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Carlo Dossi
Goccie d’inchiostro

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  • GOCCIE D’INCHIOSTRO
    • 2 - VIAGGIO DI NOZZE
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2 - VIAGGIO DI NOZZE

 

I due che, parlottando, sedèvano sotto una vèntola a gas nel vestibolo del Grand Hôtel de Russie a Gènova, vale a dire un marinajo del piròscafo Tùnisi ed un portiere in casacca turchina e berretto listato d'oro, si alzàrono; l'òmnibus dell'albergo rientrava.

Il portinajo aggrappò la corda di una campanella — clang! Non era ancora al comignolo del tetto, il gatto fuggito dalle gronde, i peli irti, grossa la coda; nè i cavalli avèvano patita la penùltima sbarbazzata che, da ogni parte, intorno all'òmnibus traèvasi gente; press'a poco come un assalto di ladri (fors'anche!); uno apriva lo sportello; due altri, per calare i bauli, apportàvano scalette di ferro; un quarto accorreva anelante con un lume per mano; nè mancava il visino curioso di una cameriera, nè i favoriti grigi di un maggiordomo — Pàlmerston di strapazzo — il quale dignitosamente inchinava i viaggiatori, mano mano che venivano oltre.

E i primi a smontare fùrono un Mèntore con l'annesso Telèmaco; quello, un gesuita francese, per prete, abbastanza pulito, che tirava al guercio e respirava malizia: questi, un giovinetto in sui quìndici, pàllido, con un'aria intontita. Il pòvero duchino De-Je-ne-sais-quoi viaggiava per istruzione l'Italia; il coso nero gliela dovèa illustrare da un punto di vista, in sommo grado, cattòlico.

E appresso guizzò fuori un vecchietto in sopràbito color tanè, a bàvero di velluto; poi, fe' scricchiolare lo smontatojo un donnone con doppia giogaja e con una faccia di un rosso apoplètico, un donnone di que' destinati a soffocare nella lor ciccia. Ed essa, su'n braccio, reggeva un brutto King-Charles dagli occhi lagrimosi; scesa, deposto nelle mani dell'imponente maggiordomo una gabbia con merlo, offerse gentilmente l'altra a chi la seguiva.

Ma sì che Claudia Di-Viano volèa accettarla! Figuràtevi se lo poteva una fanciulla di diciott'anni, tutta vita, e sposa da cinque o sei ore al più (suo marito era quel giòvane alto, dai baffi biondi che si faceva dietro di lei) figuràtevi poi una ragazza la quale tenèvasi di èssere una capriola sulle montagne, una viaggiatrice perfetta!

Claudia, fin dalle corte gonnelle, avèa avuta manìa per i viaggi e le pericolose avventure. Ella imparò, si può dire, l'abbicì, per lèggere del capitano Cook, del Milione, di Sindbad: appisolandosi sul Ròbinson Crosuè o Svìzzero cui voleva un ben matto, sognava sempre con gioja di trovarsi, anche lei, in un'isola disabitata, vestita di pelli caprine, con lì sottomano, arenato, l'inesaurìbile bastimento. Nè solo fantasticava. Un giorno, a dì basso, suo padre, ritornando da caccia, incontrò nel folto di un bosco la piccolina acchiocciolata presso un mucchio di stipa; la piccolina, che, smarrìtasi a bel diletto con le tascucce zeppe di chiodi, di pezzi di corda e di morselli di pane, ora piangeva a lagrimone, accòrtasi di aver dimenticati a casa i fiammìferi.

E crescendo, crebbe anche il suo ticchio. Il tavolino di Claudia vedèvasi a tutte l'ore ingombro da carte geogràfiche, da fotografìe di ghiacciài, da ragguagli sulle infruttuose spedizioni ai Poli e alle sorgenti del Nilo. Quando poi nella sua fantasìa, sdrucciolò, la prima volta, l'ometto, essa lo vestì da capitano di mare, lo mise a prora con un cannocchiale; essa lo desiderò ardentemente, per internarsi seco nella baja di Bàffin, per lasciare insieme a lui le suole sul Davalagiri.

Ma, in attesa del signor capitano, Claudia dovette frattanto accontentarsi di bèver dei ponci nel traversare con mamma e babbo la Mànica, e di scottare di nomi quali Pilato, Furca, Faulhorn, Jungfrau, il suo bastone dell'Alpi. Se il maggiore Tiptof dell'Indie, da lei conosciuto al Rigi, uno sballone per eccellenza, cavatappi famoso e mandaldiàvol di tigri, avesse mostrato un occhio di più e qualche anno di meno, c'è da giurarlo, conosceremmo ora in Claudia una lady.

Senonché, lo sgranocchiatore dell'appetitosa fanciulla dovèa èssere per fortuna un giòvane, il cavaliere Di-Viano. Di-Viano avèa lui pure corso la sua parte di mondo e per ciò, come e' s'ingattiva di Claudia, guadagnava di primo tratto nelle sue grazie il passo su molti de' vecchi amici di lei.

— Ei conta sì bene — diceva ella.

— E ha degli occhi sì risplendenti — pensavamo noi. Tant'è — conta conta, o guarda guarda — una sera, Di-Viano domandò un colloquio al barone Fiorelli; questi, dopo poche parole, baciàvalo in viso — Brìncoli! I due figliuoli si amàvano a non vedere più innanzi: di più, èrano giòvani, nòbili, ricchi, in dato eguale… Se non si sposàvano essi, chi mai potèa sposarsi?

Pure, la baronessina pose una condizione: quella di realizzare, maritata, qualcuno de' suòi bei sogni di vèrgine, di fare un giretto, come viaggio di nozze, almeno in Africa.

Almeno! Di-Viano si morse instintivamente le labbra. Le osservò poi, mettendo fuori tutta la persuasiva, che il sole di Libia cuoceva su per le piante i marroni, che là sotto i guanciali — senza le pulci — ci si avveniva sempre in scorpioni, in serpentacci lunghi sì e sì; che quanto poi alle piràmidi, non francava proprio la spesa vederle… De' colossali fermausci, null'altro.

— E allora… addìo — fe' Claudia salutàndolo d'un cenno dispettosetto.

— No, no — diss'egli premurosamente — ci andremo… Dove vuòi, amor mio. — A prova del che, raccolse, la settimana stessa notizie intorno le vaporiere che stantuffàvano da Gènova ad Alessandria d'Egitto.

E si risolse partire il dì delle nozze. Sarèbbesi con tutta la parenterìa patito un pranzo di gala, poi gli sposini avrèbbero preso la via ferrata e… buona notte. Difatti, punto a punto, ciò avvenne: circa allo scorpacciamento… ma no, non parliàmone; nulla v'ha di più uggioso e per due che s'àmano e per chi non ha l'appetito in pianta stàbile, a paragone di tali solennità di famiglia in cui ci tocca sedere, gòmito a gòmito, proprio con quel parente che noi studiavamo di cansare in istrada; udirvi scipiti o puzzoni bisticci; scaldarci ogni tanto le mani a certa roba scritta con il decimetro, tutta bugie — o rimbombante come un barile vuoto, o geroglìfica più dell'obelisco di Lùxor.

E aggiungi che gli sposini, stavolta, ingojàrono anche il piacere di scarrozzare alla stazione in gran compagnia; Camillo in una berlina, col padre della sua sposa e con due vecchi zii campagnuoli, i quali, per la fausta occasione, avèano stampato un libretto dal titolo: Studio sopra i letami; Claudia in un'altra, insieme alla mamma e a tre cuginette che non stàvano mai dal palparla, dal baciucchiarla, sclamando, le làgrime ai nottolini, cose di fuoco su que' crudelacci di uòmini.

Pur finalmente, son nel vagone… soli! E soli, c'è da sperare, rimarranno per qualche tratto di strada; ve'… chiùdesi la sala di 1a classe ed a momenti il convoglio… Ma ahimè! poveretti… Riàpresi lo sportello ed un omino appare adocchiando.

— Ciò, Beta! — dic'egli — varda… ghe xe logo per una famegia d'impiegài. —

E lì, montato su, il rompitorta, ecco seguirlo una badalona, ansante come una armònica frusta, rossa come un'anguria, e accomodarsi di facciatina ai due sposi.

Ah sorte ladra! Claudia e Camillo allungàrono i visi. Lampeggiata al cavaliere l'idèa di procurarsi uno scompartimento a parte — già s'inviava il convoglio: Claudia non susurrava peranco «dunque, alla prima fermata» — che, raccolto la nuova venuta il soffio, èbbero tutti e quattro la consolazione di raffigurarsi per conoscenze e insieme, per un'unghia, parenti.

Imaginate il grazioso viaggio! I due colombi dalla carne tirante si èrano, come uncinetti a maglie, appiccicati ai tèneri: senza pèrdere un àtimo, li rallegràrono — via correndo — di un chiacchieramento in xe-serrato, mòlto a propòsito… e sul tran-tran stuccante della vita matrimoniale, e sul pigliare di brusco delle bottiglie stappate, e intorno ai modi econòmici di raffazzonare abitucci pei bimbi dai calzoni di babbo e dalle coperte vecchie dei canapè. Nè Camillo potè neanco cavarsi il gusto di strìnger fra i denti un Virginia. Quantunque il vagone fosse pei fumatori, avendo egli a seconda del Galatèo domandato: permèttono? — udì rispòndersi dalla grassona che per carità non accendesse zìgari — non per lei, no — ma perché il puzzo sgradiva al suo caro cagnetto, un mostrino che, insciallato, dormivale in grembo. Di più; come a Claudia scappava di bocca il nome dell'albergo cui èrano indirizzati a Gènova:

— Ben! vegno anca mi — inchiodò il vecchietto — no xe vero, Beta?

— Sì, sì — ribadi il donnone — E se gavaremo — aggiunse — el piaser de magnar un boccon assieme. —

Perciò noi vedemmo le due coppie, l'una dopo l'altra, smontare dal medesimo òmnibus nel Grand Hôtel de Russie e, ora, le seguitiamo ad un tempo fino allo scalone.

— Una càmera, signori? — ivi domanda il maggiordomo ai concittadini della zuca baruca.

— Nò, nò — risponde il sior Anzolo — dò… Almanco la note… Ostia! —

Il maggiordomo porge ad un servitore un pajo di chiavi.

— E le signorìe loro — chiede ai nostri sposini — due stanze?

— Credo ce ne basterà una — fà con un sorriso Camillo — È vero, Claudia? —

Ma in quella, una voce grossa, come infreddata:

— Gh'è u sciù cavaliè De-Vianu?

— Io… — dice Camillo volgèndosi.

Il marinajo, dopo una toccatina di cappello: sciù, m'han mandào a pigià i baili…

Di-Viano: Ah! bene. Aspetta. Tu Claudia — dice e sogguarda i due carini compagni di viaggio, che sono quasi al ripiano — intanto ch'io me la intendo… solo quattro parole… per i bauli, dovresti scèglier la càmera, dovresti ingegnarti a prepararmi una bella cenetta… Se tu per altro la preferisci ordinare coi Bragadier…

— Dio ce ne lìberi — interrompe la giòvane — E quì ella, preceduta da un servo che porta due saccone di pelle bùlgara e da una cameriera con i plaids e le sciarpe, si dirige alla scala; egli, accompagnato dal marinaro, attraversa il cortile.

E le parole non fùrono più di quattro. Dopo di che, Di-Viano fece il cammino di Claudia e spinse, a capo di un corritojo, l'uscio n° 15.

Buono! che deliziosa veduta! In mezzo ad un elegante salotto, illuminato da due lucerne, sopra una tàvola tonda, dalla tovaglia bianchìssima, posàvano scintillando cristalli e argenterìa, un cestino di fiori e, quello che importa il tutto, certi piatti fragranti, piatti che facèvano andare su e giù il pomo di Adamo: per una porta poi spalancata, vedèvasi nella vicina stanza, tapezzata in celeste, la sposa, dinanzi uno specchio a ravviarsi i capelli.

— Claudia! — fece Camillo picchiando con il cucchiajo contro il bicchiere.

— 'Gnore! — ella rispose correndo a lui.

Il domèstico che avèa apparecchiata la cena le avvicinò una sedia.

— Ve', qui c'è tutto — osservò allora sottolineando la giòvane al maritino. — Non manca uno stecco, sai…

— Se è così — conchiuse Camillo volto al domèstico — abbisognando di voi, chiameremo. —

Quello acconsentì del capo.

— A che ora, signor Conte? — interrogò — domani…

— Noi partiamo col Tùnisi… — disse il cavaliere — Dunque… dunque ci sveglierete alle sette.

— Alle sette — ripetè inchinàndosi il servitore, ed uscì.

 

— Tach… tach — alla porta.

Camillo si desta. Dormiva con le orecchie in ascolto. Si stira, èrgesi a mezzo su gli origlieri e, con un nervoso sbadiglio:

— Ohè! — dice.

— Le sette, signore — fa un quìdam di là dell'imposta.

— Bene — risponde il cavaliere. E si leva del tutto sopra i guanciali, frègasi gli occhi, si guarda attorno.

La luce che piove nella càmera è smorta. Ella disegna al fianco di lui la cara sua sposa, sciolti i capelli, semiaperte le labbra, coi nastri della camicia slacciati, con un braccio fuor delle coltri, nudo per la mànica breve, orlata di trine, pienotto, rotondo, dalla birichina fosserella al gòmito — la sua sposuccia che sùcciasi tranquillamente il sonnellino dell'oro.

Al giòvane sembra peccato svegliarla. Infatti, è. Prendendo consiglio dall'orologio, com'esso scorge che all'ora annunciata màncano ancora cinque minuti, glieli regala. E segue il lentìssimo ago fino a… E quasi contemporaneamente, da lungi, un campanone ràntola le sette.

— È tempo — pensa allora con un sospiro Camillo. — Se taccio, me ne vorrebbe — Sbassando dunque il suo viso verso quello di Claudia, le soffia leggier leggiero sul fronte.

Ma ciò serve poco. Manco di una mosca.

Dà una momentanea crespa… nient'altro.

Ebbene to' una diversa sveglia — un bacio.

Un bacio schietto, sonoro, che si regala Camillo. Poi si slontana.

E questa volta ella si desta. Gira i suòi amorosi occhioni,

— Mamma — sorride.

— Già… mamma — motteggia Camillo.

La giòvane arròssa.

— Su, poltronona — segu'egli raddoppiando il baciozzo — siam di viaggio, sai… —

Ma Claudia non si move: continua a fisare d'un'aria lànguida lo sposo.

— Il Tùnisi parte alle otto — egli osserva.

— E si sta sì bene quì — mòrmora la giòvane.

— Certo — appoggia Camillo — ma quanta più poesìa in mezzo alle onde! Imàgina un po' noi due, a prora, mentre il vascello sega… sotto un cielo stellato… il plàcido seno di Teti, o pure, allorché mugliando sopra il mar va il greggie bianco, noi due a braccio, almanaccando…

Et coetera — incastra la sposa.

— Poi, pensa ai magnìfici luoghi, alle romanzesche avventure che incontreremo. Quì, io mi vedo, passato un rovente piano di sabbia, battèndocela dinanzi al Simoon, bellamente attendati in una freschìssima òasi, con le nostre guide color di caviale, i nostri camelli, e intenti io e tu, a impepare sulla gratìcola costolettine di lione o di tigre; là, io mi trovo nelle montagne del Giurgiura, le gambe incrociate su una stuoja pungente, faccia a faccia con uno cheik dei Cabili… barbone bianco… quel vecchio Abu-Hassan-Mohamed, il quale ci offre un grazioso pranzo…

— Di cavallette — finisce Claudia.

— E pensa anche ai nostri nomi intrecciati, da scarpellare sopra le statue di re Memnòne, a fianco di quello di Sua Maestà l'imperatore Caracalla! E pensa alla vista delle piràmidi, di que' tre colossi, dall'alto dei quali quaranta sècoli e mezzo ci contempleranno e al basso di cui un beduino, discendente forse dal Bue Apis, nel suo pittoresco costume…

— E sudicio…

— Sudicio… sia pure — ci porgerà una manciata di scarabèi, di verdi idoletti, che la zampa del suo fedele corsiero scoprì, raspando… in una fabrica al Cairo. In sèguito, ai volcani di Teneriffa…

— Ma se ci abbiamo que' di Gorini a Lodi! — interrompe con impazienza la giòvane.

Il cavaliere la intèrroga intensamente con gli occhi: — fai sul serio o per celia?

Ella, nel modo stesso, ritòrnagli la domanda.

— Làh… insomma… ti levi?

A quoi bon?

In questo, un nuovo picchio alla porta.

— Le sette e mezza, signore. —

Camillo (in un orecchio di Claudia)

— E dunque?

Claudia (sottovoce, con un po' di timore) — Ma e hai veramente voglia di andarci? —

 

Tlen… tlen — i rintocchi di una campanella in distanza: forse vèngon dal Tùnisi, ché la lancetta del pèndolo segna le otto.

— La vaporiera s'invìa — sospira grottescamente Camillo.

— Buon viaggio — fà Claudia sfavillando di gioia. Ma d'improvviso:

— E i nostri bauli?

Il cavaliere ride e ghigna un pochetto, poi:

— Non inquietarti, mio cuore; i bauli son là — e accenna alla stanza vicina.

Claudia rimane sopra pensieri: ella passa, ripassa del guardo, il mìgnolo in bocca, la faccia del suo Camillo; infine:

— Aah!… tu sapevi…! —


 




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