PREFAZIONE
Questo libro stava per entrare
nel consorzio umano, da solo, senza corriere che lo precedesse ad
apparecchiargli l'alloggio, come vi entràvano i libri in quel tempo in cui
c'era minor etichetta e maggior cortesia. Il mio Gigi però, che si tiene al
corrente del figurino letterario, mi tirò per la mànica, osservàndomi che non
vi ha oggi appartamento completo senza anticàmera, e che se in questa il
rispettàbile e colto non è fatto aspettare almeno una mezzoretta, si arrischia,
noi padroni di casa, di passare — perché troppo gentili — per
maleducati.
— Ed è appunto nell'anticàmera
del libro — continuò Gigi — che qualche amico di casa (per es. lo
stesso padrone) ha modo di catechizzare chi attende e d'imboccargli la
conveniente ammirazione, col decantare cioè le doti dell'autore, i pregi del
libro, le difficoltà superate, ecc. ecc. Vero è bene, che nelle lor prefazioni,
i romanzieri de' nostri nonni seguìvano tutt'altro stile.
Quella buona pasta di gente
pareva temesse di èsser creduta capace d'inventare le più innocenti fandonie, e
si vergognasse di scrìvere — dato il caso — de' capolavori. Quando
perciò non mettèvano innanzi o un'ampia protesta d'ignoranza od una sùpplica di
compatimento, cercàvano di affibbiare le lor fantasìe a qualche babbo
d'impresto. Raddoppiando così, per l'affermazione della verità, la bugia, chi
veniva a contarci dell'incontro fatto con un vecchio barcajolo, il quale, fra
un tuffo di remo e l'altro, gli avèa confidato i suòi bruciori amorosi di
quarant'anni addietro o narrata la storia di un sàlice che in riva al lago,
piangeva su una romàntica urna, storia e bruciori che l'autore avrà nulla più
che trascritti «a sfogo di quegli occhi gentili che àmano il pianto»; chi
c'informava della scoperta di un anònimo scartafaccio bucherellato dalle tarme
e scompisciato dai topi, dal quale, a conforto dei buoni, a spavento de'
tristi, avèa cavata la sua narrazione, non aggiungèndovi altro del suo —
osservava modestamente — che i punti e le virgole. Senonché, oggi, la
moneta dell'umiltà, commerciàbile ai tempi in cui Manzoni si affannava ad
inargentare il suo oro, fu rilegata nei medaglieri; oggi, tempi di metallo Christophle
e diamante francese, non corre che la sfacciatàggine. Se dunque tu hai, a
cagione d'esempio, composta una nuova pòlvere contro il prurito o fabricato,
poniamo, un cavastivali più complicato di quanti mai sono, guàrdati
dall'esitare sì l'una che l'altro per quello che vàlgono; strombazza invece che
la tua invenzione ha rimesso la chimica sulle vere sue basi, che la meccànica
ha fatto per tè un gigantesco progresso. Se hai stiticamente tortito qualche
verso duro o bislacco, giulèbbacelo per la melodiosa eco, da tè ritrovata,
della poesia greca o latina, annunciàndoci insieme che, mercè tua, la
letteratura è entrata nella sua, non so se quarta o quinta o sèttima
rifioritura. Se poi non tieni nè in scienza nè in lèttere il minimo ingegno o
sapere, e neppure in politica — purtuttavia non manchi di quella, dirèi,
funzione morale, che è supposta in ogni uomo, ossia l'onestà, piglia una
dozzina di trombetti e tamburi, và in piazza, e là proclama che l'ùnico
galantuomo sei tu, e che ciò è sufficente (anzi ne avanza) per fare di tè un
letterato, un dotto, magari un ministro di Stato.
D'altronde, il lettore moderno è
meno poeta che critico. Egli frequenta più volentieri le cliniche che non le
palestre. Non importa che l'esemplare che tu gli presenti sia d'arte ammalata,
basta che egli si accorga che tu sai farne la diàgnosi, che veda il propòsito
de' tuòi spropòsiti, che creda che tu possegga, benché non ne usi, la capacità
di guarire. Supponi invece che le òpere di que' portenti di completezza e di
sanità cerebrale che fùrono Shakespeare e Dante uscìssero oggi, nude nella loro
bellezza, la prima volta al mondo; c'è da giurare che il pùbblico, dovendo,
senza alcun preavviso, affrontarne le meraviglie — meraviglie, spesso
create in momenti di sonnambulismo sublime — le guarderebbe con
diffidenza, e aspetterebbe ad entusiasmarsi che qualche maestro di scuola glien
desse, con un preàmbolo illustrativo, licenza. Insomma, si vògliono, ora,
vedere i libri col punto dell'imbastito. È un detestàbile gusto, non nego, ma è
il gusto della maggioranza. Siamo in China, abbigliàmoci da cinesi.
Di più; una prefazione fatta come
si deve, ti risparmia la noja di andar girando per le redazioni delle gazzette
a suggerire o scriverti bibliografìe. Per procurarti una buona réclame,
non hai che a raccògliere nella tua pattumiera… volevo dir prefazione —
la spazzatura… cioè il maggior possibile nùmero de' nomi de' tuòi viventi
colleghi in voga e non in voga, citando pàgine di riviste, articoli di
giornali, scàmpoli d'ogni penna. Avverti però bene, in qual senso. Si credeva
una volta che il miglior modo per ottenere nomèa, fosse quello di lodare
altrùi. Non dico che non vi sia del vero in ciò. Il tàcito patto del frico
ut frìcas, fu la base, specialmente fra i dotti, di molte celebrità; se
tuttavìa, colla adulazione, si và alla fama letteraria in carrozza, vi si và in
vagone col biàsimo. Difatti, benché la tua lode possa rènderti amico e futuro
laudatore un collega (non sempre però, ché, a contatto dell'intima
soddisfazione che sente di sé qualunque autorello, ogni più fitto incenso par
fumo di rapa) essa, nel medèsimo tempo, è d'offesa ai novantanove altri che tu
o tacesti o in pari misura lodasti — non di tanta offesa, peraltro, da
costituire il cosidetto fatto personale, cioè di farli cantare. Al
contrario; il tuo dir corna apertamente di molti, anzi di tutti, ti susciterà
intorno un vespajo di recriminazioni. Non vi ha scribaccino che non possa
mèttere bocca in qualche trombone o fischietto della quotidiana pubblicità.
Tante le accuse, altrettante le difese — ecco il pettegolezzo, o con più
nòbil parola, la polèmica. Cento gazzette contro di tè, centomila lettori del
nome tuo — ecco, (secondo i prezzi del mercato attuale) la fama.
Con tutti questi vantaggi, non
c'è da stupire se la prefazione ha messo pancia e da serva è diventata padrona.
È di lei, come fu già della porta. Destinata in origine ad immèttere
semplicemente nella casa, la porta non era nè più nè meno ampia di quanto
occorreva, e per maggior sicurezza, la si teneva dissimulata. Senonché, nata la
smania delle ambiziose apparenze, la porta fu ingrandita e recata nel mezzo
della facciata, acciocché la folla avesse potuto ammirare il felice che entrava
nel suo làuto palazzo. Non bastò questo, ma la si caricò d'ornamenti, e le si
accollàrono, a sentinelle sui lati, un pajo di colonne, poi le colonne
incominciàrono a slontanarsi dal muro, a maritarsi con altre, figliando un
pronao, un pòrtico, ossìa una fila di porte. Un dì finalmente naque un bizzarro
architetto, che imaginò una porta senza casa, una porta che conducesse nel
vacuo, e si ebbe l'arco di trionfo. Nè la prefazione è lontana da una sìmil
vittoria. Mercè i nuovi autori, essa ha già conquistato la metà del volume. Un
passo, più oltre, e il libro, ridotto alle pàgine estreme, ne dovrà uscire del
tutto — probabilmente, del resto, per rifar capolino dall'altra
parte — la prima — sotto le spoglie mentite di una
pre-prefazione. Lùnam finiri cèrnis ut incìpiat.
Conchiudendo; la prefazione
promette sempre; il libro non mantiene quasi mai: segui dunque la strada più
piana, che, in questo caso, è la più vantaggiosa. Nè altro è il segreto della
fortuna di tante mediocrità. Incontrerài spesso persone, colla presunzione nel
viso e l'àmido nelle giunture, dinanzi alle quali tutti fan largo
rispettosamente — chiarìssimi, onorèvoli, eccellenze — i cui nomi
salìrono rapidìssimi la scala della stima ufficiale e il cui ozio gràvita sui
cuscini più sòffici che può sprimacciare uno Stato. Chi mai sono costoro?
Davvero non hanno nome nè Macchiavelli, nè Galilèo, nè Rovani; pur tuttavìa ti
si dirà di molti, con un certo quale mistero, che sono gente di vaglia. Embè,
che hanno fatto? Precisamente, nessuno lo sa: se dai retta a taluno di quelli
incontentàbili che non si vòglion fermare al di quà dei frontespizi, quei
bacalari non avrèbbero fatto, nè saprèbbero fare nulla — almeno di buono.
Ma, tant'è, il Chiarìssimo ha dato e dà fuori programmi di òpere colossali che
tèngono nell'aspettazione e nell'anticipato stupore il pùbblico, nè manca ad
ogni nuova questione di letteraria dogana, di scrìvere la sua epistoluccia ai
giornali, per dire che esprimerà la sua opinione; ma l'Onorèvole nelle sue gite
autunnali che mèttono in moto la culinaria e la polìtica di tutto il paese,
disegna, fra un brìndisi e l'altro, piani di universale cuccagna; ma
l'Eccellenza, a sua volta, dai banchi ministeriali dà a bere alle Càmere di
quel medèsimo vino delle promesse di cui l'Onorèvole ubbriacò gli elettori.
Tutti costoro non fanno che prefazioni. Sono bottiglie cattive, spesso vuote,
che dèbbono il loro posto d'onore sulla credenza alla pomposa intappatura e
alla promettente etichetta: il padrone di casa stà in suggezione dinanzi loro,
e, accontentàndosi d'imaginarne i sapori, ripone il cavaturàccioli. O se vuòi
meglio — sono pezzi di mùsica della scuola che non ha cuore — dico
quella di Wàgner: — il pùbblico, dèdito alla minchionatura, li ascolta con
incorreggìbil pazienza, sempre in attesa di una melodìa che non viene mai. E
infatti, guài se venisse! Si vorrebbe tosto altra mùsica.
Prometti dunque o minaccia il tuo
libro anche tè, ma guàrdati bene dal farlo.»
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