato.
Scàpolo e milionario, fu accolto a braccia aperte dalle mammine, e le figliole
èbber licenza di compromèttersi; qualcuna anzi, ingiunzione. E ben si poteva
ubbidire; giòvane e bello era Enrico.
Ma!… egli era anche di spìrito,
non qualità da marito, sì che, guardàndosi attorno, vìdesi tosto, in mezzo ad
amici che gli dicèvano «se' navigato abbastanza»; a babbi che gli narràvano le
domèstiche gioje, apprese a colla-di-bocca in su i libri; a
mamme — grandi e non grandi — che gli toglièvano il fiato a furia di
sesquipedali accoglienze con tanto di fòdera, ora invitàndolo a pranzo, per
mètterlo accosto a collegialine pupazze sciocchissimamente belle, ora facèndolo
a forza ballare con vèrgini stagionate, pudiche fino allo scàndalo; insomma,
vìdesi in mezzo a una tal rete vasta d'intrighi, a tanta roba posticcia, che,
stomacato e anche un po' impaurito, risolse fuggire laddove ancor si dormiva
beatamente «il greve sonno della barbarie.»
Fermo nel quale partito, Enrico,
un dì, soprapensieri passeggiava una via, riandando i paesi già visti e quelli
a vedere. Ecché non andrebbe al Giappone? là, in quella terra da vasi, in cui
il mondo è a rovescio, e i nostri non-sensi hanno senso, e
le nostre eccezioni son règole? Ei vi potrebbe comprare un bel servizio da tè,
poi, tanta curiosa frugaglia — e palle d'avorio
cinque-entro-una, e un vestiario di carta, e strani disegni
(sogni fotografati) e scarpe di porcellana, piccine… e perché no? forse coi
loro pieducci vivi al didentro, con quel che segue al difuori… — Dunque,
al Giappone!… si piglia prima per Suez; si fà il mar Rosso… tocco Ceilan, mi vi
provvedo del buon zafferano, torno a imbarcarmi per Singapore e
Sciang-hai vo a Nagasaki, poi a Yokoama, poi, se si può,
infilo lo stretto di Kanagava… — Ed egli scorgèa di già i
draghi-volanti nella imperiale Jeddo, quando «Oè! la vita,
signori! eh!» venne arrestato dalla carriola d'un perecottajo… Maledetta
carriola!
Per cui, si trasse di banda
contro di una bottega. Era questa di fiori; ci si vedèvano vasi di novellini
gerani e garòfani, desìo della pòvera agucchiatrice; vasi di erba amarella,
dittamo e ruta, amori della pulcellona; mazzi con il Vidoppio, musco; corone di
bianche rose, da far parere più in fiamme la guancia di una vèrgine sposa o
pàllida doppiamente quella di una vèrgine morta; ma, il tutto, qual sfondo ad
un più splèndido fiore, dico ad una fanciulla, vero occhio di sole, ferma anche
lei per la carriola di pere… Oh benedetta carriola!
E la fanciulla avèa uno di que'
tai visi, passavìa della tristezza, che fanno belli gli specchi, a colori e a
contorno finissimo, dal naso gentilmente aquilino, e cui, gli occhi furbetti e
un germe di malizioso ghignuzzo sul destro canto fra i labbri, dàvano il
moscadello. Le manine poi, lunghe, sottili, a mezziguanti di filo; una, sul
seno come a fermaglio, tenèa raccolto uno scialletto scozzese; l'altra,
stringendo un mazzoluccio di viole, scendeva lungo la gonna a
mille-righe di bianco e di nero. E, dall'imo di questa,
usciva la mascherina di una scarpetta, piccola sì da mèttere il dubbio se
avrebbe potuto annidare una tòrtora.
Enrico si sentì il cuore
sommosso; capì i suòi viaggi finiti; gli cadde di bocca lo scorcio di sigaro,
e:
— Oh il bel mazzetto! —
fece.
Allor la fanciulla girò la testa
alla voce, infiorando un sorriso; ma, come diede nel giòvane, arrossì tutta e
volse lo sguardo al mazzetto, quasi a passargli quel complimento, che, sotto il
nome di lui, èrasele volto. Eppòi, lesta lesta, partì. Ed egli, dietro.
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