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Carlo Dossi Goccie d’inchiostro IntraText CT - Lettura del testo |
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E, nella mattina, venne a trovarlo il signor Camoletti, procurator suo in patria. Era egli una miseria di uomo, dal viso color formaggio-di-Olanda, con due occhiucci nerìssimi, da faìna; neri, i capelli cimati; nero, un pizzo da capra; nera, la cravattona (e non un sìntomo di una camicia); neri, il vestito impiccato e le brache; sì che parèa ch'e' uscisse da un calamajo in quel punto e gocciasse l'inchiostro. Il corpicciolo di lui, inquieto, le lappoleggianti palpèbre, le mani che non requiàvano mai, dicèvano chiaro il caràttere suo, rabattino ed astuto. Quando parlava, colùi che avèssene udita solamente la voce, doveva pensare «oh pappagallo d'ingegno!» Ed era, quattro-parole-un-complimento-e-un-inchino. Il quale ometto dei ceci, dopo di èssere andato in dileguo sul ritorno felice e sulla bella presenza di Leopoldo, disse della fortuna di avere, il dì prima, ricevuto un biglietto «proprio del signor conte» — e quì un saluto di capo; — ma aggiunse della disgrazia di non averlo potuto lègger che a sera… «capirà, noi gente d'affari…» Nondimeno, com'egli, a fortuna, abitava nella medèsima via del Pensionnat Anglais Catholique di donna Ines — e quì un altro saluto — così, vi avèa tosto spedito il suo saltafossi e il biglietto. Sgraziatamente! la contessina, uscita a pranzare da una sua amica sposa, non era ancor rientrata… — Tuttavìa — osservò Camoletti — io avèa già avuto l'onore di partecipare a donna Ines il pròssimo arrivo di sua signorìa. Donna Ines lo sospirava da un pezzo. — Anch'io — fe' Leopoldo — Pensi, avvocato, che essa toccava appena i sei anni, quand'io partìi con pappà. Ben mi ricordo; era una bimba cicciosa; bella no certo; cattiva come un folletto… — Oh, allora! — sclamò Camoletti — la contessina di adesso, chi è? — Vero — notò il giovanotto — che le belle ragazze nàscono ai quìndici anni… — Infatti… — fe' per dire l'avvocato. — Prego! — interruppe Leopoldo — La non mi dica niente. Mi lasci un po' d'improvviso. — E sonò il campanello. — Un brougham! — ordinò al servitore. Intanto, il discorso si ridusse agli affari, e parve che tutto assieme andàssero a maraviglia, inquantoché i per fortuna in bocca di Camoletti fùrono un dieci a ciascun per disgrazia. Leopoldo, da parte sua, accennò a cambiamenti ch'egli voleva nei fondi (i fondi visiterebbe nella settimana ventura) parlò di màcchine agrarie commesse a Manchéster, di un nuovo sistema d'affitti, di nuove colture; sul che, il discorso, continuando anche nel brougham, s'interessò vivamente, tanto che, al fermarsi di quello, il cocchiere dovette smontare, aprir lo sportello, e dire «signori!» Ed essi scèsero ed entràrono. Quantunque la vaghìssima incògnita avesse già in Leopoldo occupato il posto migliore, tuttavìa, trovàndosi egli sì presso a colèi che sola poteva ancor chiamare parente, si senti bàttere il cuore. Ecché! Ines, forse, non era nè un velo di Tulle, nè una che curiosava ogni dove, nè un rompigloria a perché?; — bensì di quelle creature devote, sentimentali, veri tiretti ai nostri segreti, e manualucci di pràtica filosofia. Or, chi non sa che gli amanti han sempre a confidare qualcosa e sempre a dimandare consigli? In sulla scala, non incontràrono alcuno. Ma, al primo ripiano, il signor Camoletti, ad una vecchia senza cuffia e in cartucce, che il salutò per nome e cognome, chiese: — C'è donna Ines? — La inserviente rispose: che le signore maestre e tutte le damigelle èrano fuori a messa… «messa bassa» aggiunse per consolarli «vògliono intanto sedere? » e lor dischiuse una porta con scritto su «Direzione.» Ned essi rispòsero no. Rimasti soli, rimàsero anche in silenzio. Il signor Camoletti, accomodàtosi in una sedia a bracciuoli, dopo di aver concrepate le dita alcun po', prese a mangiarsi furiosamente le unghie. Leopoldo girandolava la sala. Sulle pareti di cui, oltre il ritratto del rè, era una mostra (proprio una mostra) di adaquerelli e disegni, di prove di bella scrittura, pantòfole ricamate, ghirlande di fiori, quadri a margheritine, iscrizioni (evviva la direttrice! viva il suo onomàstico!) tutto disotto al vetro e in cornice; e, sopra i tàvoli e i tavolini, programmi dell'Istituto, mazzi di fiori di carta, un cestino di biglietti da visita, in cui stàvano a galla quelli con la corona; poi, dentro uno stipo, un lucicchio d'oro e d'argento — pese, coppe, un nùvolo di tabacchiere una sull'altra come le scatolette delle sardine, e campanelli e penne e posate — doni ed omaggi. Oh quanti segni di amore!… diciamo meglio… oh quanta adulazione pelosa! oh quanta smania di un saldo ai conti seccanti della riconoscenza! E, tuttociò, si voleva che fosse visto e ammirato. Leopoldo ci frisò appena lo sguardo. Però, siccome, nè ad ammirar nè a vedere, posava dimenticato sullo scrittojo un pìccolo albo, Leopoldo l'aprì. E lesse:
«Note sulle ragazze del P. A. C.» (Pensionnat Anglais Catholique) «anno corrente… fatte da mé direttrice MARIA STEWART»
E, a pàgina prima, lèttera A:
«ALDIFREDI baronessina VITTORIA — diciasett'anni, naso all'in su; capelli da Barba-Jovis; colorito di fuoco. »Da che reggo il collegio, non mi è mai capitata una fanciulla più ghiotta. Va in seconda a ogni cibo. E sì che tra i pasti non fa che spazzare scàtole di canditi, e pasticche e cioccolatte e mentini! Jeri di là, ad esempio, mi ha furato e vuotato il mastelletto della mostarda. Poi, ride sempre, di tutto. Entro io, ride; entra il signor Catechista, ride. Sgrido; ride ancor più. E attacca alle altre il morbino. «Vittoria ama, tra i fiori, il garòfano…»
Ma quì, Leopoldo, abbandonò l'Aldifredi, e passò all'A-enne. E lesse:
«ANGIOLIERI donna INES (dei conti) — vent'anni. «Buona fanciulla, ma che si atteggia all'interessantismo. Per quanti gliene sequestri e tèngala d'occhio, mi legge continuamente romanzi, roba francese ed istèrica. «Il suo fiore mignone è la viola. Non sa sonar che notturni, cloches du village, dernières pensées, e sìmili piagnonerìe. «Ines mangia il meno che può…»
— Sente, avvocato? — dimandò Leopoldo — dìcesi che mia sorella mangia il meno che può. Quest'è, io credo, una nota di buona condotta in collegio: e lei? — Camoletti si affrettò di sputare i rottami di unghia, e disse: — Oh certo! buona!… ih… ih! — con un ridacchiar cavallino. E Leopoldo leggendo, ma a forte:
«… Invìa delle letterone alle amiche, a punti ammirativi e puntini…» — Dica, avvocato, ma e le àprono dunque le lèttere? — Sa! nei collegi! — prese a dir Camolètti, in tono che sottintendeva «è un naturalìssimo uso. » — Bella! — sogghignò il giovanotto; e seguendo:
«… punti ammirativi e puntini… in cui loro confida dei dispiaceri impossìbili. »
— Auf! — pensò — che piaga! Dovèa toccar proprio a mè!… Fosse la gaja Vittoria — e chiuse il pìccolo albo, mortificato. In quella, uno scarpiccìo e un suono di freschìssime voci. Rifluiva il sangue al collegio. E, nella sala, parve che gli ori, gli argenti e i cristalli scintillàssero il doppio, all'idèa di rispecchiare qualche grazioso visetto; e, dal giardino, levossi un'affollata di cipp-ri-cip-cip, tale, che sembrò ogni foglia e ogni fiore cangiato in un vispo augellino. I passi, il cinguettio, il fruscìo già rasentàvano l'uscio della direzione. E una vocetta, maliziosamente chioccia, diceva: badabigelle! le pvego; non fàccian tvoppo vumove! — Giù, un gruppo di risa! e le fanciulle passàrono. E, dopo un istante, si udì un ràpido passo. Leopoldo assunse un contegno serio. — Oh fratel mio! — sclamò una ragazza, entrando di corsa. Il giovanotto diede uno scatto all'indietro. L'amata di lui non era più sconosciuta. — Abbràccialo, Ines! — fe' la rettrice apparsa alla soglia, vedendo la tosa arrestarsi. Ed Ines si appressò a Leopoldo, tremante; ella, come un fantoccio, l'abbracciò; lui si lasciò abbracciare. — Son pur felice, conte! — disse la vecchia maestra, facèndosi innanzi — Si accòmodino. — E tutti e quattro sedèttero. Così, il discorso, principiò, e seguì solo tra Camoletti e la signora Maria, due tali, per parlantina, allo stessìssimo buco; questa, che già iscorgeva in prospetto le sguizzasole vetrine del giojelliere, tolse la mano del dire, mettèndosi a fare l'elogio della scolara di lei, dàndola per garantita, e sospirò e pianse; quello, come riuscì a rubarle la parola di bocca (ché altro mezzo non c'era), snocciolò una tirata di lodi sul principale di lui, la quale, volto il tempo presente in passato, avrebbe pure servito da necrologìa. Ma, quanto alla sorella e al fratello, non una di quelle vampe di affetto che rischiàrano a un tratto antichi ricordi obliati, ricordi d'infanzia; sedèvano a bocca chiusa, non rispondèvan che a cenni, parèvano insomma due poveretti villani, che, mascherati da ricchi, stèssero in soggezione del loro vestito. — Oh sacristìa! — dicea tra sé l'avvocato — che scherzi fà l'amore! —
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