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Carlo Dossi
Goccie d’inchiostro

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  • GOCCIE D’INCHIOSTRO
    • 30 - ELVIRA
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30 - ELVIRA

 

Il giorno fòndesi nella notte. È la più stanca ora per tutti e la più insidiosa per quelli, in cui i nervi tirannèggiano i mùscoli. Già l'uomo cede alla donna, la riflessione alla spontaneità. Tutti que' sentimenti, sepolti lo stolto giorno in un tenore di vita odiato e nel sospettoso contatto coi nostri così-detti fratelli, risòrgono, ciò che vi ha in noi di gentile, parla. Nè le carezze di questa ora tristìssima son sconosciute ad alcuno, perché tutti hanno in sé qualchecosa di buono, e ne hanno, perché a nessuno è negato di amare.

Il commerciante conta infine un minuto di felice oblìo della sua doppia partita: il filòsofo ridiventa uomo; alza gli occhi dai libri, vòlgeli al cielo. Ed ecco l'ombra si stende in quella parte che gli sembrava chiarìssima, dimossa da dove nulla vedeva. Tìtubano i suòi sistemi, sistemi dalla luciferesca pretesa di discoprire la chiave universale, sì laboriosamente cercati, presuntuosamente espressi, molestamente scritti, di una dottrina, pura difficoltà, di una difficoltà pura ostentazione, pasto futuro alle taciturne tignuole, e sente che un nonsoché scamperà sempre e poi sempre alla sua penna d'oca, che il multiforme imprevedibile caso regge la vita, non la sapienza, e capisce di nulla capire, o tanto, insomma, come il primo che passa. Difatti, non si sà bene che quello che s'indovina.

Ed io, fuggendo la sala, dove una mesta armonia confederàtasi all'ora, mi strazia di voluttà, riparo nella mia càmera. Ho bisogno di piàngere e le làgrime àmano la solitùdine. Ma no, non sono le anònime desolazioni di un tempo, tempo beato nel quale spremevo il pianto da occhi che non ne volèvan sapere. Quelle pene, a paragone di queste, èrano piume di cigno e foglie di rosa; era il desìo di un ideale, ne è adesso il rammàrico.

Zitto! Malinconia, dal tàcito piede, viene. Mi appoggio allo stìpite del caminetto in cui il fuoco sonnecchia e nella cui cappa piòvono gravemente gli echi di una squilla lontana «che pare il giorno piànger che si more» e…

 

* * *

 

Elvira era bella, e, quantunque bella, d'ingegno, e quantunque d'ingegno, buona. Di più, pòvera. O povertà benedetta! ché in te, o fastidiosa abbondanza, Amore sovente cade di sbadiglio e d'inedia. Dove la soddisfazione precede la voglia, la nausea la fame, oh di quanti alleati manca un affetto!

Elvira era bella, ripeto; non mi state a citare le vostre bellezze Greche o Romane, tutte le stesse. Ella era diversa delle altre; non sofferiva, s'intende, un di que' corpi, che si dìcono eròici, olìmpici, da abbracciarsi a riprese e ansando, roba forse per i templi e gli incensi, non per le case ed i baci; bensì di quelli, lievissimi, che si ponno raccorre in un mezzo abbraccio, senza doverli, per sentire qualcosa, oltraggiare. Guardando il suo fràgile viso, in cui la forma perdèvasi nell'espressione, non si poteva certo pensare che l'ànima le dormisse, e, incontrando gli occhioni di lei, cilestrini, eruditi, lietìssimi d'ombra, si comprendeva perché mai i poeti, a volte, li hanno uditi parlare. Le sue narici, un poco all'insù, un po' espanse, sagaci. La castagnina capigliatura, sciolta, l'avrebbe tutta coperta. Le manine poi di una trasparenza di perla, azzurrate di vene… Chi le baciava, beato!

Ed ella era d'ingegno. Per leggermente che voi con la mano le aveste sorraso il fil delle reni, ella ne sobbalzava e raddoppiava il sobbalzo. La fiamma vitale, lambente la volta del cranio, alimentàvasi in lei nell'implacàbile siero, genioso. Non leggeva ella i libri ma i loro autori, non gli strumenti sonava ma le armonìe, amava, non faceva all'amore. Presente lei, oh quanto gusto s'avèa a dir belle cose! Senonché, per questo medèsimo troppo, il suo ingegno non poteva non èssere improduttivo, non consumarsi tutto in sé stesso, com'è di quelle mostruose bellezze sforzate dai giardinieri. Poiché mancàvale affatto quel tanto di non-ingegno che si traduce in isgobbo, divulgatore degli uòmini grandi, e che guidò tale, sì confondendo l'esplicazione con l'essenza del genio, a definir questo «pazienza». Ma, quel ch'è più, l'ingegno di lei era simpaticissimo, non di quelli, cioè, consci, orgogliosi, i quali ci tèngono, per così dire, tre passi indietro col cappello fra mani, ma uno invece modestamente baldo, inconsapèvole, piano, come la Verità prima della invenzione degli àbiti; ingegno, che tanto non camminava per il diffìcile, quanto pel fàcile, che guadagnava, non s'imponeva, che non cercava mai e sempre trovava.

Insomma, un ingegno che conducèvala al buono. La penna di lei avrebbe potuto lasciarci il mite idillio, non l'aspra sàtira dal male di fègato. Alla luce serena degli occhi suòi, al suo sorriso soavìssimo disapprendèvasi il male e pullulàvaci in cuore ogni dimèntico bene; ci stupivamo, anzi, del come, vivendo Elvira, potèssero prosperare i malvagi. Parèa di udire Bellini. Ma, ve'! intendiàmoci, non si trattava di quella bontà dozzinale, imparata a memoria e mantenuta o per coazione od inerzia. Tutto in Elvira era ingenuo, tutto sincero, nè l'arte quì simulava il caso. Non dico con questo, che, ad educarle il delicato sentire, non fosse pure concorso la melòdica onda, che, nata appena, la accolse, e sempre la circondò. O mùsica, celeste dono!… tu, voce della carità; tu, voluttà non corruttrice dell'ànimo; tu placatrice, consolatrice, che vai dove la parola s'arresta; tu lingua universale fra le gentili alme, come, fra le villane, l'oro!

Ma l'acutìssimo ingegno di Elvira e la bontà senza fine, non èrano certo i ripari migliori ai trabocchi della malinconìa, dolcezza amara dalle inesplorate profondità… Non ch'Elvira facesse del convenzionale romanticismo; per carità! no. Ella passava, senza scomporsi, dal clavicordio ai fornelli per ajutar la mammina, ma a volte, indugiata a mirare l'agonìa del fuoco o le imaginose nubi, spontaneamente cadeva in una malincònica èstasi, e le guancie le diventàvan lucenti di mesta rugiada… perché? per le sciagure forse a venire?… senonché, una sola parola faceta, una ganascina scherzosa, bastava a dissiparle ogni bujo, e lei prestamente asciugàvasi gli occhi, e rifacèvasi allegra come l' arcobaleno.

Nè alla graziosa figura d'Elvira mancava un intonatìssimo sfondo. Poiché ella avèa, non un padre, ma un babbo, egregio violinista, e una mamma, l'òttima delle mamme, giòvani entrambi e che si amàvano ancora benché maritati, oltre due rose di fratellini non mai sazi di baci; e poiché abitava una casa la meno cittadinesca della città. N'era la via, fortunatamente; fuori di mano, e là nè le rotaje nè i marciapiedi s'èrano mai sovvenuti di entrare; sì bene l'erba cresceva al sicuro, e qualche volta si coglièvano fiori. La casa, pìccola, ma la porta grande, verace insegna del larghìssimo cuore e della stretta fortuna di quella famiglia, che sul secondo ripiano, con un bigliettino bellamente scritto da Elvira, ci accoglieva con un saluto di lieto augurio; e poi veniva l'appartamentino, pòvero a stanze e a mobiglia, ma dovizioso di vista, riguardando un giardino dall'ombre spesse e profonde, di là di cui verdeggiava un'ortaglia… e così via, per ortaglie e giardini, l'occhio arrivava agli spaldi, chiomati d'antichi castagni.

In quella casa si bevèa un'auretta tutta della campagna e vi facèa la luna le sue più strane e più poètiche apparizioni e commoveva il suono delle campane. Il dì gli augelletti, a sera i grilli. Di primavera in ispecie, un cinguettìo, un fruscìo senza riposo. Indisturbati, i pàsseri avèano sotto la protendèntesi gronda costruito un villaggio di pensili cellette, e quando più denso più turbinoso, si faceva il cippìo, sul terrazzino d'Elvira ne piombàvano coppie tenacemente avvinte, ebbre.

 

* * *

 

Correva Giugno; una giornata quanto mai soffocante; il cielo pioveva fiamme, vampeggiàvano i muri; una di quelle giornate, che ti fanno sentire il fastidio della tua soma mortale e ti fan sospirare i monti e il lago. E neppure la notte ci era cortese di fresco; l'àere continuava ad èssere plumbeo; il cielo basso. Parèa che tutta la terra stesse, colle fàuci sbarrate, semiuste, attendendo lo scoppio di un temporale, il quale, sempre imminente, non risolvèvasi mai.

È mezzanotte. Nella stanza di lei brilla un lume, ma è un lume velato; e s'ode un respiro affannoso, corto. Da cinque ore Elvira non mosse labbro, immota nel suo lettuccio. Senonché il mèdico ha detto, che nulla v'era a temere, che si trattava soltanto di una fra le stranissime nevralgie, la quale volgèa al suo fine pronosticando una indubbia crisi felice, e i parenti di lei, che già due lunghissime notti e due giorni hanno vegliato in angoscia, si son confortati al riposo, fidenti nella dotta parola e nella certezza, che la figliuola è salva. Infatti, il sordo lamento cessò, e il mutar spesso di lato, e il convulso gemito: oh Dio!… Ora, a pie' del verginale lettino, è rimasta una giovinetta infermiera, coallieva di Elvira, dalla pelle di rosa e dagli occhioni azzurri, gravi di sonno.

Tacitamente la porta si apre e un giòvane entra sulla punta de' piedi. Egli è colùi, che, in due dì, fu mille volte invocato da Elvira, quello cu' essa, nell'ùltimo loro colloquio, baciàndolo passionatamente, dicea: son tutta tua — prèsaga del futuro. E Gigi si avvicinò al sommo del letto, guardò la giacente, poi, scorso lungo la sponda, ne chiese in isbàttito alla gentilissima vigile. E questa, a fiore di labbro, a riprese, come permettèvale il sonno, gli ripetè ciò che il dottore aveva detto di Elvira e ciò ch'Elvira di lui, tutte cose incuoranti, e contògli, che nell'imaginoso suo morbo, Elvira sembrava che udisse melodie amorose. — Ora dorme — aggiunse — domani è guarita — e sbadigliò un sospiretto di gaudio.

Al che, Gigi, riattinto coraggio, tornò al capezzale della sopita, vi si siedette, e, assuefando la vista alla mezz'ombra che tutto avvolgeva, si pose a mirarla.

Le palpèbre di lei èran chiuse, abbandonata la gentile persona, un braccio fuor dalle coltri, fluente lungh'essa. Era l'affanno scomparso; non rimaneva che un sibilio leggiero.

In questa, la infermierina restò addormentata, con la ricciuta testina, sul letto. Il silenzio facèvasi sempre più nero, più pauroso…

A un tratto, udissi il ronzìo di un sinistro moscone, che entrava, che invadeva la stanza; che passò e ripassò sfiorando la chioma di Gigi.

Gigi rabbrividì. Alzò la mano di Elvira, che leggermente tremolò nella sua, e, màdida di freddo sudore, se l'appressò alle labbra. Ma Elvira non si destò.

Il moscone andava intanto a picchiare, cocciuto, nei vetri, poi ritornava, ancor più insistente, più minaccioso di prima. Gigi fu colto da una strana inquietezza, da una folla di orrìbili idèe, incalzante… ma no, non era possìbile!… quì non vi avèa di che… e intensamente affisossi in Elvira. Anche il leggier sibilìo, cessato: una mollìssima quiete si diffondeva su lei, una pace perfetta. Ed egli ebbe un baleno di gioia, poi un balzo di tema. Abbandonò la diàfana mano. La mano cadde sul letto, grave.

Gigi si drizzò in pie' vacillando. Credèa d'assìstere a un sogno. Fu alla finestra, l'aprì.

Il cielo, caliginoso: in fondo, una lunga fila luminosa di punti, le làmpade del bastione… Ed agli occhi abbarbagliati di lui, nell'atrocìssimo dubbio di quello che era avvenuto e ch'ei non osava accertare, parve, che la processione dei lumi s'andasse stendendo su su verso il cielo… Baluginìo di lampo. Si scorse nell'imo orizonte una fuga di nubi, nere, ammontonate; si udì dai frondeggianti boschetti un improvviso cippìo, tosto ammùtito. E insieme ad uno schianto di tuono, incominciò a grosse goccie a cadere la sospiratìssima pioggia.

 


 




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