APPENDICE
Aspettavamo da un'ora, io e la
zuppa: questa si raffreddava, io mi scaldavo. Finalmente si udì un passo
affrettato. Giannetta entrò vispa e gaja e... in una nuova toilette —
la terza in un mese.
Aggrondài le ciglia.
— Non mi sgridare — ella disse
con una voce da tortora e facendo scherzosamente colla manina l'atto di turarmi
la bocca. — È percallo. Cinquanta lire.
Prevedevo assai più e perciò mi
acquietài. Dirò anzi: l'essermela cavata a così modesto mercato mi fe' quasi
contento.
Sedemmo a tavola. Giannetta era
carina quanto mai e chiacchierava chiacchierava colla più amabile incoerenza.
Al secondo bicchiere di vino, mi saltò la stupida idea di lodare il nuovo
abito.
— Non è vero che ho scelto
bene? — insinuò essa con premurosa dolcezza. — Per ottanta lire,
credi, non si poteva avere di più.
— Ma e non dicesti
cinquanta? — domandai con sorpresa.
— Hai capito male, amor
mio — rispose ingenuamente Giannetta. — Pare a tè, a tè che tanto
t'intendi ed hai gusto sì fino, che valga meno? —
Certo, non pareva. Feci un moto
d'impazienza ma non dissi parola. Avendo, del resto, già consentito nella prima
spesa, potevo anche imaginarmi benissimo di non aver più da pagare che trenta
lire.
Così, il pranzetto, giocondo di
vino e di sguardi, continuò. Tra una spiritosaggine vecchia e un'asinaggine
nuova, Giannetta uscì a dire di aver giurato alla sarta che le avrebbe, il dì
appresso, fatto tenere il denaro dell'abito, soggiungendo con un
sorriso: — capirai che, trattandosi di una sciocchezza di cento lire…
— Cento? —
interruppi. — Eppure, la cifra, se non ho male inteso…
— Oh, stavolta hai inteso
malissimo — sclamò essa con vivacità. — Fa un po' il conto tu, tu che
hai studiato di matematica. Ottanta la stoffa, sessanta la fattura, venti le
spese… —
In principio di tàvola, avrei
rovesciato… la tàvola. Ma eravamo già a mezzo, e Giannetta, attraverso il mio
vino, cominciava a diventarmi bellissima.
Per dirla in breve, ad ogni muta
di piatti, il prezzo della veste di lei, come in una pùblica asta, aumentava.
Fortunatamente, i miei pranzi non sono lunghi. Quando si arrivò alle frutta,
Giannetta aveva già avvicinata la sua alla mia sedia, e, circuèndomi il collo
col braccio: — vedrai, caro — mi susurrava in voce di dichiarazione
amorosa (e colle ditina giojellate e affusolate infilàvami intanto nella tasca
esterna dell'abito un conticino piegato in quattro) — vedrai che pomposa
figura farà sul corso la tua amatuccia colla sua veste da… trecento lire.
Sembra percallo, vero? ma è tutta seta. Ne sei persuaso?
E Giannetta si partì, com'era
venuta, gaja e vispa. Spiegài malinconicamente il conto. Il conto diceva
trecento cinquanta. Altro non mi restava che di pagarlo. E lo pagài di gran
fretta per evitare il pericolo che mi crescesse anche in saccoccia.
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