Pochi dì dopo «derlin-din-din!»
sclamò il campanello di casa Morelli; e la servetta, che corse ad aprire,
vedendo un giòvane biondo, svelto, bellìssimo, crede' che entrasse l'Arcàngiolo
Raffaele vestito alla moda.
Ned ella gli dimandò che volèa,
ned egli l'espresse, ché tutti e due èrano già nella sala, alla presenza del
padrone di casa.
Al quale, il nuovo arrivato,
fatto un inchino, chiese:
— Ho io l'onore di salutare il
signor Pietro Morelli?
— Sì, per servirla — rispose
l'infermo, alquanto maravigliato; e, dopo una diffidentissima pàusa — Si
accòmodi. —
La servettina portò al forestiere
una scranna.
Quello, siedette.
— Mi chiamo Enrico… Giorgini —
poi cominciò; e disse, ch'egli era un negoziante di panni, il quale, secco
della tarda avviatura de' suòi affari in patria, voleva recarsi in Amèrica…
giustamente a New-York… —
Il signor Pietro con un gesto
assentì, quasi a dire: — Ma bravo!
— Tuttavia — segui il
giovanotto — c'è un male… non conosco la lingua…
— Già; è un male — convenne
l'infermo.
— Ora, avèa egli, il Giorgini,
in una casa d'amici, udito a parlare di una signora Morelli, maestra d'inglese
della contessa Orologi… di cui la contessa era enchantée… —
Quì il signor Pietro rifiutò con
la mano la lode, quasi fosse per lui, bah!
— Dunque — conchiuse il Giorgini —
prego la signora sua figlia ad accettarmi a scolare; scolare un po' vecchio, ma
pieno di buonavoglia, e pregola inoltre di pormi un due ore ogni dì, perché io
passi da lei. —
Il signor Pietro, mentre Enrico
diceva, ne masticava una a una le sìllabe; com'ebbe finito, trasse, a prèndersi
tempo, il moccichino di tasca, spiegollo, gli cercò ai capi la cifra, e se lo
applicò. E, nel soffiàrselo lentissimamente, vide ch'egli poteva a una volta
imberciare in tutti e due i bersagli, cioè nel po' più di minestra e nel
non men di figliola.
Nondimeno, rispose:
— Aurora, non deve star molto a
tornare; ha ella pazienza di attènderla?
— Oh si figuri — fe' Enrico,
che meglio non isperava. E attese. E, intanto, discorse di moltìssimo altro col
vecchio, il quale, uno trovando che dàvagli in tutto ragione, rimase giulebbe.
— È quà — disse a un tratto
l'infermo, additando la porta — La fà l'ùltima scala… —
Enrico sentissi rimescolare; si
alzò.
— Stia còmodo! — suggerì il
signor Pietro.
Ed ecco, tenendo l'uscio
dischiuso la servettina, entrare, con un visetto che ancor più brillava del
sòlito, Aurora. La quale, sul primo, scorgendo una persona inusata, sostenne la
vispa andatura; poi, raffigurato chi era, ne sobbalzò.
— Il signor Giorgini — disse
allora il pappà — vuole imparare l'inglese. Ei chiede se puòi disporre di
qualche ora per giorno, e di quali. Verrebbe quì — ed appoggiò la voce sul
quì.
— Per mè, sono lìbere
tutte — avvertì il giovanotto.
— Potrèi dire anch'io lo
stesso — fè, sorridendo e con quel suo monello aggricciare di labbra la
tosa; (e dopo una irresoluzione: ) — Alle due? le và? —
Enrico, che la bevèa con gli
occhi, e a stenti non con la bocca, fu per rispòndere che tutte le ore passate
con lei, dovèano èssere belle — al par di lei, belle — ma si
trattenne. Invece, parlò come scolare a maestro; le dimandò se l'inglese fosse
una diffìcile lingua, chièsele conto delle più buone grammàtiche, dei libri di
prima lettura insomma, cercò di tirare in lungo il collòquio, nè, al certo, lei
d'accorciarlo. Oh! senza il babbo per terzo, chissà fin quando avrebbe
continuato! Così, dovette finire. Enrico strinse la mano al pappà, poi alla
splendente fanciulla. E, da quest'ùltima stretta, il tremore, che naque ai
polsi dei due e si propagò per le vene, disse lor cose che avèano poco a che
fare con l'Ollendorff e il Millhouse. Molto migliori però.
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