FINALE
Pùbblico mio, la commedia è finita. Tò! più nessuno. Gli spettatori
se la cavàrono bellamente per non compromèttere la lor dignità cogli applàusi.
Nòbili segni del loro passaggio, sono bucce d'arancio, gusci d'arroste,
spiegazzati programmi, scorci di zìgaro, aspèrgini ammoniacali — e un
fischietto, che è la perduta espressione di uno di que' benèvoli che vanno a
teatro col preventivo giudizio in taschino o lèggono i libri dopo di averne
scritta la crìtica. ¿Ma ecché? ¡Lampadài del diàvolo! Anche i lumi si spèngono;
ond'io, pòvero autore che pretendevo di rischiarare il mio pròssimo, tròvomi al
bujo, obbligato a cercarmi tastoneggiando la via.
Senonché una fresc'àura mi sorrade la fronte. Non più l'afa,
non più l'ottuso dell'arte. Sotto mi risuona il terreno, mentre m'inciàmpano i
piedi come in radici e do' del capo in cosi ondulanti quài pèndoli d'orologio.
E un nuvolone si squarcia. La luna appare cornuta, inargentàndomi intorno il
ricco fogliame di una selva di noci, tutta a frutti di forca.
In questa, un rumore da lungi, qual tuono, e sulla mia testa, che
aggriccia, uno sbàttere d'ali e un rombo. Nella lunare atmosfera nereggia, un
istante, un'immensa granata con su accavalcioni scarmigliate figure l'una
all'altra aggrappate. Sono le streghe che, nude e unte, vanno a tregenda. E la
granata dispare e in una folata zufolante di vento il rombo muore in distanza.
Ecco in fondo, un lumino — in fondo, in fondo com'è nelle
fiabe delle vecchie nutrici. Io anelo arrivarlo. Vò e vò, accèlero i passi, pur
non procedo. Sembra piuttosto che cammini la strada per mè, vènendomi incontro.
Il terreno sfùggemi sotto come la ruota motrice negli antichi opifizi a chi
dentr'essa si sgamba. E già il lume m'è a lato.
¿Che è? Una casa in rovina; la snumerata abitazione del boja.
E sulla soglia, dove il chiaro di luna si sposa ai caldi riflessi della luce
interiore, stà lo stesso inquilino, stà l'egregio chirurgo della legal
medicina, in un palandrano verde-smontato e in un galeotto
berretto, che a fiore di labbro mi fà: «Ti attendevo.»
Entriamo. È uno stanzone illuminato da torce dal giallastro
chiarore e dal puzzo di camposanto. Potrebbe pigliarsi, da chi non avesse
paura, per una cucina. Ma io, paura n'ho molta. Io non scorgo che coccodrilli
impagliati, che aborti e diavoletti in ampolle, e lambicchi dal naso lungo e
schêltri e corna di narvali e ova di roc, tutta roba indispensàbile a un mago,, e scorgo nel mezzo una fornace in mattoni, bassa e
quadrata, con su un trìpode in bronzo e una colossale caldaja di tersìssimo
ottone.
L'onesto assassino si accarezzava la sua barbettina di capro,
guardàndomi malignamente. «¡Incontentabile!» disse, «te ne fabbricherò una
io... perfetta,» e, sbassàtosi, alzò, per un anello di ferro, una pietra.
Un cupo stroscio si udì. Vidi un negro baratro di aqua
corrente e sulla bòtola lessi: làcrymae amàntum. E trèdici volte il boja ne
attinse, versando la secchia nel bacino di ottone.
Ciò fatto, egli mi porse una scure grommata di sangue e
capelli, e additàndomi un mucchio di combustìbile e un ceppo da tagliar legna
umana, mi ordinò: «¡Spacca!»
Strinsi la scure tremando. Formàvano il combustìbile, fràcide
assi di bara, òrride ancora d'arruginiti chiodi e di brandelli di lino, pezzi
di confessionari e inginocchiatòi oscenamente polluti e pezzi di trave lùcidi e
lìsi dal cànape, quercèe coperte di eròtici dizionari, canghe cinesi, spàzzole
eccitatrici, ficulnei prìapi, fàscini in cuojo, gambe rotte di letto... — e lì
mi diedi a spaccare, e, spaccando, tenevo d'occhio al mio boja, che avèa aperto
un vastìssimo armadio dov'èrano innùmeri vasi a mo' di que' de' speziali, di
faentina majòlica, soprascritti a caràtteri goti coi nomi di Filomela, Tàmar,
Erodìade, Emma, Lyonna, Jezabel, Mirra, la Brinvilliers, mamma Needham, la
Borgia, Caesar regina, Eliogàbalo... e mille e mill'altre.
Sul che, babbo Stricche, grattàtosi col dito infame la nuca,
schiuse pel primo il baràttolo di Eva, la protoputtana, donde trasse uno
specchio e una piuma che dopo di avere pulito, con un rastiatojo, di certo
glùtine nero (e questo pose in un piatto) gittò nel bacino. Indi passò ai
vasetti di Marìa Stuarda, la troppo fedele alla chiesa e troppo infedele agli
amanti, e di Marìa Egizia, la battezzata colle làgrime sue, da cui tolse un
pajo di crocefissi, con su inchiodato un dèus mutìnus, ch'ei nettò parimenti
della nera putrèdine e gittò nel bacino; e così fece dei filtri, nodi scorsòi,
fòrbici e lime, estratti dai recipienti di Dàlila e Dejanira, le vincitore di
Sansone e di Èrcole, e di Bersabèa e Brisèide, le impazzitrici di Dàvide e di
Achille; e così del ferro di mulo ch'egli trovò da Santippe, (la vera cicuta di
Sòcrate), così della lingua della Moglie di Giobbe, (quella moglie che Dio, nel
rapir tutto al suo amico, ùnica gli lasciò, a maggior punizione), e degli
stili, colubri, faci incendiarie e veleni, cavati dall'urne di Clitennestra,
Medèa, Taide, Locusta, Tarquinia. E in sèguito il mago (ché boja non oserèi più
chiamarlo) scoperse i baràttoli della socràtica Aspasia «sage au parler et
folâtre à la couche», della màscula Saffo, d'Ipazia l'astrònoma, Afrania l'avvocatessa,
Stàel la letterata... ed èccone uscire uno stormo di papagallini e di
palloncelli di vento con orecchie asinine, di cicale e di ochette, che, tortito
sul piatto la sòlita pece, vòlano nella caldaja, intanto che dal vaso di Làura,
gran dolore al Petrarca e gran seccatura all'Italia, sprigiònasi spontaneamente
una gentile civetta che tien la medèsima strada. Nè basta. Dalla coppa di lei
che immortalò Menelào e da quella della grossa Margot, l'ammogliata al rè di
Navarra e a tutti gli ugonotti di Francia, il mago si provvedette corna d'ogni
materia e lunghezza, mentre da Psiche, Pandora, e dalla Moglie di Lot,
altrettanti pugni di frasche; dalla casta Zenobia dai candidìssimi denti, da
Penèlope, Porzia e Lucrezia, màschere e fardi; e da Talestri, Giovanna d'Arco e
Giuditta, malli di noce e fichi d'India spinosi, ch'egli contemperò (sempre
s'intende spazzàndoli dal glùtine nero che deponeva man mano sul piatto) coi
grani di pepe e di ortica, tolti dai vasi di Messalina, Contessa A*** e Pasìfae
aggiùntovi inoltre un po' di pelle agnellina della
Vèrgine-Madre riunita alla pelle di cagna d'Ipparchia, e un
po' del cervello d'Eloisa, turbolente di sogni, alla prudentìssima vulva
commisto della Moglie d'Agrippa. E poi non mancò di scoperchiare i baràttoli di
Semiràmide, della papessa Giovanna, Agrippina, Contessa Matilde, Elisabetta la
grande, Cristina Di Svezia, Marozia, Cleopatra, per elèggerne penne paonine e
tacchi alti tutti intrisi della sòlita pece, e intrisi ancor più di quanto ne
èrano attaccaticci gli àbachi e le tariffe, le sanguisughe, le gole di grù e i
ventri di struzzo, presi da Flora, Làide e Metiche dal quarto d'ora, da Lamia,
Sinope abisso, Fanòstrata, Crispa e dalla Cheòpide. Scoperchia e scoperchia, la
caldaja s'empiva — una variopinta miscèa d'ogni fatta di roba. Ci si vedèano
peli di porco, peli di volpe, di scimmia, di gatto, di giumenta e di àsino
(quasi tutti strappati a regine dalla mano sinistra), ci si vedèano e grilli e
berretti a sonagli, tràppole e reti, pezzi di sùghero (forse cervelli),
calzette (forse coscienze), pìllole d'oppio e palle di piombo, denti nascosti
in sorrisi, trombe d'Eustachio al rovescio, assortite bugìe, tutelari
spugnette, enigmi, fughe per farsi inseguire, rapine abbigliate di tenerezza,
«sì» che parèvano «no», e «no» che parèvano «sì», piàttole ed esche, banderuole
e farfalle. E anche il piatto, che il mago teneva fra mani, rigurgitava della
nerìssima pece.
Allora il mago aprì un finestrino nell'alto, da cui piovve un
raggio di luna, e mettèndovisi sotto si die' a stemperare col grattatojo la
cupa tabe fojosa, piena, a quanto parèa, di becchi di pàssero e colombino
sterco. Ed ecco farsi, la sanie, trèmula e iridiscente e poi fumosa e fosfurea,
sviluppando un acutìssimo odore di stoccofisso e di Brie. A tale odore, oscillò
per la stanza come un fioco tintinno d'isìaci campanelli, un catenaccio di
castità, appeso al muro, si ruppe, si sciolse un nodo dello spilletto e un filo
di verginità si accorciò,, a tale odore, i capelli mi si
drizzàrono impriapiti e mi trovài sbottonato. E le chiavi infìlan le toppe, i
lìberi chiodi si fìccano nelle fessure e nelle bottiglie i turàccioli, cade il
pestello entro il bronzino e la paletta fra le gambe alle molli, mentre i gatti
sul tetto gnàulano disperatamente, bùbula il gufo, e la luna falcata, che
scòrgesi dall'abbaino, corneggia più volte le sue estremità, come fan le
lumache, cercando di riunìrsele. Spalmata è la peste, e il mago la getta
fremente nella caldaja.
Io, intanto, avèa zeppa la sottofornace della legna spaccata,
alternàndovela con carboni di rogo, fascinetti di spini e di mirto, ciuffi di
sàndice, eringe, puleggio, ruta e mandràgora, che crescèvano a cespi fra gli
interstizi del pavimento,, anzi, v'avèa aggiunto quanta
carta sùdicia m'era caduta fra mani, cioè squarci dal Baffo, dal de matrimonio
di Sanchez, dal cànone de dilectìssimis, dal trattato di Villanova ut mùlier
hàbeat dulcèdinem — et caetera. Ma il mago non mi disse pur grazie. Un mago non
dev'èsser gentile. Ei s'inginocchia sù di un cuscino colle armi della duchessa
d'Estampes coronate dalla tiara papale; e borbottàtavi una giaculatoria alle
dee Mùtuna, Cuba e Cicinia, disaccòcciasi un'àgata in forma di cuore, già
estratta dall'urna di Caterina de' Mèdici, spiccàndone, mercè un tau egizio di
ferro, una scintilla sul combustibile. Poi scaglia il cuor nel bacino. Si
attacca la fiamma e crepitando si sparge per le fascine e le legna e lentamente
si svolge a lambir la caldaja. Ed egli la instiga,
dischiudèndovi-sotto le vàlvole di due canali di rame,
sull'uno de' quali stà scritto suspiria; oscitatiònes sull'altro.
Sòffiano i tubi; sprònano il fuoco. Questo si alza
furiosamente, mentre il mago rimùgina con una spada l'infernale miscèa e la
miscèa si fonde e comincia a grillare e pùllulano bolle che scòppiano. Si
addensa la superfice del lìquido e tenta di sollevarsi ma sempre si squarcia e
ricade. Aumenta il follicare dei tubi, aumenta il fragor del bollire; geme la
polta e si torce per trovare una fuga. Infine, una pellìcola appare, che può,
dopo vani conati, èrgersi intera; e si erge prendendo vaporosamente un'umana
figura e intrasparendo in un roseo di mattinal nebbia. Un biondìssimo fumo
dalla fragranza di muschio vela la tremolante figura e si direbbe una chioma che
giù s'innanelli a larghe onde; e fra l'aurèola di esse e del fumo, và la figura
accentàndosi a femminili curve e turgenze. Una bollicina di azzurro (vitriòlum
caeruleum) le scoppia nel mezzo ed ecco frèmerle a pelle il reticolato venoso;
una striscia di minio (cinnàbaris mercuriàlis) vi guizza ed ecco guance soffuse
di pudico rossore, con una bocca che è un bacio; due faville vi scàttano, ed
ecco due occhi, lucidi di desiderio e di làgrime, che intensamente mi fisano.
Amore mi tiranneggia. E già le pàlpito in braccio, e dileguo
entro lei; ed anche il sogno dilegua.
Un'oncia meno di sangue; un libro di più.
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