È di mattina; le sei. Il dottore
ha detto ad Enrico, che l'ammalato può andàrsene di minuto in minuto, e il
giovanotto lo disse alla tosa. Sono dieci ore che il signor Pietro tiene chiusa
la bocca e le palpèbre giù, rannicchiato contro del muro e ansante: solo, alle
prime parole di una domanda d'Aurora che avèa sentore di chiesa e di preti,
egli, impaziente, fremette.
E la fanciulla gli è accosto e
gli ha una mano sul fronte, intantoché, nella medèsima stanza, Enrico, dietro
di un paravento, aspetta una parola di pace.
Verso le sette, il moribondo si
volge a fatica, guarda la figlia, e con la voce, come l'occhio, appannata:
— Aurora — fà.
— Oh babbo! — e la ragazza
lo bacia.
— Par che la vita mi lasci —
egli geme. — E io… io fui molto cattivo… più che cattivo, con la tua mamma
e tè… ma…
— Oh babbo! — singhiozza la
tosa.
— Ma — egli riprende con
pena — io vo' che tu sia felice… Tu devi giurarmi… Eh? giuri?
— Sì…
— Di non sposare il Giorgi…
il San-Giorgio, perché… —
Enrico diede un sussulto di cui
vacillò il paravento, e si fuggì nella stanza vicina. Là si gettò su'na sedia,
pianse. Oh quando stillossi, mio Dio, una quintessenza più acuta di malvagità?
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