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VALICHI DI MONTAGNE
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— Sempre diritto — rispose
al conte Rinucci il vetturino, indicàndogli colla punta della frusta la bianca
strada che, dinanzi a loro, montava, montava, internàvasi in un folto pineto e,
serpeggiante ricompariva nell'interrotto fogliame — sempre diritto, voi
non potete sbagliare. —
Rinucci consultò l'orologio. Fra
una mezz'ora la vettura doveva raggiùngerlo: proprio il solo tempo, stretto e
necessario — come aveva già tartagliato nel suo gergo
gallo-tedesco il camiciotto azzurro — di affettare una
pagnotta alle pòvere bestie, di rinfrescarsi gli arrì! e di attaccare un
cavallaccio di rinforzo.
Il conte approvò col gesto. D'un
gran passo poi superata la larga striscia di fanghiglia che, nudrita da una
sorgentella di aqua, traversava la strada, fermossi all'asciutto, si volse e
stette aspettando la giòvine moglie che apparecchiàvasi a smontare dalla
carrozza.
Ned essa si fece attèndere a
lungo. Sbarazzàtasi dagli scialli e dalle sciarpe che la inviluppàvano, e
consegnàtili alla cameriera, succinta la gonna e tolto dal fascio dei parasoli
e dei parapioggia, un pìccolo bastone dell'Alpi dal nero corno di camoscio,
avanzò sulla predella il più elegante piedino che mai calzolajo avesse avuta la
fortuna di stringere fra le palme, spiccò un leggiero salto e, sulla punta
degli stivaletti, un po' aiutata dalle grosse pietre che uno sollècito
stalliere voltolava per lei nel molticcio, un po' dalla robusta mano che il
conte le offriva, senza schizzi di fango, sana e salva, riuscì presso al
marito. Tutti e due allora s'avviàrono: s'avviàrono a paro, lentamente.
Il conte e la contessa da circa
tre mesi chiamàvansi col medèsimo nome. Il solo amore li aveva congiunti, e se
nobiltà e ricchezza èrano, esse pure, intervenute a segnare la scritta ed a
mangiare i confetti, vi èrano, credètelo, senza alcun invito.
I nostri giòvani sposi
realizzàvano due fra i più spiccati modelli di bellezza italiana: l'uno
ricordava la calda tinta di un siciliano tramonto, I'altra la malincònica e
smorta di un mattino lombardo. Il conte, col suo corpo svelto e nervoso, colla
sua faccia affilata, brunetta, dal naso fortemente aquilino, dai baffi, come i
capelli, nerissimi, con due occhi che lucicàvano a guisa di pugnali, palesava
come in lui brillasse dell'àrabo sangue, di quella razza a grandi contrasti,
ora inerte, estatica nelle più misteriose contemplazioni, ora guizzante, in
febbre, sotto passioni roventi come il sole di Africa; oggi di una folle
generosità; dimani, con sottigliezza, vendicativa: invece il volto della
contessa, pàllido, grassoccio, dagli occhioni neri con lunghe ciglia e il cui
ovale appariva fra anella di un castagno chiaro, quasi sempre spirava
quell'intenso affetto, quel voluttuoso abbandono, quel languore, che
caratterizza le innamorate della nostra pianura.
Senonché, la loro naturale
sembianza era più che intorbidata, guastata, da una cert'aria di disagio, di
stento, che essi tenèvano a riscontro l'uno dell'altra.
E infatti camminàvano passo a
passo, in un silenzio che confinava col broncio, evitàndosi gli sguardi e
vergognando quasi della lor falsa posizione, da cui — sebbene ne parèssero
indispettiti — pur non trovàvano o non volèan cercare modo di uscire.
Mio Dio! che poteva mai èssere
accaduto tra due colombi così da poco appajati?… La risposta è fàcile… Un gran
litigio, il primo che turbasse la pace da loro giurata. — E la causa?… Non
è prudenza rispòndere… voi ridereste… Vi basti sapere che naque da una
chiappoleria, da una puerilità… dirò di più… da una sémplice frase, da una
frase di quelle che, a stato normale, non fanno nè caldo nè freddo, non le si
avvèrtono neppure, ma che, in iscambio, buttate là in un quarto d'ora di
maldisposizione e ricevute da chi è punto bambagia, per un ammucchiarsi di
malintesi, per un concorso di parole che, come la stizza c'imbocca, noi
adoperiamo, dallo scontento istesso di aver rotto il sereno fomentate,
originano un bisticcio il quale, via via inasprendo, ingrossando, riesce a
menarci laddove noi eravamo le mille miglia dall'imaginare, a una odiosìssima
lite.
Figuràtevi! La contessa giunse a
torsi dal collo il vezzo che suo marito il giorno prima le aveva donato, ed a
gettarlo sdegnosamente sul tàvolo… Il conte stette a un filo d'impugnare… una
sedia…
Ma — domando io — e la
colpa, di chi?… Ecco, parlando con imparzialità… No, no; la cavallerìa mi
chiude le labbra… Parlando con misericordia, la colpa la fu del tempo.
Sì! di un tempaccio, nero come il
fumo dell'olio, in cui diluviava e tiràvano certe folate di vento che,
contòrtesi fra gli àlberi del cortile, gittàvansi sull'alberghetto di legno, lo
facèvano scricchiolare, ne sbattèvano convulsamente le mal raccomandate
imposte, poi, inabissàndosi nelle gole de' camini e morendo con uno straziante,
lunghìssimo gèmito, a un tratto scoprìvano il triste fracassìo dell'aqua
grondaja che cadeva e spicciava tra i sassi. Al che, se voi aggiungete un
freddo che metteva addosso i grìccioli e costringeva a mòrdersi, pel bubbolare,
la lingua, più il lume bizzarro di due candele (vi avverto, suonàvan le 5) che
sembrava si fòssero passata parola di far rinnegare pazienza alla loro
smoccolatrice, e un inùtile scampanellamento e l'irreperibilità di alcuni
oggetti favoriti, voi, cari amici, troverete anche, non una, cento scuse, alla
sùbita irritazione che cagionò la lite, tan to più riflettendo che forse voi
stessi (senza nemmeno ricòrrere al furore improvviso di Alfieri contro il suo
servo Elìa per un capello tirato) in sìmili circostanze rampognaste acerbamente
un domèstico perché le scarpe nuove non vi calzàvano bene, o foste a due dita
dallo strozzarvi con quella stessa cravatta della quale non vi riusciva il
cappio.
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