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Carlo Dossi
La desinenza in A

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  • LA DESINENZA IN A
    • FINALE
      • 1 - La palingènesi della donna.
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FINALE

 

1 - La palingènesi della donna.

 

Pùbblico mio, la commedia è finita. ! più nessuno. Gli spettatori se la cavàrono bellamente per non compromèttere la lor dignità cogli applàusi. Nòbili segni del loro passaggio, sono bucce d'arancio, gusci d'arroste, spiegazzati programmi, scorci di zìgaro, aspèrgini ammoniacali — e un fischietto, che è la perduta espressione di uno di que' benèvoli che vanno a teatro col preventivo giudizio in taschino o lèggono i libri dopo di averne scritta la crìtica. ¿Ma ecché? ¡Lampadài del diàvolo! Anche i lumi si spèngono; ond'io, pòvero autore che pretendevo di rischiarare il mio pròssimo, tròvomi al bujo, obbligato a cercarmi tastoneggiando la via.

Senonché una fresc'àura mi sorrade la fronte. Non più l'afa, non più l'ottuso dell'arte. Sotto mi risuona il terreno, mentre m'inciàmpano i piedi come in radici e do' del capo in cosi ondulanti quài pèndoli d'orologio. E un nuvolone si squarcia. La luna appare cornuta, inargentàndomi intorno il ricco fogliame di una selva di noci, tutta a frutti di forca.

In questa, un rumore da lungi, qual tuono, e sulla mia testa, che aggriccia, uno sbàttere d'ali e un rombo. Nella lunare atmosfera nereggia, un istante, un'immensa granata con su accavalcioni scarmigliate figure l'una all'altra aggrappate. Sono le streghe che, nude e unte, vanno a tregenda. E la granata dispare e in una folata zufolante di vento il rombo muore in distanza.

Ecco in fondo, un lumino — in fondo, in fondo com'è nelle fiabe delle vecchie nutrici. Io anelo arrivarlo. e , accèlero i passi, pur non procedo. Sembra piuttosto che cammini la strada per , vènendomi incontro. Il terreno sfùggemi sotto come la ruota motrice negli antichi opifizi a chi dentr'essa si sgamba. E già il lume m'è a lato.

¿Che è? Una casa in rovina; la snumerata abitazione del boja. E sulla soglia, dove il chiaro di luna si sposa ai caldi riflessi della luce interiore, stà lo stesso inquilino, stà l'egregio chirurgo della legal medicina, in un palandrano verde-smontato e in un galeotto berretto, che a fiore di labbro mi : «Ti attendevo

Entriamo. È uno stanzone illuminato da torce dal giallastro chiarore e dal puzzo di camposanto. Potrebbe pigliarsi, da chi non avesse paura, per una cucina. Ma io, paura n'ho molta. Io non scorgo che coccodrilli impagliati, che aborti e diavoletti in ampolle, e lambicchi dal naso lungo e schêltri e corna di narvali e ova di roc, tutta roba indispensàbile a un mago,, e scorgo nel mezzo una fornace in mattoni, bassa e quadrata, con su un trìpode in bronzo e una colossale caldaja di tersìssimo ottone.

L'onesto assassino si accarezzava la sua barbettina di capro, guardàndomi malignamente. «¡Incontentabiledisse, «te ne fabbricherò una io... perfetta,» e, sbassàtosi, alzò, per un anello di ferro, una pietra.

Un cupo stroscio si udì. Vidi un negro baratro di aqua corrente e sulla bòtola lessi: làcrymae amàntum. E trèdici volte il boja ne attinse, versando la secchia nel bacino di ottone.

Ciò fatto, egli mi porse una scure grommata di sangue e capelli, e additàndomi un mucchio di combustìbile e un ceppo da tagliar legna umana, mi ordinò: «¡Spacca

Strinsi la scure tremando. Formàvano il combustìbile, fràcide assi di bara, òrride ancora d'arruginiti chiodi e di brandelli di lino, pezzi di confessionari e inginocchiatòi oscenamente polluti e pezzi di trave lùcidi e lìsi dal cànape, quercèe coperte di eròtici dizionari, canghe cinesi, spàzzole eccitatrici, ficulnei prìapi, fàscini in cuojo, gambe rotte di letto... — e mi diedi a spaccare, e, spaccando, tenevo d'occhio al mio boja, che avèa aperto un vastìssimo armadio dov'èrano innùmeri vasi a mo' di que' de' speziali, di faentina majòlica, soprascritti a caràtteri goti coi nomi di Filomela, Tàmar, Erodìade, Emma, Lyonna, Jezabel, Mirra, la Brinvilliers, mamma Needham, la Borgia, Caesar regina, Eliogàbalo... e mille e mill'altre.

Sul che, babbo Stricche, grattàtosi col dito infame la nuca, schiuse pel primo il baràttolo di Eva, la protoputtana, donde trasse uno specchio e una piuma che dopo di avere pulito, con un rastiatojo, di certo glùtine nero (e questo pose in un piatto) gittò nel bacino. Indi passò ai vasetti di Marìa Stuarda, la troppo fedele alla chiesa e troppo infedele agli amanti, e di Marìa Egizia, la battezzata colle làgrime sue, da cui tolse un pajo di crocefissi, con su inchiodato un dèus mutìnus, ch'ei nettò parimenti della nera putrèdine e gittò nel bacino; e così fece dei filtri, nodi scorsòi, fòrbici e lime, estratti dai recipienti di Dàlila e Dejanira, le vincitore di Sansone e di Èrcole, e di Bersabèa e Brisèide, le impazzitrici di Dàvide e di Achille; e così del ferro di mulo ch'egli trovò da Santippe, (la vera cicuta di Sòcrate), così della lingua della Moglie di Giobbe, (quella moglie che Dio, nel rapir tutto al suo amico, ùnica gli lasciò, a maggior punizione), e degli stili, colubri, faci incendiarie e veleni, cavati dall'urne di Clitennestra, Medèa, Taide, Locusta, Tarquinia. E in sèguito il mago (ché boja non oserèi più chiamarlo) scoperse i baràttoli della socràtica Aspasia «sage au parler et folâtre à la couche», della màscula Saffo, d'Ipazia l'astrònoma, Afrania l'avvocatessa, Stàel la letterata... ed èccone uscire uno stormo di papagallini e di palloncelli di vento con orecchie asinine, di cicale e di ochette, che, tortito sul piatto la sòlita pece, vòlano nella caldaja, intanto che dal vaso di Làura, gran dolore al Petrarca e gran seccatura all'Italia, sprigiònasi spontaneamente una gentile civetta che tien la medèsima strada. basta. Dalla coppa di lei che immortalò Menelào e da quella della grossa Margot, l'ammogliata al di Navarra e a tutti gli ugonotti di Francia, il mago si provvedette corna d'ogni materia e lunghezza, mentre da Psiche, Pandora, e dalla Moglie di Lot, altrettanti pugni di frasche; dalla casta Zenobia dai candidìssimi denti, da Penèlope, Porzia e Lucrezia, màschere e fardi; e da Talestri, Giovanna d'Arco e Giuditta, malli di noce e fichi d'India spinosi, ch'egli contemperò (sempre s'intende spazzàndoli dal glùtine nero che deponeva man mano sul piatto) coi grani di pepe e di ortica, tolti dai vasi di Messalina, Contessa A*** e Pasìfae aggiùntovi inoltre un po' di pelle agnellina della Vèrgine-Madre riunita alla pelle di cagna d'Ipparchia, e un po' del cervello d'Eloisa, turbolente di sogni, alla prudentìssima vulva commisto della Moglie d'Agrippa. E poi non mancò di scoperchiare i baràttoli di Semiràmide, della papessa Giovanna, Agrippina, Contessa Matilde, Elisabetta la grande, Cristina Di Svezia, Marozia, Cleopatra, per elèggerne penne paonine e tacchi alti tutti intrisi della sòlita pece, e intrisi ancor più di quanto ne èrano attaccaticci gli àbachi e le tariffe, le sanguisughe, le gole di grù e i ventri di struzzo, presi da Flora, Làide e Metiche dal quarto d'ora, da Lamia, Sinope abisso, Fanòstrata, Crispa e dalla Cheòpide. Scoperchia e scoperchia, la caldaja s'empiva — una variopinta miscèa d'ogni fatta di roba. Ci si vedèano peli di porco, peli di volpe, di scimmia, di gatto, di giumenta e di àsino (quasi tutti strappati a regine dalla mano sinistra), ci si vedèano e grilli e berretti a sonagli, tràppole e reti, pezzi di sùghero (forse cervelli), calzette (forse coscienze), pìllole d'oppio e palle di piombo, denti nascosti in sorrisi, trombe d'Eustachio al rovescio, assortite bugìe, tutelari spugnette, enigmi, fughe per farsi inseguire, rapine abbigliate di tenerezza, «sì» che parèvano «no», e «no» che parèvano «sì», piàttole ed esche, banderuole e farfalle. E anche il piatto, che il mago teneva fra mani, rigurgitava della nerìssima pece.

Allora il mago aprì un finestrino nell'alto, da cui piovve un raggio di luna, e mettèndovisi sotto si die' a stemperare col grattatojo la cupa tabe fojosa, piena, a quanto parèa, di becchi di pàssero e colombino sterco. Ed ecco farsi, la sanie, trèmula e iridiscente e poi fumosa e fosfurea, sviluppando un acutìssimo odore di stoccofisso e di Brie. A tale odore, oscillò per la stanza come un fioco tintinno d'isìaci campanelli, un catenaccio di castità, appeso al muro, si ruppe, si sciolse un nodo dello spilletto e un filo di verginità si accorciò,, a tale odore, i capelli mi si drizzàrono impriapiti e mi trovài sbottonato. E le chiavi infìlan le toppe, i lìberi chiodi si fìccano nelle fessure e nelle bottiglie i turàccioli, cade il pestello entro il bronzino e la paletta fra le gambe alle molli, mentre i gatti sul tetto gnàulano disperatamente, bùbula il gufo, e la luna falcata, che scòrgesi dall'abbaino, corneggia più volte le sue estremità, come fan le lumache, cercando di riunìrsele. Spalmata è la peste, e il mago la getta fremente nella caldaja.

Io, intanto, avèa zeppa la sottofornace della legna spaccata, alternàndovela con carboni di rogo, fascinetti di spini e di mirto, ciuffi di sàndice, eringe, puleggio, ruta e mandràgora, che crescèvano a cespi fra gli interstizi del pavimento,, anzi, v'avèa aggiunto quanta carta sùdicia m'era caduta fra mani, cioè squarci dal Baffo, dal de matrimonio di Sanchez, dal cànone de dilectìssimis, dal trattato di Villanova ut mùlier hàbeat dulcèdinem — et caetera. Ma il mago non mi disse pur grazie. Un mago non dev'èsser gentile. Ei s'inginocchia di un cuscino colle armi della duchessa d'Estampes coronate dalla tiara papale; e borbottàtavi una giaculatoria alle dee Mùtuna, Cuba e Cicinia, disaccòcciasi un'àgata in forma di cuore, già estratta dall'urna di Caterina de' Mèdici, spiccàndone, mercè un tau egizio di ferro, una scintilla sul combustibile. Poi scaglia il cuor nel bacino. Si attacca la fiamma e crepitando si sparge per le fascine e le legna e lentamente si svolge a lambir la caldaja. Ed egli la instiga, dischiudèndovi-sotto le vàlvole di due canali di rame, sull'uno de' quali stà scritto suspiria; oscitatiònes sull'altro.

Sòffiano i tubi; sprònano il fuoco. Questo si alza furiosamente, mentre il mago rimùgina con una spada l'infernale miscèa e la miscèa si fonde e comincia a grillare e pùllulano bolle che scòppiano. Si addensa la superfice del lìquido e tenta di sollevarsi ma sempre si squarcia e ricade. Aumenta il follicare dei tubi, aumenta il fragor del bollire; geme la polta e si torce per trovare una fuga. Infine, una pellìcola appare, che può, dopo vani conati, èrgersi intera; e si erge prendendo vaporosamente un'umana figura e intrasparendo in un roseo di mattinal nebbia. Un biondìssimo fumo dalla fragranza di muschio vela la tremolante figura e si direbbe una chioma che giù s'innanelli a larghe onde; e fra l'aurèola di esse e del fumo, la figura accentàndosi a femminili curve e turgenze. Una bollicina di azzurro (vitriòlum caeruleum) le scoppia nel mezzo ed ecco frèmerle a pelle il reticolato venoso; una striscia di minio (cinnàbaris mercuriàlis) vi guizza ed ecco guance soffuse di pudico rossore, con una bocca che è un bacio; due faville vi scàttano, ed ecco due occhi, lucidi di desiderio e di làgrime, che intensamente mi fisano.

Amore mi tiranneggia. E già le pàlpito in braccio, e dileguo entro lei; ed anche il sogno dilegua.

Un'oncia meno di sangue; un libro di più.

 



(*) Tappeto




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