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UN'ACCADEMIA ALLA BUONA
La mia marsina ha fatto la sua prima
comparsa. Dove? Non vi arriveresti in un anno. Ti verrò incontro.
Come già sai, il mio padrone di
casa mi aveva invitato a sentire un pochetto di mùsica, nè io gli aveva detto
di nò. Incerto tuttavìa alla prima, mi ero poi risoluto di andarvi, pensando e
al modo senza pretesa con cui il maestro mi avèa fatto l'invito e all'aria alla
buona, fors'anche troppo alla buona, che spirava la casa. Intravedevo una lieta
serata. «Quì almeno» — pensavo — «non ci sarà l'uggia degli appartamenti
dorati.» I guanti — sarà un pregiudizio — ma io ho sempre creduto che
i guanti impàccino ogni divertimento.
Dunque, giunta la sera e l'ora,
mi vesto, cioè non mi vesto affatto (ché una toletta fuori di posto è il
dissolvente maggiore della schietta allegrìa) e passo nel quartierino del mio
padrone di casa.
Per la piràmide di Cajo Cestio!
Grande illuminazione e un mucchio di gente, i signori in frac e con
guanti: le dame, senza colletto e màniche. Imàgina il mio stupore!
«Ve sii mai imbattuu in quai
ostarìa
A fallà l'uss dopo vess staa a
pissà?»
tale io restai. Ricordando però,
che io possedevo, del pari, una marsina nuova e fiammante, corsi a indossarla.
Ché io voleva conòscere a fondo quell'insòlito lusso, e per bene osservare,
bisogna anzitutto non èsserlo.
Dunque, mi rivesto, ritorno.
Insalutante e insalutato, mi pianto presso la porta.
Ecco il mio padrone di casa,
tutto prosopopèa, àbito nero, guanti giallicci. È a pianoforte ed arpeggia. Oh
quante volte l'avevo io invece veduto in cucina, con una veste da càmera sudicia
quasi, come le scale di casa, a mondar l'erbolina e a smoccolar le candele!
Quanto poi agli altri signori,
più li guardavo, più mi sonàvan di rame. Gli uòmini avèvano ben la marsina, ma
parèa che niuno vestisse la sua, parèa che se la fòssero scambiata reciprocamente.
Io ci vedeva come appiccato, in mezzo alle spalle, il cartellino del nolo. E,
le signore calzàvano guanti, certo, ma guanti calzati di già. Osservàndoli poi
parte a parte, distingueva qua e là delle figure non nuove, figure che avèo
forse incontrato più di una volta, scendendo o salendo le scale, con
sottobraccio il lor quaderno di trilli.
In uno, principalmente, mi ero
giusto avvenuto la sera prima. Egli saliva con tanto di mantellaccio,
cappellaccio, pipaccia. Ed io gli aveva ceduto la dritta prodigalmente. Il che
egli credendo un mio riguardo per lui, mentr'era solo per mè, m'avèa, in
passando, fatto una gran scappellata. Ora, èccolo lì, impalato tra i sostegni
del muro, in gìbus e coda, nero e lugubre come un becchino.
Regnava la mutolità.
E come mai tanta gente avèa
potuto riunirsi a far brutta mostra di mancanza di spirito? avèa potuto
ficcarsi in vesti e modi non suòi? Se a mascherarsi, non c'èrano forse
abbigliamenti più allegri? E chi diàvolo poi li obbligava a divertirsi così
sottovoce, con cera così malcontenta? ad ingozzare — ingrati al sole
italiano — certe bieche bevande, peggio che aqua, aque? O è
divertirsi questo? Viva allora la noja!
E mi saltava una matta voglia di
gridar loro «O voi, che le patate alimentàrono e attèndono, o voi riuniti a far
Quarèsima in Carnevale!… » ma quà si propagò per la sala un zittìo. Il
pianoforte echeggiò! Ed un filo di donna, in piedi accanto il maestro, sbarrava
una bocca, che prego Dio di non incontrare a pranzo, emettendo uno strillo
(ecco un felice aggettivo e per chi scrive e chi legge) indescrivìbile.
Mò bastava, ti pare? sì ch'io me la fumài bellamente. E ripassando presso la
porta di scala, udìi la fantesca, che ad uno il quale avèa bussato (uno,
probabilmente, degli eleganti invitati) chiedèa, prima di aprire sospettosa,
«chi sei? »
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